Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/IV

Tra la scuola e la canonica

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TRA LA SCUOLA E LA CANONICA.


Alla scuola, frattanto, egli continuava a dare tutte le cure, tenendo sempre fermo il metodo della “ritenutezza„ col quale aveva incominciato. Ma questo metodo presenta alle nature espansive, oltre alla difficoltà prima di metterlo in atto, un altro inciampo forse più grave: ed è che riesce più difficile a mantenere appunto quando se ne incomincia a cogliere i primi frutti, ossia quando la disciplinatezza e il rispetto dei ragazzi, conseguiti per suo mezzo, li rende più amabili. Egli n’aveva sette o otto, coi quali gli costava un vero sforzo di non dar la via alla sua indole affettuosa, tanto ne traspariva aperto dai loro occhi il desiderio, e quasi l’aspettazione; poichè pareva davvero che avessero indovinato il fondo del suo carattere, e attendessero che scattasse fuori da un dì all’altro, lacerando quell’armatura posticcia ch’egli v’aveva sovrapposto. Egli doveva fare ogni momento un atto risoluto della volontà per non ridere di quelle molte manifestazioni comiche graziosissime, che attirano l’affetto all’infanzia quasi altrettanto che gl’indizi della bontà; per non lasciarsi commovere da quegli scoppi di pianto, a cui segue dopo un minuto una bricconata, ma che paion sul momento [p. 97 modifica]così sinceri e così dolorosi; per arrestare a mezza via la mano che correva alla carezza, la voce che usciva in suon di preghiera, la parola che esagerava una lode per raddoppiare una gioia. In somma, la scuola gli riusciva faticosa per un altro verso, come quando la sua scolaresca gli era indisciplinata. E alle volte si tradiva, e allora s’irritava: era come una botte di vino giovane che geme dalle commettiture. E si moveva delle obbiezioni: per ottener l’ubbidienza di tutti, non perdeva forse l’affetto dei migliori? E avrebbe voluto potersi rispondere di sì, per avere almeno una ragione per smettere; ma la coscienza gli diceva di no: egli era ben certo ch’era meglio così anche pei migliori, che l’affetto rimanesse oppresso dal rispetto piuttosto che annegato nella licenza: era poi certissimo che fosse meglio per tutti gli altri, dai quali per la via del cuore nulla avrebbe ottenuto. Ma, intanto, non sentiva più a far scuola il piacere dei primi mesi. Per lui, che aveva pochi anni di più dei suoi alunni, e che qualche volta avrebbe ancora giocato con essi come un coetaneo, quel nuovo modo d’insegnare e d’educare era come un invecchiamento volontario. Gli pareva d’essersi raccorciata l’anima, di essersi già logorato in un insegnamento di vent’anni. E altri dubbi l’assalivano. Perchè non poteva mantener la sua autorità mostrando il suo carattere tale e qual era? Non derivava questo da imperfezioni, da uno squilibrio ch’era nel suo carattere stesso? da una mancanza di misura, di costanza, di elevatezza in quella bontà medesima, con la quale avrebbe voluto poter tutto ottenere? Credeva di aver peccato, di troppa bontà; e se invece non ne avesse avuta abbastanza? Egli aveva buttato via quello strumento come inservibile; ma non sarebbe stato meglio che si fosse provato a perfezionarlo? E non derivava, per caso, dal non comprendere l’opportunità, e dal non aver fede nella riuscita di questa prova, il fatto che tanti maestri, naturalmente buoni e amorevoli, scegliessero, dopo l’esperienza di pochi anni, un modo di far scuola in tutto contrario alla loro natura?


Occupato spesso da questi pensieri, tirò innanzi i primi mesi, e cominciava a stupirsi, conoscendo l’aria del paese, d’esser lasciato in pace per tanto tempo, [p. 98 modifica]quando una visita del sindaco gli venne a portare il primo annunzio di guerra.

Egli entrò, dopo aver scrollato con gran cura l’ombrello bianco di neve, e comparve dietro di lui il soprintendente, col viso luccicante, come se si fosse asciugato col grembiale della pizzicherìa. Tutta la persona di costui, alta e grossa, e schizzante salute, spirava a traverso a una certa benignità, l’importanza grande ch’egli attribuiva alla sua carica; grande tanto, infatti, e così profondamente sentita dalla sua famiglia, che una sua bambina (era un fatto noto nel paese), il primo giorno ch’era andata a scuola, al comando della maestra: — In piedi! — aveva domandato con ingenuità se anche lei, figliuola del soprintendente, si dovesse alzare.

Mentre il sindaco guardava per le pareti e sul pavimento, se ci fossero macchie o scrostature, il soprintendente, per imitazione, dava un’occhiata ai banchi, cercando le chiazze d’inchiostro e gl’intagli.

Il sindaco domandò conto al maestro dell’andamento della scuola. Era molto cortese: doveva aver qualche commissione delicata da compiere.

Il maestro lo sospettò quando, fatte alcune domande vaghe senza badar quasi alle risposte, quegli lo pregò di far leggere a qualcuno l’ultimo componimento, per sentir la lingua. Il tema del componimento era: Vittorio Emanuele che accorre a Roma inondata dal Tevere, nell’autunno del 1870.

Intesa la lettura d’un lavoro, disse lentamente, e con voce benevola: — Sta bene. Però.... non sarebbe male che, di quando in quando, ella desse anche qualche soggetto.... L’insegnamento letterario può benissimo venire in aiuto di quello morale.... Dicendo morale, intendo di dire precipuamente religioso. La storia religiosa offre degli argomenti stupendi. Vi sono fatti grandi.... di santi, che furono anche grandi uomini.... e in scienza, e in altro. Così si coglierebbero due vantaggi.... simultanei. D’altronde.... non è male variare.

Il maestro indovinò alla prima da che fonte venisse il consiglio.

E rispose con buon garbo: — Mi perdoni, signor sindaco.... Io credevo bene di distinguere i due insegnamenti... tanto più perchè gli alunni ricevon già [p. 99 modifica]l’istruzione in chiesa, tutti quanti.... Non volevo invadere il campo....

— Non è invadere il campo, signor maestro, — disse il sindaco — è allargarlo. Questo ho voluto dire.

— Perdoni, — riprese il maestro, accortamente. — Perchè io mi sappia regolare: il signor sindaco non trova mica che ci sia nulla d’inopportuno nel tema che ho dato?

— Non dico questo, — rispose il sindaco, che sentì la stoccatina, e fu fatto un po’ più ardito dalla picca; — .... sebbene, in fondo, non è proprio necessario di ricorrere a fatti recentissimi.... Su questi, alle volte, ci son nelle famiglie dei modi di vedere differenti.... Sono cose politiche, infine.... Il meglio sarebbe di lasciarli ai giornali. Non dico tanto per il tema in discorso.... ma perchè un argomento ne tira un altro. Dunque, — concluse, come stizzito del suo stesso imbarazzo — s’acconci al consiglio dei vecchi.... lei che è giovane.... e intelligente. Se ne troverà bene.

Il maestro, piccato anche lui, non rispose.

Ma pareva che il sindaco aspettasse una risposta.

— Il signor sindaco — rispose allora, un po’ asciutto — giudicherà i temi che darò d’ora innanzi.

Il sindaco capì benissimo che sotto a quella risposta sguisciante si nascondeva un proposito d’indipendenza; ma finse di non capire. E preso il componimento di mano all’alunno, fece delle osservazioni sulla lingua, con l’aria di chi maneggia i ferri del suo mestiere.

— Dice qui — osservò — nel momento che il popolo accorreva. Io direi: nel momento, nel quale accorreva.

— Domando scusa, — disse il maestro, — il che è grammaticale, in questo senso.

— È più grammaticale l’altro modo, — ribattè il sindaco. — Anche nella lingua la prima cosa è la logica. Questo che può ingenerar confusione. — E continuò: — Verso gli ultimi del mese. Ultimi che cosa?

— Giorni — rispose il ragazzo.

— Perchè non l’hai scritto?

— È una ellissi dell’uso, — disse il maestro.

— Io guardo all’uso della ragione, — rispose il sindaco. — Non ci può essere attributo senza soggetto. La precisione avanti tutto.

Poi bollò due o tre cui, e prevenne l’osservazione [p. 100 modifica]del maestro: — Lo so, non è un vero errore. Ma se ne fa un abuso, e non è una parola che suoni bene. Io l’ho sempre cancellata dalle minute dei miei impiegati. La combatta ella pure, e se ne troverà bene.

Questa frase esasperava il maestro.

— Del rimanente, — terminò il sindaco, chinandosi a guardare sotto la stufa — tutto va bene. — E poi, rivolto al giovane: — Buon contegno, pulizia. Continui così. Raccomandi agli alunni di strisciar bene le scarpe prima d’entrare.

Per dire anche lui qualche cosa, il soprintendente chinò il viso sul quaderno d’un ragazzo, e gli disse gravemente, segnandogli col dito una parola: — Metti il puntino a quell’i.

E tutt’e due se n’andarono, girando un ultimo sguardo sulle pareti.


Il parroco, dunque, aveva mosso la prima pedina. Ma il maestro riseppe presto di peggio: che domandava ai suoi scolari quello ch’egli dicesse in scuola della religione, e che libri leggesse e consigliasse di leggere; e che il vice parroco, più iroso del suo padrone, insegnando il catechismo ai suoi alunni, aveva dato una vergata a uno che non sapeva rispondere, e gli aveva detto: — Prendi, e va a dire a chi t’insegna la religione dei framassoni che ce ne sarà anche per lui, se ne vuole! — S’accorse pure che ci doveva avere una spia in classe poichè gli resultò che al parroco era stato riferito il gesto di noncuranza ch’egli aveva fatto in scuola, appena usciti il sindaco e il soprintendente. E andò a chieder un consiglio in proposito a don Pirotta. Ma questi, sempre più giù di salute, era un benedett’uomo, a cui piaceva di fare una guerra coperta, ma palesemente cortese, con l’intento diplomatico di far risaltare la violenza villana del suo avversario illetterato al confronto della sua dignità signorile di prelato colto; e si ristrinse a consigliarlo di non si dar pensiero di quella guerra, che tutto sarebbe finito in un bicchier d’acqua. Allora chiese consiglio al delegato. Ma questi scrollò le spalle, in atto di pietà. E gli citò un verso di Dante allungato: Non ti curar dei preti, ma guardali e passa. E soggiunse: — Del resto, quando comincieranno le ostilità sul serio, ci [p. 101 modifica]saremo noi. Ma stia sicuro che per ora è un altro il bersaglio. — E si spiegò. Tutte le ire del parroco s’andavano addensando sul capo della Fanari, dell’ebrea, come quegli la chiamava da un anno e mezzo, perchè non era andata a messa la prima domenica. E s’erano rinfocolate le ire antiche per varie cause; prima perchè, mentre la maestra Manca aveva regalato un ricamo per l’altar maggiore, essa non aveva dato nulla, non solo, ma neppure aveva accettato la proposta delle sue alunne più grandi, di far un lavoro fra tutte per la chiesa; e poi perchè stava lavorando, notoriamente, a ricamare una bandiera tricolore, la quale, per “iniziativa„ di alcuni consiglieri dell’opposizione, doveva esser regalata il 14 marzo al Municipio, con la condizione che fosse inalberata d’allora in poi sull’edifizio delle scuole, dove nè in quel giorno, nè in quello dello Statuto, nè il venti settembre, non s’era mai visto uno straccio di bandiera. Il parroco era fuor della grazia di Dio per quest’ultima cosa, specialmente. Girava per le case a metter su i parenti contro la maestra “politicante„. Le aveva persin levato il saluto. Si aspettava da un giorno all’altro qualche scandalosa sfuriata dal pulpito. Ma la maestra serbava sempre il suo bel viso tranquillo e quella smorfietta del labbro di sotto.... — Una smorfietta — diceva il delegato — che tira i baci, non c’è che dire. Ah! se potessero scoprire il segreto! C’è il vice parroco che andrebbe da Piazzena a Torino a quattro gambe, come un porco. — E, a proposito, il maestro si doveva guardar bene intorno la sera, se aveva qualche pratichetta nei vicoli, perchè quel pretone era un bracco infaticabile, capace di stare alla posta tre ore a una cantonata, e se faceva presa, era la fin del mondo. E si doveva riguardare anche dai sacrestano, un vecchio disfatto, che si vestiva con gli spogli verdognoli di tutti i preti del comune. Quella rovina ambulante era mezzo secolo che faceva la spia dei maestri, e aveva già mandato a picco molti amori. — Ah! caro maestro — terminò col dire — siamo mal serviti quanto a ministri di Dio. Non c’è che don Biracchio.