Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/V

Don Biracchio

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DON BIRACCHIO.


E un giorno condusse il Ratti a far una visita a don Biracchio, che era il più bell’originale chiercuto del mandamento. Il maestro l’aveva visto qualche volta nel villaggio, ma di sfuggita. Egli stava in una borgatella di poche case meschine, lontana più d’un miglio da Piazzena, e abitava solo in una biccicucca composta d’una cameraccia al primo piano e di due piccole stanze a terreno, con davanti un cortiletto od orticaio di pochi palmi quadrati, che pareva un piccolo cimitero di famiglia. Aveva un legato di poche centinaia di lire all’anno, con l’obbligo di far scuola ai ragazzi della borgata, che non eran mai più di dieci o dodici, e con quello, rincalzato di qualche messa e di qualche incerto, viveva. Era il più formidabile mangiatore che si conoscesse nel giro di quindici miglia, un carnivoro senza fondo, sempre inchiodato per causa della ciccia, capace di mettersi all’anima un quarto di vitello arrostito; il che non gli toglieva d’essere un bevitore di prima forza. Un anno aveva speso tutti i suoi proventi soltanto per pagare il macellaio di Piazzena; il quale, per consuetudine, quando gli rimaneva un miriagrammo di carne invenduta, che minacciasse d’andar a male, la mandava per un espresso a don Biracchio, che la comprava sempre, con un ribasso. Comperava anche, a ogni occasione, della carne di vacca morta per accidente, per lo più una coscia, e l’appendeva fuor della finestra del suo terrazzino di legno, per darvi poi un fendente di coltellone ogni tanto, quando si sentiva languir lo stomaco. Era conosciuto per mangiate miracolose in tutte le osterie dei dintorni; in una delle quali, una volta, giocando alla mora per tre giorni filati, aveva guadagnate e asciugate colla compagnia tre brente di Barbera amabile. E delle più solenni bertucce si curava con una infradiciata, tenendo mezz’ora la nuca sotto una fontana, o facendo quattro o cinque miglia sotto la pioggia, a capo scoperto. Poi, quand’era al verde, passava delle settimane senza veder [p. 103 modifica]nessuno, chiuso nella sua baracca. Galantuomo, del rimanente, che non aveva mai dato uno scandalo, e buon diavolo, tanto che i suoi scolari lo trattavano come un camerata, tirandogli la sottana per farsi dar retta, e parlandogli tutti e dieci a una voce. E per impedire appunto questi abusi di confidenza, egli soleva nella buona stagione far stare i suoi alunni nel cortiletto, seduti fra i sassi e le ortiche, coi libri fra le gambe, e alcuni con un guscio d’ovo per calamaio, e lui faceva la lezione dal terrazzino, accanto alla coscia di vacca appesa al muro, con un litro fra i piedi.

Strada facendo, il delegato raccontò al maestro l’ultima monelleria che avevan fatto a don Biracchio i suoi alunni. Egli teneva nel cortiletto una mezza dozzina di galline, e ogni volta che sentiva un coccodè, piantava la lezione e scappava fuori a pigliar l’ovo. Che cosa avevano stillato quei malanni per farlo disperare? Erano andati a pescare a quattro miglia di distanza un piccolo pecoraio dell’età loro, un famoso artista che faceva il verso della gallina con perfezione inaudita, l’avevano (pareva) scritturato, e nascosto in una buca, davanti alla casa; e il resto s’indovinava. Il povero prete aveva galoppato tutta una mattinata, venti volte deluso, senza capire, con la faccia in sudore, disperato, e gli alunni avevan fatto delle risate da strapparsi la pancia.

Quando furono davanti alla casipola, che appariva ancora più povera e triste sotto il cielo coperto di nuvole nere, il delegato chiamò ad alta voce: — Don Biraaaacchio!

Un momento dopo s’aperse un finestrino a terreno, che aveva due fogli di carta in cambio di vetri, e comparve un largo viso ossuto e rosso, con due occhi piccolissimi e una gran bocca stupita.

L’uscio s’aperse. I due visitatori entrarono in una stanzetta nuda, dov’era una botticella di vino sopra una panca, un mucchio di fascinotti in un canto, e tutto l’ammattonato ingombro di pezzi di legna, di penne di galline, di gusci di noce e di ballotte biasciate, con qua e là scarponi e randelli: da una corda tesa lungo una parete affumicata pendeva della biancheria messa a asciugare. Il maestro osservò con curiosità quello [p. 104 modifica]strano prete cinquantenne, piccolino di statura e larghissimo di spalle e di petto, che aveva un vocione di basso e mostrava d’avere una salute di ferro e una forza erculea. Egli li ricevette cordialmente, sbrogliando il pavimento a pedate, e li fece entrare nell’altra stanza, non mobiliata che d’un armadio, d’un cassettone e d’una tavola grande per gli scolari, sulla quale c’era qualche libro, un rasoio aperto, una saliera, dei tegami, un giornale. Andò subito a attinger del vino e lavò due bicchieri in una catinella, mentre il maestro, dando un’occhiata ai libri disposti in fila sul cassettone, ci trovava un’altra stranissima mescolanza di cose: libri di chiesa e di scuola, delle Sibille celesti, il vecchio romanzo storico I montanari sardi, e Dio sa per che via venuto, il libretto della Gemma di Vergy.

Ah! che buona spanciata di buonumore! Da un pezzo il povero maestro non aveva più riso così di vena. Ma il meglio era che don Biracchio non rideva mai: detta la facezia, stava a vederne gli effetti aggrottando le sopracciglia sui suoi due occhi di pulce e arrotondando le labbra come per fischiare. Conosceva tutti quanti, dal primo signore all’ultimo vaccaro, su tutta la superficie del mandamento, era al fatto d’ogni avventura e d’ogni braca fino a vent’anni addietro, e sopra ogni caso o persona aveva in pronto un aneddoto pepato e esilarante. E poi un tritume di discorsi da non potersi riassumere: con che metodo aveva fatto il vino, in che modo aveva riparato a una filtrazione d’acqua nel muro, la storia del suo rasoio, il modo di far l’insalata; ma le cose meno significanti pigliavano in bocca sua un certo sapor lepido e nuovo, e rivelavano tutte insieme un senso così piacevole della vita, una filosofia così comoda, una sanità così tranquilla del corpo e dello spirito, che, udendolo, veniva la voglia di fermarsi a mangiar là, in quei tegami, e di prender domicilio in quella catapecchia, con lui, per viver fuori del mondo, senza pensieri e senza malinconie. E pareva, a sentirlo, che avesse una vita piena di faccende: si levava alle cinque, spazzava, spaccava legna, armeggiava per dell’ore tra i suoi quattro mobili, e poi si faceva da mangiare, e la scuola, e l’uffizio, una corsa di qua, una corsa di là: non gli bastava la giornata. E [p. 105 modifica]così avrebbe seguitato a parlar fino a sera, intercalando ogni tanto alle bazzecole una sentenza di buona morale, un giudizio sensato sulle cose del comune, o una riflessione o un motto che indicavano buon senso e finezza di spirito; tutto come accompagnato da un riso interno continuo, che si comunicava agli uditori, senza passar pel suo viso. Il delegato gli diede un tocco di qualcuna delle sue prodezze di bocca, per farlo dire; ma egli sviò il discorso, per suggezione del nuovo venuto. Allora gli domandò dei suoi alunni.

— Ah! non mi parli di quei mascalzoni! — rispose. — Ne fanno alla palla di me. Son troppo minchione per fare il maestro. — E raccontò le loro ultime gesta, sull’uscio. — Si figuri, la settimana passata, durante la lezione, comincia a domandarmi uno d’andar fuori, per un bisogno, poi un altro, e poi un altro; tutti volevano uscire. Domando: cos’è questo? Dicono: abbiamo fatto una scorpacciata di mele. Bene. Vanno fuori tutti, chi due, chi tre volte. Ci stavano un’eternità. Io ero senza sospetto. Ma alla fin della lezione me li vedo tutti rossi di fuoco. Non n’era uscito uno, capisce? Si fermavan tutti nella stanza di là, avevan sturato la botte, mi succhiavano il vino con una canna, per turno. Ma delle fiancate da brentatori! Sei litri abbondanti me n’hanno ingoiato, quei cani.

E rimase serio tra le risate degli altri due.

— E non li ha castigati? — domandò il delegato.

— Ma cosa vuol castigare, Dio benedetto, se eran tutti briachi!

E di nuovo lasciò ridere gli altri. Aveva un giornale in mano. Il delegato ne guardò il titolo.

— Come! — gli domandò. — Non era abbonato all’Eco?

— Ero — rispose il prete, con accento di disgusto; — ma l’ho lasciato perchè faceva contro all’Italia.

E detto: a rivederci, rientrò nel suo romitorio, lasciando il maestro maravigliato dell’accento sincero e fermo col quale aveva detto l’ultime parole.

A una trentina di passi dalla casa, il delegato si voltò indietro, e gridò un’altra volta — Don Biraaaacchio!

Quegli si affacciò al finestrino. [p. 106 modifica]

— L’avverto — gridò il delegato — che a giorni vien l’ispettore!

Il prete rispose con voce stentorea: — Siamo pronti!

E richiuse.