Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/XII
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LE ULTIME VISITE.
Vennero gli ultimi giorni. Finiti appena gli esami, egli fece le sue visite d’addio. La più cordiale fu quella alla maestra Manca, che lo ricevette addolorata, quasi piangente, perchè le sue alunne l’avevano fatta sfigurare agli esami: il sindaco le aveva trovate timide e impacciate, e se n’era lagnato in modo con lei, da farle comprendere che quel difetto della scolaresca era un riflesso del suo carattere. E disse con mestizia: — È vero, così son sempre stata.... Ora certi naturali non piacciono più. — Porse poi al maestro la sua mano affilata di monaca, e gli disse sull’uscio: — Lei è giovane, farà una bella carriera.... la mamma ed io ne saremo contente.... Ma chi sa lei se si ricorderà ancora di noi! — E quelle furono le più care parole che il giovane portò via da Piazzena. Andato a salutare la maestra Fanari, la sorprese in un grazioso disordine d’abbigliamento, a cui ella riparò appuntandosi davanti due spille, con una disinvoltura tranquilla di bella donna, e fu cortese con lui, lo ringraziò con espansione della buona amicizia che le aveva dimostrato nell’occasione della querela; ma il dolce di quei ringraziamenti fu amareggiato al giovane dalla visibilissima gioia che le schizzava dagli occhi al pensiero di partire per Torino il giorno dopo. Visitò anche il sindaco, che, in fin dei conti, fuor di quella seccata del cui, non l’aveva trattato tanto male; e non trovando a casa il delegato, che aveva fatto una gita (la sesta o la settima) ad Altosso, dove cominciava a rendersi ridicolo con le sue smancerie di vecchio don Giovanni caduto nel pateticume, andò a far l’ultima sua visita a don Biracchio.
Piovigginava; il cortiletto era un pantano, e la piccola casa tutta nera e sgocciolante aveva più l’aspetto d’una capanna di Lapponi che dell’abitazione d’un uomo civile. Trovò il reverendo seduto davanti a una mostruosa insalata di pomodori e di cetrioli, e a una brocca di terra senza manico, piena di vino. Benchè gli rincrescesse davvero di lasciar quel comico originale, per cui aveva stima e simpatia, pure lo spettacolo di quel pasto di Gargantua gl’impedì di metter la minima nota sentimentale nelle sue parole d’addio. Ma il prete, con la bocca piena, fu cordiale. Gli raccontò con la serietà solita, masticando, l’ultima baronata dei suoi alunni.
— Una trovata da birbaccioni scellerati, — disse. — Non volevan più sentire la lezione dal cortiletto con la bella scusa che dovevan sedere sulle pietre. Si figuri, che delicatezze! Scimiotti che hanno il callo alle natiche, capaci di ruzzolare sul deretano giù dalla punta del Monviso, senza neanche intaccarsi la pelle.... Ebbene, sa che cosa hanno inventato per costringermi a tenerli in casa? Hanno scavato un gorello a mano, su dal rigagnolo del mulino, lungo da quaranta a cinquanta metri; ci debbono aver lavorato tre giorni; ma le dico un lavoro che par che l’abbian fatto degli operai, con una pazienza.... un gorello, capisce, per condurmi l’acqua nel cortile. E come c’era una fossa da passare, ci hanno fatto il loro bravo condotto, con una corteccia d’albero, che Dio sa dove la sono andati a rubare. E tutto di nascosto, noti bene. Credo che abbian lavorato di notte; hanno degli occhi di gatto, quei cani. In fine, il giorno della lezione, hanno dato la stura, e il cortile fu ridotto un lago, che ci s’andava a mezza gamba. Impossibile di farceli stare.
— E lei glie l’ha lasciata passare? — domandò il maestro.
— Lasciarla passare, io? — rispose il prete, mostrando un mezzo pomodoro nella bocca aperta — Ma nemmen per idea. Prima di tutto, han dovuto confessare. Poi li ho obbligati a scavare un altro condotto per far uscir l’acqua.
— Si saranno divertiti.
— Divertiti?... Sudavano e soffiavano come bestie, i malandrini. E poi, quando non ci fu più acqua, ho detto: Non avete voluto star seduti sui sassi; starete in piedi nel pantano.
— Benone. E ci son rimasti?
— Quanto al rimanere....
— Come! — esclamò il maestro; — li ha lasciati venir via?
— Ma che cosa vuole, Dio benedetto! Quando furon nel pantano, col pretesto che ci eran dei rospi, cominciarono a far tutti insieme: — Coà! coà! coà! — un baccano da non poter tollerare. Li ho dovuti riprendere in casa.... perchè non mi perdessero il rispetto.
Il maestro scoppiò dal ridere; don Biracchio rimase serio, e gli mescè da bere. Poi, mentre s’accomiatavan sulla soglia, ingombra di bucce di patate e di foglie di cavolo, gli offerse un gigantesco ombrello verde con le stecche rotte, che il maestro rifiutò, ringraziando. E l’ultime parole ch’egli pronunziò, dopo aver con la lingua enorme spazzato da la bocca gli ultimi resti dell’insalata, furono l’espressione di quello che per lui era forse l’unico desiderio della vita: — Nostro Signore le conservi la sanità.
Voltandosi indietro a un gomito della strada, il maestro lo vide ancora a traverso alle fila della pioggia, ritto sull’uscio, che gli faceva cenno di guardare a destra, nel prato, il gorello scavato dagli scolari.
Nonostante questi lieti ricordi, il giorno che partì dal villaggio, mentre correva in calesse tra i campi, respirando l’aria d’una mattina lucida e odorosa, e andava riandando il passato, come sempre si fa quando s’abbandona un luogo dove si fece una tappa della vita, i suoi pensieri non erano punto ridenti. Qual’era stata la sua vita, insomma, in quei tre anni? Non aveva trovato nè le soddisfazioni, nè le amicizie che sperava; non aveva progredito negli studi, e nemmeno poteva dire d’essersi acquietato in un metodo definitivo di far scuola, poichè sentiva bene che di là da quella “riservatezza severa„ alla quale non s’era appigliato che per sfiducia nelle forze della propria bontà, c’era qualche cos’altro di più caldo e di più fecondo, ch’egli non aveva saputo raggiungere. Ma un altro pensiero gli pesava anche più. Egli s’era persuaso che in quella modesta professione di maestro, in cui già bisognava fare tanti sacrifizi d’amor proprio, senza compenso d’agiatezza o di gloria, mancava anche la pace. Era stato tormentato da un soprintendente per il matrimonio, dai parenti per i premi, da una serva per il saluto, da un sindaco per la grammatica, da un ispettore per il metodo, da un parroco per la religione. Santo cielo! Sarebbe stato così, con poche variazioni, da per tutto? o avrebbe avuto anche di peggio? E già la immaginazione gli rappresentava la lunga serie di villaggi per cui sarebbe passato fino alla vecchiaia, una processione di sindaci, di parroci, d’ispettori, di tormentatori d’ogni età, d’ogni ufficio e d’ogni sesso, che l’aspettavano di lontano, brandendo in atto ostile le penne, gli aspersori e le forbici, e gli cominciava a entrare nell’anima un tedio nero dell’avvenire, quando gli seguì uno di quei casi bizzarri, che voltano improvvisamente tutti i pensieri a un corso impreveduto.
Fissando gli occhi macchinalmente sopra un vecchio giornale in cui era involtato un suo pacco, vide sotto la rubrica delle Amenità un titolo che gli fermò lo sguardo: — Pugilato scolastico. Lette le prime linee, vi rimase preso come a un uncino, e continuò a leggere. L’articoletto diceva: — “È stato dato un saggio curioso di ginnastica educativa in una scuola del comune di Casariga, dove sono in guerra fra di loro il sindaco e il maestro. Entrò l’inserviente comunale nella classe, senza picchiare all’uscio, ravvolto in un mantello come un bandito d’Ernani, con tanto di berretto in capo, a portare un’imbasciata del sindaco. Il maestro gli ordinò di levarsi il berretto. L’inserviente gli rise in faccia. Allora il maestro, infuriato, balzò dalla cattedra, e scappellò l’ambasciatore con una pacca. Uscì questi inferocito e, tornato cinque minuti dopo con un randello, s’avventò contro il suo offensore. Ma aveva da fare con una specie di Sansone dell’alfabeto, il quale lo disarmò con un pugno, e levatolo su di peso, lo andò a scaricare nella strada. L’inserviente fu sospeso dall’ufficio per due giorni. Ma il maestro ebbe nondimeno una grande sbarbazzata dal sindaco, il quale addusse una curiosa ragione in difesa del suo dipendente: — Era raffreddato! — „
C’eran poi due o tre righe di chiusa, leggendo le quali il giovane diede insieme in un’esclamazione di piacere e in una risata cordiale, come all’apparir d’un amico burlone. Il maestro pugilatore era Lérica, l’ex granatiere della scuola normale.