Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Piazzena - II | Piazzena - IV | ► |
IL MISTERO DELLA MAESTRA FANARI.
Per qualche tempo, nondimeno, il Ratti non fu molestato. La bestia nera del parroco era per il momento la maestra di 1a, che si chiamava Elda Fanari; e la sua inimicizia datava fin dal primo arrivo della signorina nel paese, perchè, invece che da lui, s’era andata a confessare da don Pirotta. Egli l’aveva masticata così male, che un giorno non s’era potuto trattenere dal dirglielo fuor dei denti: che andando da un altro e non da lui, — prima autorità ecclesiastica del comune, e quasi suo confessore di diritto, — essa gli faceva in certo modo una manifestazione pubblica di sfiducia, che offendeva la sua dignità parrocchiale. Ma la maestra aveva tenuto duro, e il reverendo se l’era legata a un orecchio. Questo riseppe il giovane da un consigliere comunale, ex sindaco, capo dell’opposizione, avvocato senza studio, e delegato scolastico a tempo perso, che una sera al caffè gli si mise a discorrere di punto in bianco con una familiarità di collega. Era un bell’uomo di cinquant’anni, vedovo, vestito con certa attillatura di giovanotto, di fisonomia aperta e piacevole; il quale, discorrendo, metteva in mostra volentieri una larga mano inanellata.
— Ebbene, caro maestro, — gli domandò tra le prime cose, — l’ha già avuta dal nostro bravo sindaco la famosa lezione sul cui?
Vedendo il maestro sorridere, diede in una risata. E senza preamboli cominciò a rosolare l’Amministrazione, sempre celiando però, e senza lasciar trapelare nè rancore, nè invidia. Gli raccomandò, fra l’altro, di salvare i quaderni degli alunni dalle granfie di quel buon pancione di soprintendente. Un gran galantuomo, un modello di soprintendente, colto, che leggeva senza impuntare qualunque stampato; ma che aveva l’abitudine di far delle irruzioni improvvise dalla bottega nella scuola, senza lavarsi le mani, in modo che, esaminando i quaderni, ci lasciava delle ditate d’unto di lardo e di formaggio di Castelmagno, che eran la disperazione del sindaco. Poi, strizzando un occhio, gli domandò che cosa gli paresse della maestra Fanari. — Ah! maestri fortunati! loro che le hanno a portata della mano!
L’uscita, per un delegato scolastico, era un po’ forte. Il maestro lo guardò, maravigliato. Egli non conosceva ancora un tipo non raro nei villaggi, che è il signore, per lo più attempatotto, che ha la vena amorosa della classe magistrale, come ci sono in città quelli che l’hanno per le ballerine, per le crestaie, per le impiegate, o per altra famiglia particolare del bel sesso, la quale esercita sopra di loro una specie d’attrazione professionale. Il consigliere avvocato aveva, fin dalla gioventù, il baco degli amori scolastici, prediligeva la bellezza patentata dal Ministero dell’istruzione pubblica. Aveva sempre seminato, o cercato di seminare in quel solco, e avanti e durante il suo sindacato aveva avuto delle fortune, preso dei mazzi di granchi, e dato luogo a scandali, da cui non era stato punto smorzato il suo ardore. Anche dopo ch’era delegato scolastico, non parlava mai altro che di scuole femminili, come se le scuole dei maschi non esistessero; e di quelle pure non si serviva che come d’un appiglio per venire a parlare di maestre. La maestra, per lui, aveva in sè qualche cosa di squisito e di recondito, non so che profumo di voluttà letteraria e di castità monacale, che l’attirava, come un frutto proibito. Egli diceva: — una maestra patentata l’anno scorso — con l’acquolina in bocca, come un ghiottone direbbe: — una trota pescata questa mattina. — E conosceva tutte le maestre del circondario: era capace col pretesto immaginario d’un dovere d’ufficio, di fare una scalessata di sei miglia per andar a vedere in un comune una maestra nuova arrivata, della quale avesse inteso fare gli elogi; estetici, si sottintende. Parendogli che il maestro non volesse entrare in quel discorso, ce lo tirò di forza. — E dica un po’, che maestrine c’era a Garasco? — E inteso i tratti caratteristici della maestra declamatrice, ch’egli strappò di bocca al giovine a uno a uno, stette un po’ pensando, con gli occhi socchiusi, come per gustar bene coll’immaginazione quei due sapori confusi e diversi di maestrina e di villanella, che parevano una cosa peregrina per lui. E fece lo stesso per la cugina, di cui il maestro gli diede un cenno, ma con aria di golosità più raffinata, ripetendo: — Maestra due anni nell’Italia meridionale! — con l’accento del bevitore che parli d’un vino navigato.
Poi ricadde sul discorso della maestra Fanari, specificandone le grazie. — Una simpaticona, non è vero? Una vera signora. Avrà osservato che mani. E sa che scrive che è un incanto? Degli occhi che guardan da cento parti a un tempo, in cielo, in terra e in ogni luogo. Starebbe meglio due dita più alta, e un po’ meno fatticcia del corpo; ma non vuol dire.... E quella smorfietta del labbro di sotto? È d’un appetitoso! E poi c’è l’attrattiva del mistero! Come, lei non sa ancora il mistero della maestra Fanari? —
Il mistero era strano, veramente. La Fanari era venuta l’anno innanzi, da un villaggio dello stesso circondario, a sostituire una maestra stata licenziata per aver chiusa la scuola un bel giorno di carnevale ed essere scappata a Torino, non ad assistere sua madre malata, com’essa aveva detto, ma per andare al veglione del teatro Scribe col suo amante, com’era resultato poi al provveditore da un’inchiesta solenne. Ora si dava il caso che la Fanari pure aveva la madre a Torino, malata di cuore; per il che, appena si era saputo che la maestra faceva una corsa in città ogni dieci giorni, grazie al tranvai inaugurato da poco, e anch’essa con lo scopo messo avanti da quell’altra, era nato in molti, per ragion d’analogia, un vago sospetto che la malattia della madre fosse per lei pure un pretesto. È vero che, avendo il sindaco domandate informazioni, l’esistenza della madre e la sua malattia erano state accertate; ma il sospetto, alimentato da altre circostanze, non era morto per questo. Un pezzo di ragazza a quel modo, con quegli occhi, doveva avere un amante. E poi le gite erano troppo frequenti. E poi, quando tornava da Torino, non aveva punto il viso grave di chi ha compiuto allora allora una delle sette opere di misericordia. Anche in paese, dove la sua condotta era irreprensibile, aveva l’aria troppo soddisfatta per una ragazza di quell’età e di quel temperamento. Cose da dare a intendere ai gonzi. L’amoretto ci doveva essere. E, stuzzicati da quella curiosità, le si eran messi dietro parecchi, un branco di spioni che cercavan per tutte le vie di aver le prove del ripesco e di scovare l’amico. Avevano incaricato del servizio di polizia degli amici di Torino. Alcuni erano andati là apposta, due volte, a fiutare le sue pedate. Ma non scoprivano nulla, e ci s’accaloravano sempre di più. La machiona era troppo accorta da farsi cogliere. Tiraron su le calze alla serva, ma inutilmente. Tennero d’occhio la sua corrispondenza postale; ma essa non riceveva che delle cartoline di sua madre, e un giornale scolastico. Sospettarono del giornale, dove potevano essere segnate le lettere con uno spillo, e dati così gli appuntamenti. Lo stesso farmacista, ch’era uffiziale di posta, vinto dalla curiosità che gli fremeva attorno, esaminava il giornale contro luce. Ma non c’erano buchi. Non potendo far altro, studiavano il viso di lei al ritorno, tendendo a tutta forza l’arco del comprendonio: notavano il colorito, le occhiaie, il passo. Il vice parroco, fra gli altri, la squadrava con degli occhi di Torquemada, furioso dentro. E, a dire il vero, c’eran degli indizi. Ma come attaccarsi a così poca cosa? Il delegato consigliere non diceva che da principio avevan sospettato di lui; ma il sospetto era svanito dopo che avevan visto ch’egli non andava mai a Torino negli stessi giorni, e anche perchè un altro sospetto s’opponeva a quello: cioè, che fosse già corsa una relazione fra loro, quando lui era sindaco, e lei maestra nell’altro villaggio, dov’egli scappava sovente; relazione che doveva esser troncata da un pezzo. No, l’amico era un altro, un giovane sicuramente, irreperibile. Dopo una delle sue corse le avevan persino visto una rosa nel collo, e l’avevan commentata per una settimana. Era una cosa da mangiarsi le dita. Ed essa medesima, che indovinava tutto, pareva che ci godesse a irritare quella curiosità e a tener vivi quei sospetti con quel contegno studiatamente riservato, con quella piccola smorfia canzonatoria del labbro di sotto; e quanto più si sentiva spiata e scrutata, tanto più si mostrava tranquilla e rispettosa con tutti, guardando chi le tirava delle satire con due begli occhi stupiti, come se non capisse, mentre vi luccicava un sorriso che voleva dire: — Capisco, e dànnati! — Infine, si diceva ch’era uno scandalo che il sindaco le desse dei permessi così frequenti. Ma il sindaco aveva un debole per lei perchè era maestra della sua ultima bimba, che l’adorava: e poi, come insegnante, poteva esser citata a modello; e la madre malata esisteva, e le chiacchiere non eran fatti. Bisognava dunque rodere il freno. Il paese non ne poteva più.
L’avvocato se la godeva in questi discorsi. E concluse: — Tocca a lei, giovanotto, a soppiantar l’amico di Torino. Ah! aver ottocento lire di stipendio e ventidue anni....
Ma al giovine non passò neppure pel capo di tentare quello che l’avvocato gli suggeriva: egli era uno di quei timidi che a mala pena hanno il coraggio di assalire le fortezze indifese, e davanti alle presidiate indietreggiano. Lo spingeva invece una simpatia d’amico verso l’altra maestra. Maria Manca, in casa della quale era stato invitato dalla madre; e v’andava qualche volta. Udendo parlare quella povera vecchia, che viveva collo stipendio della figliuola, e della piccola rendita d’un’accensa, si ricordava di sua madre; e la tristezza dolce di quella ragazza che aveva consumato nella scuola il fiore della sua gioventù, lo attirava. Togliendole col pensiero molti anni, e ritoccando i contorni immiseriti della sua persona, gli pareva che, per l’animo, essa avrebbe corrisposto a quell’ideale di maestra ch’egli cercava. Era una natura come vinta dalla sua professione. Sul suo viso si leggevano i lunghi anni di vita stentata, le ansietà di perdere il posto, i terrori delle visite ispettorali, le tracce che v’avevan lasciato le brutalità dei sindaci, le villanie dei parenti, l’ingratitudine delle alunne malvagie, e la pazienza santa con cui essa aveva sopportato tutto. Eppure nominava con un accento rispettoso, che le era diventato abitudine, le autorità del paese, e parlava delle alunne più ragguardevoli della sua classe — le nipotine dell’assessore — la bimba del soprintendente — come avrebbe parlato di figliuole di principi. E pareva che non avesse più ombra di civetteria, e nemmeno di quella vanità sessuale, istintiva e senza scopo, che perdura anche nell’età in cui si è rassegnati a non più piacere. Solo qualche volta, levando il capo da un ricamo che stava facendo per l’altar maggiore della chiesa parrocchiale, e fissando lo sguardo sul muro, mostrava negli occhi un languore istantaneo, come il luccichìo d’una lacrima già caduta, che forse esprimeva la visione d’un’altra vita, ch’essa aveva sognata da giovinetta, il rimpianto d’un amore andato a male, una tristezza di tutta quella infanzia che le era passata davanti, senza ch’ella avesse mai potuto dire ad alcuno: — Sei mio. — Non si lagnava della sua condizione, nè d’altro; adempiva ai precetti religiosi, senza bigotteria; non si faceva quasi vedere nel villaggio, fuor che per fare la spesa. E la prima volta che disse questo, soffermandosi sulla frase far la spesa, diede uno sguardo interrogativo al maestro, per vedere se gli paresse offesa la comune dignità professionale dal suo abbassarsi a quell’ufficio. Ma fu quello sguardo, invece, che la mise più alto nella sua stima e più addentro nella sua simpatia.