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bianco dei marmi nel sottoposto cortile accresceva l’impressione di squallore e di aridità, volgevano ben lente e triste le ore. Venisse dalle ortaglie concimate, dai ruscelli stagnanti nelle praterie, dal gazometro non molto lontano, da esalazioni di pellami e di assi delle fabbriche, il tanfo morboso misto all’atmosfera viziata che usciva da ogni camera, da ogni polmone di quel grande alveare umano, mozzava il respiro alla moribonda e riconduceva più che mai vivo nel pensiero di Chiarina il ricordo dei cari pioppi tremolanti nella vasta campagna.
I signori Firmiani — oh! il poco tempo che aveva per pensare ad essi — si trovavano ai monti. Mariuccia era venuta a salutarla in negozio prima di partire e le aveva promesso che al ritorno sarebbe andata a vederla in casa. Se però Chiarina si era lusingata di poter riprendere a Milano le abitudini di una volta, quando faceva vita insieme coi Firmiani doveva convenire che il disinganno non poteva essere più completo. Milano, tanto vagheggiata, le appariva adesso quale un abisso immane dove tutto si perdeva, dove non era possibile incontrarsi, dove la febbre della vita impediva le dolcezze stesse della vita.