Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Garasco/XIV

La festa solenne

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Garasco - XIII Avventure di terra e di mare
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LA FESTA SOLENNE.


Fece le visite di congedo la mattina per non aver più che a dare delle strette di mano dopo la cerimonia, ch’era fissata per le tre, all’ora della levata di tavola del sindaco, il quale aveva invitato a pranzo una frotta di signore e di signori. Era stato addobbato per la solennità il cortile della casa comunale, un quadrato vasto, piantato d’acacie lungo tre lati, e cinto d’un muro basso. Il maestro trovò l’addobbo troppo teatrale. Sopra la porta della casa pendeva un ritratto del re in mezzo a un trofeo di grandi bandiere, la facciata era corsa a tutti i piani da larghi festoni tricolori, e si stendevano tra albero e albero delle filze di verzura con fiori di campo: un’idea del sindaco. Sopra una lunga tavola coperta d’un panno scarlatto, davanti alla porta, brillavano i premi; fra cui vari orologi d’argento, offerti da un villeggiante, che erano da vari giorni argomento di grandi discorsi. Per i ragazzi avevan portato i sedili di ferro e di legno dei giardini sindacali: i parenti sarebbero rimasti in piedi, lungo i muri. A destra era stato innalzato una specie di padiglione di frasche e di bandiere per riparare i signori dal sole; tutti gli altri dovevano arrostire.

Quando il maestro entrò coi suoi alunni, suonava [p. 65 modifica]già in un angolo la banda dei filarmonici, il cortile era affollato, e il muro di cinta tutto coronato di contadini, seduti con le gambe ciondoloni, che formavano una grande fascia nera semovente fra il bianco dell’intonaco e l’azzurro del cielo. Egli s’andò a mettere in piedi vicino alla sua classe. Osservò che don Leri mancava. La serva del parroco s’era piantata vicino agli scolari di lui, con l’aria d’invigilare.

Alle tre in punto entrarono il sindaco e i consiglieri, seguiti da un corteo di villeggianti vestiti di colori allegri, tutti coi visi accesi dalle libazioni, i quali annunziavano dei cuori pronti a intenerirsi.

La funzione cominciò con un canto delle alunne, che al maestro fecero l’effetto di un branco di galline che facessero l’ovo tutte insieme. Le madri le avevano infagottate, poverine, che parevan balle di cenci, e lisciate e unte come roba da friggere. Poi cantarono un coro gli alunni, del quale il maestro non capì che un verso: le gioie del lavor, ripetuto dieci volte. L’organista concertatore fu complimentato dalle autorità.

A quel punto avrebbe dovuto parlare il soprintendente Toppo; ma non c’era neanche da pensarci. Non levandosi in piedi il sindaco, nè facendo cenno che si incominciasse la distribuzione dei premi, il maestro si domandava con curiosità che cosa s’aspettasse, quando vide alzarsi e venire innanzi nello spazio vuoto tra le autorità e gli alunni la maestrina di prima. Fu preso da una viva inquietudine. Che diavolo veniva a fare?

Ahimè! non tardò a saperlo.

La ragazza, striminzita in una veste di percalle a chicchi rossi, che le accorciava troppo la vita, disse a voce alta, con una disinvoltura che gli fece dispetto: — La battaglia di Maclodio, di Alessandro Manzoni.

Il maestro ebbe una scossa. La battaglia di Maclodio! Che idea! Come c’entra? Ma è ridicolo! Ma in che maniera permettono un simile scherzo?

La signorina cominciò. Non aveva detto ancora la prima strofa che il maestro si sarebbe nascosto sotto un sedile. La sua voce forzata dava in falsetto; l’intonazione era enfatica e monotona; con le braccia parea che nuotasse: tutta la sua maniera aveva un che d’affettato e di puerile, che l’espressione tetra del viso contraffatto rendeva più comico. Il giovane diventò [p. 66 modifica]rosso per lei. Guardò gl’invitati: molti erano stupiti, e si guardavan tra di loro: le teste si chinavano, le signore si coprivan la bocca col ventaglio, in tutti gli occhi scintillava l’ilarità. Era un ludibrio. Egli si sentiva offeso nella dignità della sua professione e si mordeva le labbra dalla stizza. E quella terribile poesia non finiva mai! Quando fa finita, gli parve d’esser stato alla berlina per un’ora. E accompagnò al suo posto, con una imprecazione muta, la declamatrice, la quale ringraziò con un sorriso trionfante chi la complimentava. Il maestro osservò fra questi il segretario, che si sbracciava in rallegramenti, con una impudenza non mai veduta; e gli parve di sorprender fra lui e lei uno scambio di sguardi, che smentiva quel tal voto fatto. Voti di poetessa! pensò.

Allora venne avanti la maestra Strinati, con gli occhiali, e un foglio in mano. — Meno male — pensò il maestro, respirando; e stette in ascolto. Era un discorsetto sulla “necessità dell’istruzione„; lo lesse adagio, con la più grande tranquillità. C’era, se non altro, del buon senso: cose cento volte dette, ma che si capiva ch’erano state pensate da lei. C’era anche, o gli parve, da uno scintillamento che vide dietro gli occhiali, che ci fosse una bottata alle autorità a proposito della scuola privata e del cattivo stato dei locali scolastici: e terminava con alcuni consigli ai parenti, sensati ed espressi con un certo vigore, che destarono un mormorio d’approvazione. Le autorità tacquero; gli altri batterono le mani.

Cessato l’applauso, la Strinati medesima fece l’appello dei premiati, che si presentarono l’un dopo l’altro alla tavola rossa. Questo è sempre bello. La suggezione che mostravano al cospetto del sindaco, lo stesso imbarazzo che avevano dai loro vestiti festivi, la contentezza, l’alterezza, davano grazia a tutti. Il maestro vide con certa commozione passare i suoi sei contadinelli, che aveva per tanti mesi studiati, istruiti, consigliati, corretti, e che non avrebbe, dopo quel giorno, riveduti mai più. L’un dopo l’altro, ritornando al proprio posto col premio in mano, gli rivolsero un sorriso, come d’intelligenza amichevole, che gli piacque più d’un ringraziamento, e non gli fece badare alla curiosità brutale con cui i loro parenti si buttarono avanti per [p. 67 modifica]vedere che cos’avessero preso. Sì, in quel momento la festa era tanto più gentile quanto più la scolaresca era rozza, e il ridicolo dell’apparato e delle declamazioni non riusciva a scemarne la gentilezza.

Ma fu guastata di nuovo da uno sciocco dialogo allusivo alla festa medesima, che recitarono due bambine con gesti di marionette e intonazione pappagallesca, e da un ringraziamento declamato da un alunno alle autorità municipali, pieno di lodi goffamente adulatorie e di luoghi comuni sconsolanti.

Poi seguì un canto alternato di bimbe e di bimbi, alla Patria, nel quale s’imbrogliarono e dovettero ricominciar da capo varie volte, tanto che, presi dal timore, stentando a sprigionare la voce dalla gola strettita, non facevan più che un ronzìo di tafàni.

Infine, in mezzo a un silenzio profondo, s’alzò il sindaco, bello e sfavillante, come se quella fosse una festa fatta in suo onore. Parlò bene. Si capiva che aveva studiato il discorsetto a memoria. Lodò i ragazzi e i maestri, i parenti e le autorità, accennò ai suoi disegni di rinnovamento dei locali, fece un’allusione cortese alle signore presenti, che inchinarono il capo sorridendo; parlò della famiglia, della civiltà e della patria, e terminò con un evviva al re e all’Italia. Tutti gli invitati scattarono dalle seggiole e gli s’affollarono intorno caricandolo di congratulazioni: — Un gioiello di discorso — una festa commovente — una cosa riuscita in tutto e per tutto, come le sapeva far riuscire lui solo. — E allora comparvero servitori e contadini con rinfreschi, confetti ed arance, e tutti n’ebbero; perchè, da questo lato, non c’era a ridire: il sindaco lasciava mancare i banchi e i cartelloni alla scuola, ma nelle feste si faceva vedere. L’uscita fu una vera allegria, fatta più viva dalla confusione; e il maestro ne approfittò per dar l’ultimo saluto ai suoi superiori e a pochi altri, i quali glie lo ricambiarono in fretta, distratti, non comprendendo neppure che era un addio. Egli se l’aspettava, ma ne fu mortificato. E soprattutto lo ferì la bella signora grassa, moglie del negoziante d’olii, la quale, incontrandolo viso a viso, piccata forse della sua scomparsa dalla società, e sospettosa della cagione, gli disse con un sorriso doppio: — O il signor maestro, che non si fa più vedere! Perchè non [p. 68 modifica]ci ha declamato anche lei qualche cosa di bello? — Il maestro si toccò il cappello, senza rispondere, e masticando veleno, corse a rinchiudersi in casa.

Il villaggio era già oscuro e silenzioso, ed egli se ne stava da varie ore, triste, nella sua camera, quando si sentì chiamare dalla strada da un coro di voci allegre, fra cui distinse quella del segretario: — Maestro! — Maestro Ratti! — Venga giù con noi! — Mosso dalla curiosità, scese di corsa le scale, e si trovò in mezzo a una brigata di giovani villeggianti, quasi tutti studenti d’università e di liceo, alcuni dei quali conosceva. Erano in baldoria fin dall’imbrunire, volevano condurlo con loro a ber l’ultimo bicchiere all’Albergo della Croce, avevano già snidato così parecchi altri, urlando sotto le finestre. Egli v’andò, per cacciar le paturne, e il vino vecchio e la giovialità cordiale di quei giovanotti, che rifacevano il verso ai professori e raccontavano barzellette lepidissime della vita universitaria, gli allargarono il cuore. Eran tutti poco più che ventenni, andavan tutti alla conquista del mondo, con ideali diversi di scienza, di fortuna e di gloria: ma non ancora bacati dall’orgoglio e dall’idolatria del danaro; alcuni, anzi, compresi di idee e di sentimenti ostili alla classe privilegiata a cui appartenevano; e tutti lo trattavano fraternamente. Uno di essi imitò la declamazione della Battaglia di Maclodio, in modo che scoppiaron tutti dal ridere; fuori che il segretario, che sorrise discretamente, dopo aver dato uno sguardo inquieto verso la sala vicina, dove c’era gente. E un altro fece un discorso immaginario del soprintendente, con gli occhi chiusi. E ben presto il maestro scherzò e rise egli pure. E quando s’accomiatò da quei giovani, che, un po’ eccitati dal bere, sovrabbondavano in saluti, battendogli le mani sulle spalle e facendogli degli auguri in latino, gli parve di lasciare dei vecchi amici. Uno di loro rifece dieci passi indietro per dirgli: — Lei va a Piazzena, maestro?... Ah! ci troverà dei bei tipi!

Il segretario, rimasto solo con lui, credè dovere di cortesia d’accompagnarlo a casa, e tutti e due s’incamminarono lentamente, a braccetto, per le strade del villaggio imbiancate dalla luna. Quando furono all’uscio, il segretario gli disse, dandogli di gomito, che parlasse piano “per non disturbare il malato.„ [p. 69 modifica]

Il maestro non capiva.

— Don Leri — spiegò l’altro. — Non sa che s’è dato malato per non fare il discorso alla festa?

Al maestro, infatti, ch’era stato a casa sua per pigliar congedo, la serva aveva detto che non stava bene. Ma egli credeva che si fosse dato infermo per non doversi distrarre dal suo lavoro.

— Quale lavoro?

— Il lavoro a cui è attorno da anni, e ci dedica tutte le serate: la religione e la scuola.

Il segretario si lasciò andare con le spalle al muro e si mise le mani sui fianchi, fingendo di scoppiare.

— Ah! — esclamò poi — questo le ha detto! Ebbene, è la più bella facezia che abbia ancor messo fuori in vita sua! — E seguitava a ridere. — Ma lei non sa niente, dunque! È il solo che non sappia niente in tutto il paese. Don Leri ha una monomanìa. È il più furioso divoratore di romanzi che ci sia sulla faccia della terra. Dumas, Sue, Féval, Terrail, Kock, credo che li abbia passati tutti. È abbonato a due gabinetti di lettura, compra romanzi dai banchetti, ogni tanto dà una corsa a Torino per rifornirsi. Ah! lei non sa nulla. Ma allora non sa il più bello. La lettrice è la serva. Avrà visto quella curiosa figura di vecchio cancelliere in gonnella. È una savoiarda. Quando la presero sapeva appena leggere; l’hanno ammaestrata. A furia d’esercizio ha imparato a leggere a senso: ha dei polmoni di ferro; leggerebbe un messale senza rifiatare. E ogni giorno si fa lettura in casa. Lei a tavolino col libro, la padrona sul sofà, e lui in panciolle sulla poltrona, con la nuca sulla spalliera, le mani sulla pancia e il sigaro in bocca, dalle otto alle undici, tutte le sante sere dell’anno, da quindici anni. È una cosa nota urbi et orbi. —


Questa inaspettata rivelazione finì di rasserenare il maestro, e fu anche il pensiero che lo fece saltar giù di buonumore la mattina seguente, quando lo svegliaron dalla strada gli schiocchi di frusta del vetturino. Partì che sonava l’Ave Maria; l’orizzonte, velato di vapori diafani, annunziava una giornata d’oro. Ed anche il suo avvenire, nonostante le delusioni di quel primo anno, gli appariva ancora al pensiero come [p. 70 modifica]quell’orizzonte. Egli era in quell’età, nella quale, come fu detto dell’uomo, che sa di dover morire, ma non lo crede, così il giovane sa, ma non crede veramente che il mondo e la vita sian tristi. Aveva ancora un così vasto spazio davanti a sè! Migliaia di colleghi, di ragazzi, di parenti, di autorità lo aspettavano: chi sa quanti ne avrebbe trovati rispondenti ai suoi ideali, chi sa quanti buoni amici, e alunni esemplari, e parenti grati, e anni di vita quieta e contenta! Una sola ferita gli doleva ancora, quella che avevan fatta al suo orgoglio di maestro i signori: a questa ripensava sospirando, e gli pareva che sarebbe rimasta aperta per tutta la vita.