Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/L'ex granatiere
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L’EX GRANATIERE.
Egli sarebbe stato molto più contento se avesse potuto presentire che quel nome scoperto così per caso in una gazzetta lacera di quattro mesi avanti era come uno di quegli avvertimenti intimi e improvvisi che riceviamo alle volte per la via, dell’avvicinarsi d’una persona non più vista da anni; la quale ci appare dinanzi un minuto dopo, alla svoltata d’un canto, e c’inchioda là con la bocca aperta. Non era trascorso un mese da quel giorno, infatti, che passando una mattina sotto i portici della piazza del Municipio, a Torino, dove aveva fatto una corsa per rivedere i suoi fratelli, egli vide davanti a sè, in mezzo alla folla, una lunga schiena un po’ arcata, e una larga nuca sanguigna, che gli destarono una vaga reminiscenza. L’uomo camminava lento, in atto di meditazione, tenendo una man nell’altra dietro le reni, e anche le mani gli parevan quelle. Il giovane lo raggiunse, e lo chiamò: — Lérica! — Si voltarono due grand’occhi e due gran baffi: era lui.
— Ratti! — gridò con l’accento rude con cui soleva far l’appello dei granatieri; e per dimostrazione di gioia gli piantò le sue due mestole sulle spalle, e gli diede una scrollata che lo fece tremare da capo a piedi.
E s’affollarono di domande a vicenda. Il maestro Ratti accennò in quattro parole i casi suoi, e disse, ridendo, dell’articoletto del giornale. L’amico si rannuvolò.
— Ma insomma — gli domandò il Ratti — perchè sei a Torino?
Il Lérica non rispose subito. Poi, incrociando le braccia sul petto e guardandolo in aria pensierosa: — Sai, Ratti, — gli disse — che abbiamo fatto tutti e due una grande asineria?
E a mano a mano accendendosi, raccontò come fosse venuto a Torino per una lite che aveva col municipio di Casariga, dov’era maestro da tre anni: il più sporco paese che si potesse trovare sulla superficie della terra. Non sapeva rendersi ragione di come avesse accettato quelle condizioni, uscendo dalla Scuola con trent’anni sul groppone: sei ore di lezione nel capoluogo del comune, tre volte la settimana, e gli altri giorni andar a far scuola in un altro maledetto paesucolo, lontano tre chilometri, per una strada infame, tanto l’inverno come l’estate; un inverno di Siberia, un’estate arrabbiata, e nell’altre stagioni un’umidità da far ammuffire le orecchie.
Il Ratti rise, rivedendo passare sul suo viso le vampe antiche.
Il primo anno, nondimeno, non c’era stato tutti i danni, perchè aveva avuto un ottimo sindaco, un maggior relatore di fanteria pensionato, un po’ pedante, ma galantuomo, col quale era andato d’accordo. Ma poi era venuto su un malfattore prepotente, con cui non c’era più stato modo di vivere.
— Immagina, prima di tutto, che cosa fa l’amministrazione: un branco di banditi che si burlan dei maestri, della legge e di Cristo. Volevano avere una bella casa comunale per imbrogliare il prossimo al largo. Fanno far la pianta d’un bell’edifizio, a cui dànno il nome d’edifizio scolastico, e domandano il concorso del Governo. Il Governo, che non sospetta la frode, concorre con seimila lire. I volponi fanno fabbricare la casa, cacciano le scuole in due miserabili stanzucce a pian terreno, e ingombrano tutto il resto con gli uffici, obbligandoci a far lezione sotto le loro scarpacce, e a sentirli sbraitare per dell’ore con le loro asinesche discussioni che finiscon tutte in baruffe da mercatini. Aggiungi.... Ma no, mondo ladro, è meglio che non dica più nulla, o mi metto a taroccare come un turco, finisco a guastarmi il sangue.
Invitò il Ratti a far colezione con lui. Il Ratti si scusò, dicendo che voleva ripartire col treno del tocco. Ma il granatiere lo abbrancò pel braccio e lo spinse avanti come un bambino, dicendo: — Andiamo, per una maledetta volta che c’incontriamo in questa vitaccia di cani frustati: o vieni o ti porto!
E lo fece svoltare in via Dora Grossa, per condurlo ai Tre bastoni. Il Ratti gli domandò se aveva notizie del collega Labaccio.
— Ah! Labaccio! — esclamò il granatiere esilarandosi. — Eccone uno che è nato fatto per fare il maestro! Quello lì sì che ha indovinato la sua strada! — Ne aveva notizie, sicuro; s’erano scritti il primo anno, e glie ne aveva parlato un mese innanzi un collega, lungamente. Era maestro da tre anni nel comune di Stalora, dove aveva pattuito per un sessennio, e c’era da credere che non si sarebbe più mosso. Ci s’era fatto un covo. Stava bene con tutti. Da ultimo aveva stampato un sonetto per il compleanno del sindaco. Ah! quello sapeva pigliare il mondo per il suo verso. Nel comune di Stalora era una specie di segretario o fasservizi universale, ficcato in tutte le case: portava l’ombrellino alle mogli dei consiglieri, era invitato a pranzo tutte le domeniche, raspava qualche cosa da tutte le parti. Quel furbacchione aveva perfin studiato un po’ di latino, e durante le vacanze preparava i figliuoli dei villeggianti alla 1ª ginnasio: declinazioni e pronomi, coi verbi sum e habeo, niente di più; ma sapeva rivender bene quel poco. — Non hai mai visto nessuna delle sue lettere sul supplemento del Popolo? Ce n’è una ogni momento; un elogio alla conferenza dell’ispettore, il resoconto del pranzo in onore del pretore traslocato, la relazione della festa dei premi, e c’è un po’ di sapone per tutti. Quello lì, vedi, è capace di pescare con l’amo dell’abbecedario una dote di cinquantamila lire. Siamo noi gl’imbecilli, caro mio.
— Ma la tua lite! — gli domandò il Ratti quando furono seduti a tavola, davanti al sacramentale antipasto.
— La mia lite, — rispose il Lérica, facendo cipiglio — ....ora ci vengo. Un’infamia senza nome. Galeotti, ti dico. La guerra principiò per il figliuolo del sindaco, che io aveva in classe. Una talpa. Suo padre s’era ficcato in capo che dovesse essere il primo in tutte le materie. Ma c’è prima un’altra cosa, che devi sapere. Siccome c’era un orario unico, i ragazzi si portavano a scuola qualche cosa da mangiare fra le due lezioni, e per la buona ragione ch’eran tutti più o men disperati, venivano con un pezzo di pane o di polenta, o una mela, nulla di più. Il principino, invece, il figliuolo dell’autorità, portava un canestro con la coscia di pollo, il frittello, la boccetta di vino, il confetto. Ora, capisci, questo non mi garbava nient’affatto, perchè tu sai come sono i ragazzi, golosi, ingordi più delle bestie, e a me faceva rabbia vederli mandar giù la saliva, quando avevan finito il loro tozzo, mentre quell’altro mangiapane a tradimento seguitava a ingollar ghiottonerie e ne faceva pompa.... E un giorno l’avvertii che quella faccenda non mi andava, che volevo che portasse una cosa sola, come i suoi compagni, e non che venisse in scuola a far delle scorpacciate da martedì grasso. Ebbene, di qui cominciarono i guai. Il signor sindaco ne fece un casus belli. Io non dovevo contare i bocconi al suo figliuolo, egli era padrone di rimpinzarlo a modo suo, e se mi dava noia a vederlo mangiare, non avevo che a voltar la faccia dall’altra parte. Impertinente d’un asino stronfione contadinaccio rifatto! Puoi immaginare se l’ho rimbeccato secondo le regole. Ma il peggio fu che un giorno si venne a lamentare che il ragazzo aveva sempre i punti scarsi, facendomi quasi sentire che io non capivo l’ingegno del suo cretino. Non ci voleva altro. Gli risposi che l’avrei studiato meglio, e cominciai a rifilargli degli zeri come ova di struzzo. E allora, tuoni e fulmini. Cominciò con cercare d’intimidirmi.
Qui fece un riso forzato, scotendo le spalle; ma subito gli montò la rabbia.
— Figurati che m’aizzò contro tutto il Consiglio, e volevano licenziarmi su due piedi. E sai che trama hanno ordita? Siccome non c’era altra via, avendo io il contratto per sei anni, che di licenziarmi per incapacità didattica o per essere incorso tre volte nella censura, tentarono questa, i farabutti. Venivano a provocarmi per farmi uscire dai gangheri, e potermi applicare il loro impiastro. A provocar me, Carlo Lérica, capisci! Un villan quadro d’un consigliere, barbiere di professione, che m’aveva scorticato per tutto il primo anno, rabbioso che l’anno dopo io mi fossi messo a radermi da me, e messo su per giunta dagli altri scalzacani, mi venne a dire, in faccia alla classe, che avevo fatto un’ingiustizia al suo figliuolo nel lavoro dell’esame mensile, e a propormi, a faccia fresca, di cambiare i punti. E come gli risposi un no tanto grosso, mi minacciò in presenza alla scolaresca “che m’avrebbe fatto aver dei dispiaceri„. Io risposi: — Faccia! — e lui, pronto: — Taccia! — A me! Mi saltò il sangue ai capelli e tirai fuori la mano.... Un santo me la fermò, per fortuna. Ma non tenni la lingua. Gli diedi del porco.... semplicemente. Allora m’inflissero la censura. Ed era una. Ma capito il gioco che mi volevan fare, stetti in parata, e non mi lasciai più cogliere. Inveleniti, che cosa inventano allora? Quel macellaio di barbiere mette avanti il sospetto, in Consiglio, ch’io sia miope: ha gli occhi fuor del cranio, dice, dev’esser orbo; si potrebbe tentare di farlo fuori con quel pretesto. Ah! quando ci ripenso alla scena che m’hanno fatta, credi, partirei sul momento per andarli a prendere a schiaffi in pieno Consiglio! Figliacci di cani, se ne intoppo uno per le strade di Torino, lo porto in giro sotto i portici col capo all’ingiù, come un coniglio scannato!
Il Ratti rise.
— Tu ridi — gli disse l’altro, stizzito. — Ma non c’è un corno da ridere, caro mio. O non mi entrano in scuola una mattina, sindaco e soprintendente, con una loro sporcheria d’ordinanza che avvertiva la scolaresca di non imbrattare i muri delle case e che so altro, invitandomi a darne lettura davanti a loro? Capii a volo: l’avevano fatta per me, e scritta apposta, le canaglie, in caratteri pidocchini per mettermi alla prova. Io mi morsi le labbra; mi fumava il naso!... Non importa. Spiegai il foglio contro il viso, e, facendo uno sforzo, ma senza interrompermi un momento, lo lessi; poi lo restituii al sindaco, dandogli un’occhiata che veniva dal fondo dell’inferno. Se n’andarono, pieni di bile ringozzata. E cercarono un’altra birboneria. Ma anche questa volta fallirono. Vennero le elezioni. Io, sai come sono, faccio quello che la coscienza mi detta, rovini il mondo. La tenevo per il sindaco caduto: mi diedi moto per lui, e apertamente. E allora mi casca in scuola una sera tutta la Giunta, col cappello in capo, a dirmi come qualmente sapevano (ci voleva poco) che io facevo propaganda per quell’altro, che questo non poteva stare, che il mio dovere di maestro era di sostenere le autorità in carica, e che se avessi continuato, avrebbero prese delle misure. — Ah! signori — risposi io — queste intimazioni a Carlo Lérica non si fanno! Io ho una coscienza e un’opinione come gli altri, sono maestro e cittadino ad un tempo, e mi credo in debito di avvertirli rispettosamente che esercitare pressione sugli elettori è un reato previsto dal codice, e chiamo loro stessi a testimoni della pressione. — A questa botta andaron fuori del manico addirittura, e senza badare a torto o a ragione, a legge o a non legge, ritornati insieme al municipio, mi licenziarono su due piedi.
A questo punto s’interruppe per guardare in viso un cameriere che lo stava a ascoltare. Questi, visto il cipiglio, si tirò in disparte.
— Ora viene il buono, — continuò. — Io ricorro al prefetto, facendo valere le mie ragioni. Il prefetto respinge, come illegale, l’atto di licenziamento. Il municipio, imbestialito, ricusa di sottomettersi, e mi chiude la scuola. Continuano le ostilità. Il consiglio scolastico riconferma la deliberazione del prefetto. Il municipio tien duro. Che cosa fare? Io scrivo al giornale La scuola elementare, che prende a propugnare la mia causa, e mi consiglia di mover lite. Era quello che cercavano. Quei mascalzoni, che sapevano che cosa sono le liti, se ne ridevano; dicevano: non ha quattrini, non la potrà sostenere. E poi, tu sai: questa faccenda della legislazione scolastica è così imbrogliata, che alle volte gli stessi avvocati dei nostri giornali, specialisti, sono perplessi a dare un parere: un municipio può sempre sperare di cavarsela. D’altra parte, si vedon certe sentenze di tribunali! Insomma, io esitavo. Ma il giornale insistè che io litigassi, e fece di più, mi venne in aiuto. Cosa fece? Un’idea splendida. Ha tremila associati: si rivolse agli associati. Si tratta di sostenere il maestro Lérica a cui voglion fare una prepotenza. L’uomo è all’ablativo. Se solamente un terzo degli associati gli manda ogni mese un francobollo di venti centesimi, sarebbero già duecento lire al mese, e lui ne avrebbe d’avanzo....
Il Ratti s’entusiasmò di quell’idea.
— E ti hanno mandato?... — domandò.
— Una saetta che li incenerisca, m’hanno mandato, — rispose il Lérica, urlando. — Va a credere alla fratellanza degli insegnanti primari. Ho ricevuto ventisette francobolli in tutto. Ho dovuto vender mezze le mie carabattole per far le prime spese della lite....
— Ed ora?
— Ora la lite è in corso. In ogni modo a Casariga non ci torno più: ho già trovato un altro posto. Ma se non altro li voglio forzare a sputar lo stipendio arretrato, capisci; maledetta razza di tagliaborse. Potevi immaginare che fosse un così dannato mestiere quello che abbiamo preso? Io già, vedi, se continuo, prevedo la mia fine: un giorno o l’altro stermino qualche municipio in massa, e mi faccio cacciare alle cellulari, oppure scoppio come una granata, in tanti pezzi, mandando per aria la scuola.
Il Ratti lasciò che si acquietasse con un bicchiere di vino, e poi, sorridendo, gli rivolse una domanda che aveva in corpo fin dalla Scuola normale.
— Ma dimmi un po’, Lérica, francamente, come mai t’è venuta a te, ma proprio a te, l’idea di fare il maestro?
Il Lérica tacque un momento come per rimandar dentro la risposta sincera che gli s’era presentata. Poi rispose pacatamente:
— Perchè sono un asino.
— Ah! tu non dici quello che pensi, — disse il Ratti. — Dunque.... non ci trovi nessuna soddisfazione a far scuola?
Il Lérica montò in bestia.
— Ma che soddisfazione ci vuoi trovare, fammi il piacere! — rispose battendo il pugno sulla tavola. — Noi ci possiamo parlare senza maschera. Vorresti darmi ad intendere che tu ce ne trovi? Sentiamo: che soddisfazione?
Il Ratti ribattè con un’altra domanda: — Per esempio, non metti affezione ai tuoi ragazzi?
L’ex granatiere lo guardò con gli occhi tanto larghi. E poi gli domandò, con aria di sincero stupore: — I ragazzi?... Ma son la più iniqua genìa che il Padre eterno abbia messo al mondo. Come?... E tu avresti un’altra idea?... Allora, scusami, mi fai sospettare che in questi tre anni, invece di far scuola ai ragazzi, tu abbia studiato astronomia. Ma non li hai conosciuti?... Salvo il caso che a me sia toccato per miracolo tutto il fiore della scelleraggine infantile d’Italia. Ma già non c’è da discorrerne: son tutti compagni. Bugiardi tutti, intanto, come galli, e doppi.... Ma che doppi! In ogni ragazzo c’è una nidiata di malfattori. Non faccio eccezioni. Non n’ho trovato uno solo che non mentisse come un ladro in qualunque occasione, anche per il solo gusto di mentire.... Oh! — gridò poi, prorompendo, e mettendosi il pugno sotto il naso, — i tipi che mi sono toccati! A ricordarli soltanto, mi viene un rimescolo di sangue! Delle birbe alte quattro palmi, figurati, che mi scrissero delle lettere anonime piene d’infamie! Di quelli che mi contraffacevano gli attestati di lode, che pareva si fossero esercitati per dieci anni a fabbricare biglietti falsi! Ce n’ho avuto uno che s’è divertito un anno a rifare il movimento che faccio io, così, con la spalla destra, e sotto i miei occhi, cento volte al giorno, senza ridere mai una volta, per non darmi il pretesto di sbatterlo fuori: una tortura di nove mesi, il vigliacco! sempre con quella spalla, e vedeva che io fremevo.... Io lo sogno ancora, alle volte, e darei un mese di stipendio perchè diventasse un uomo tutt’a un tratto per potergli rompere le ossa. E poi.... tanti altri. T’avrei da fare una litania di carnefici. Già, tutti ladri.
Il Ratti rise.
— Tu ridi?... Ma è una verità incontestabile. In campagna, almeno, ruban tutti. A me portaron via di tasca perfin la pipa! Ah! mi ricordo del nostro buon MegáriFonte/commento: normalizzo, alla Scuola normale, col suo Emilio di Gian Giacomo: L’uomo nasce buono! Prima di tutto: nasce porco. Non hai mai notato la ripugnanza di tutti i bambini a farsi lavare la faccia? Questa roba ci davano da bere. Mio caro, persuaditi di questa verità: l’uomo è galeotto dalle fasce. Ti dico che è così. E i ragazzi ne son la prova più lampante. Vuol dire che a poco a poco, l’interesse, la paura, l’impossibilità, che toccan con mano, di fare tutto il male che vorrebbero, non solo li frena, ma li migliora un poco, per la forza dell’abitudine. Ma fin che dura la natura schietta, tu li vedi bene: graffiano la mammella alla balia, picchiano appena possono levar la mano, scarnificano gli insetti, spennano vivi gli uccelli, levan gli occhi alle lucertole. Vedili rissar fra di loro: son più feroci degli Zulù. Non parlano che d’ammazzare. Io ce n’avevo uno, che ogni volta che aveva un soldo, comprava un giornale di Torino per legger la cronaca delle coltellate. Va a cercare la gratitudine in quelle belve male addomesticate! Fa loro entrar la ragione! Ma nemmeno a fendergli il cranio con l’accetta. E vengono a parlare ai maestri di amorevolezza! Bisogna essere impostori o cretini per credere che si possano tenere i ragazzi altrimenti che coi pugni e coi calci.
— Dunque — domandò il giovine — tu li batti?
Il Lérica rispose con dispetto: — No. — E stette un po’ pensando. — Non li batto perchè li ammazzerei. Quando uno mi mette a un puntaccio, che proprio non ci vedo più, me gli avvento contro e gli pianto il pugno sotto il naso, vedi, in questo modo, una mazza di ferro, e glielo faccio fiutare, glielo striscio sulla grinta, col braccio che mi trema, trattandolo di ladro, di galeotto evaso, di maiale. Ah, in nome di Dio, se mi potessi sfogare! Io ho paura d’un colpo apoplettico, certi giorni. No, non credevo che la semenza umana fosse una porcheria velenosa come l’ho riconosciuta sui banchi della scuola. Ma già, se hanno da diventar consiglieri, sindaci e soprintendenti non possono esser diversi da quello che sono. Mondo boia! Beviamoci sopra, e parliamo d’altro.
Parlarono daccapo della Scuola normale, del prete dalla giacchetta di frustagno, del contadino colle scarpe inchiodate, dei disertori notturni, del gran sornione Labaccio, e soprattutto del bravo direttore Megári che da due anni era provveditore, credevano, negli Abruzzi, e di cui tutti e due conservavano una memoria riverente. Ma il discorso ricadde forzatamente sulla professione quando si ritrovarono insieme in via Dora Grossa, nella confusione polverosa della sera.
— Cosicchè, — disse il Lérica all’amico, pigliandolo a braccetto, — tu trovi delle soddisfazioni “nell’esercizio del ministero educativo?„
— Soddisfazioni e dispiaceri, — quegli rispose: — e cerco di contentarmi. Io voglio bene ai ragazzi.
— Già, — rispose il granatiere in tono canzonatorio, — tu sei sempre lo stesso. Sei il maestro del cuore. — E s’infuriò. — L’ho anch’io il cuore, corpo d’un cane! Ma me lo fanno schiattar dalla rabbia! È mia colpa se i birbaccioni mi rivoltano l’anima?... Basta: starò a vedere in questo nuovo comune: Badolino. Mi metterò col proposito di non essere il primo io a dar fuoco alla miccia. Purchè potessi sbrigarmi di questa ladra lite!
— Intanto — domandò il Ratti — che cosa s’è deciso quest’oggi?
— Quest’oggi?... Niente. Io non son mica venuto a Torino per la lite.
E il suo viso si rischiarò. Diede una stretta al braccio dell’amico, e gli confessò, facendo la schiena rotonda, che era venuto per una piccola.
Il Ratti non potè tenere il riso, tanto gli parve comica l’immagine di quel Golìa collerico chinato in atteggiamento amoroso davanti a una ragazza. — Ah! — gli disse — si vede che i banchi della scuola non ti danno abbastanza soddisfazioni.
— E a proposito — esclamò quegli, soffermandosi e incrociando le braccia, col viso acceso da capo — non è un’altra stupida birbonata, nei paesi di pretendere che il maestro celibe viva come un san Luigi Gonzaga? Ma sai che ci vuole una sfacciataggine e un’impostura.... Ma io glielo dissi in faccia a quei signori! S’informavano dei fatti miei: ieri è uscito all’undici di notte; in marzo è andato due volte fuori del paese. Cose dell’altro mondo. E dire che l’inquisitore più accanito è un marcio ipocrita di soprintendente, che prende tutti i pretesti per visitar le scuole femminili, non mica per le maestre, nota: son roba troppo stagionata per lui; per le ragazze; e va sempre in terza, dove son le più grandi. Ha la passione della terza. E non puoi immaginare gli artifizii.... Siccome conosce tutti i parenti, contadini e operai, coi quali ha degli affari, finge sempre d’aver delle commissioni da dare alle ragazze per il padre o per lo zio, e delle commissioni confidenziali, per cui deve parlar loro nell’orecchio, pigliandole per un braccio o per una spalla. E ha un gran bisogno di scartabellare i quaderni; è sempre ficcato tra’ banchi a esaminar la calligrafia. Basta dire che una mattina, appena uscito lui dalla scuola, s’alzò un’alunna furiosa e andò a dire in confidenza alla maestra: — Dica al signor soprintendente che se un’altra volta mi mette le mani sulle ginocchia, io gli tiro uno schiaffo in presenza di tutta la classe! — Un gorilla, ti dico. E anche con la maestra, non finge di tanto in tanto, passando per la strada, di averle da dire qualche cosa, per farla venir sul terrazzino della scuola, e veder di che colore ha le calze, tanto che lei, ora, non si mette più che alla finestra? E dire che un sudicione compagno aveva la faccia di venirmi a parlare di moralità, a me, a Carlo....
Qui s’interruppe bruscamente, e afferrato per un braccio un ragazzo che stava col viso in aria sull’orlo del marciapiedi, lo alzò di peso e lo buttò contro il muro, mentre un omnibus, passando, strisciava a lui la giacchetta. E gli urlò nel viso: — Non vedi, imbecillone, che ti fai schiacciare?
Poi, ripigliando il braccio del Ratti: — Se vedevo che aveva la cartella di scolaro lo lasciavo schiacciare, in parola d’onore. Hai visto che grugno? Somiglia a quello mio delle lettere anonime.... Dunque, si parlava di quell’animal suino del soprintendente. E, dico, non manca più che questa, che fra gli altri titoli per i concorsi domandino al maestro una dichiarazione chirurgica in carta bollata, che attesti che gli è stata fatta quell’operazione. Ma vedrai che ci si arriverà. Se non arriverà prima l’anticristo a disperderli tutti. Ma intanto, che cosa serve sacrare? Continuerò a tirar la carretta, con santa rassegnazione. Ma a patto d’esser rispettato, mondo cane! Oh questo sì, fin che ci ho nelle vene il sangue di Carlo Lérica, lo giuro sopra una catasta di crocifissi!
Ripreso fiato, si fece ripetere dal Ratti il nome del nuovo comune dove aveva il posto, Altarana, e gli ricordò ch’era a poche miglia da Azzorno, il paese del famoso zio del Labaccio, del quale questi parlava sempre. — Se lo zio tira il calzino, — gli disse, — avrai il piacere di veder Labaccio, che correrà a prendere l’eredità. E giusto, a Azzorno, c’è un mio cugino maestro. Ah! sono bene informato! Troverai a Altarana una bella maestrina, a cui mio cugino gira attorno. Ci troverai anche un sindaco conquistatore, un sottaniere numero uno.... Ma se te lo dico che son tutti porci.
Il Ratti gli domandò curiosamente se non sapesse altro. Non sapeva altro: gli aveva scritto una volta sola suo cugino. Un cacciatore anche lui! — Del resto — soggiunse — tu hai un becco da soppiantarlo. Chi sa quante n’hai fatte, piccolo gesuita, con quei baffetti! E col tuo cuore! Maledizione, e io son nato con questo muso di rinoceronte! — e si diede del pugno sotto il mento.
Intanto erano arrivati in piazza San Carlo, che imbruniva; e lì il granatiere, data un’occhiata intorno e all’orologio: — Caro Ratti, — disse con voce raddolcita, mi rincresce che debbo lasciarti qui. Parto domattina col primo. Debbo ancora passare la notte in una latrinaccia di locanda, dove dormo coi piedi fuor del letto. Ho piacere d’averti visto. Sai che t’ho sempre voluto bene. Scrivimi. Se un giorno riceverai una lettera col bollo delle penitenziarie saprai che è di Carlo Lérica, che ha demolito un municipio. A rivederci.
Il Ratti si dovette alzare in punta di piedi per baciargli la guancia, e fu punto da un baffo nel naso, come da un colpo di spazzola. Poi il granatiere s’andò ad appostare dietro a un pilastro dei portici, e il giovane prese la via della stazione, impaziente di levarsi di mezzo a tutti quei lumi, a quelle case alte, a quel formicolìo di gente sconosciuta, che gli opprimeva l’animo, raddoppiandogli il sentimento della sua piccolezza e della sua solitudine.