Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Avventure di terra e di mare
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AVVENTURE DI TERRA E DI MARE.
Passò una parte delle vacanze presso la famiglia Goli, a ***, dove non ebbe più il piacere di trovare il Megari, che aveva lasciato la Scuola normale, poi fece una scappata a Torino a rivedere i fratelli, e prima d’andare alla sua nuova residenza si diede lo svago, desiderato da vari mesi, d’una gita a Pilona, dalla cugina maestra. La borgata era molto in su, in una delle valli più lunghe delle Alpi; c’erano dalla sua città natale due ore di diligenza e due ore di cammino a piedi per una strada appena carreggiabile. Partì all’alba. La valle era bellissima; ma egli non ci badò gran fatto. Per quasi tutto il viaggio, ebbe la mente occupata a dipingersi una serie di ritratti di donna sull’immagine incerta di giovinetta che gli era rimasta della sua parente, a vagheggiare il caso che quella visita potesse dar principio a una lunga e buona amicizia o a una passione o a un capriccio, a far molte congetture intorno all’indole e ai modi di lei e ai suoi discorsi, e a raffigurarsi il quadretto piacevole della cugina e di lui seduti a tavola, soli; poichè avrebbero ben dovuto desinare insieme. E sentì una certa commozione, che gli parve fanciullaggine, quando vide spuntar tra il verde scuro della montagna le poche case che formavan la borgata di Pilona, sparse lungo la riva d’un torrente azzurrino. Girò fra due o tre orti, passò davanti a una chiesetta chiusa, e domandò della maestra a una vecchia curva sotto un enorme carico di letame; la quale gl’indicò una casetta appartata, davanti a cui egli si soffermò sorridendo. Era una casa tanto piccola, che non vi sarebbe potuto abitare più d’una persona, e doveva esser stata costrutta apposta per la maestra, perchè aveva una certa eleganza di forma, le imposte verdi, e sola della borgata, l’intonaco. Sul davanzale della finestra a terreno, guernita di tendine bianche, c’erano dei vasetti di fiori.
Quando fu a cinque passi dall’uscio, vide apparire alla finestra due occhi neri e una bocca aperta.
— Mio cugino! — disse una voce di contralto.
— Son io — rispose il maestro.
E subito s’aperse l’uscio e saltò fuori una ragazza grande e bruna, che gli stese una mano, tirando indietro l’altra, in cui teneva un pezzo di pane e mezz’ovo sodo; e gli domandò con tre diverse intonazioni di voce: — È lei? Sei tu?... Oh che piacere ho di vederti!
Dopo cinque minuti parve al giovane di aver sempre avuto domestichezza con lei. Ma era mutata affatto: alta, magra; aveva la vita lunga e un po’ arcata, gli occhi scuri e profondi, le mani robuste, la bocca grande, i denti grossi e bellissimi, i capelli neri arruffati, una parlantina spedita, il fare d’una direttrice di collegio risoluta e affaccendata.
— Ti sei deciso finalmente! — esclamò. — Dopo cinque mesi! Ci hai pensato bene! Non t’avrei più riconosciuto. Hai l’aria d’un professore di latino. Che caso di rivederci qui! Desineremo insieme. No, — soggiunse, spingendolo sotto un piccolo capanno, coperto a mezzo di fagioli, mentre egli faceva l’atto d’entrare in casa; — in casa subito, no: sanno tutti che aspettavo mio cugino; ma non basta. Eh! ho dovuto metter prudenza. Scappo e torno.
Tornò con una donna, a cui diede ordini per il desinare. Pochi minuti dopo si sentirono le strida d’una gallina sgozzata. Sedettero sotto il capanno, dove c’era una tavola rustica, con due sgabelli. La conversazione s’aggirò dapprima sui casi di famiglia. E benchè rimestassero delle memorie dolorose, il giovane provava un sentimento nuovo di conforto a sentir quella voce amica, a veder quel viso che gli ricordava l’infanzia, in mezzo a quella solitudine fresca e tranquilla della montagna.
I parenti morti, la sorte dei nipotini, gli affanni patiti da lei per cagion di suo padre, i ricordi delle due Scuole normali, e Garasco, e i particolari della vita cenobitica ch’essa menava fra quelle quattro casucce, furono per un’ora il tema dei loro discorsi, accompagnati dal tintinnìo dei campanelli delle capre che pascolavan là attorno, e da voci lontane di pastori. Poi la cugina lo condusse a visitare quella scatola di casa, lasciando l’uscio spalancato, pel quale vedevano anche di dentro una gran parte della valle e, come un breve tratto d’orizzonte marino, la pianura vaporosa, lontanissima. Nella stanza a terreno c’erano delle piccole carte geografiche attaccate ai muri, dei libri buttati qua e là, dei gingilli, regali di scolare d’altri paesi. — Ecco la mia magione — disse la cugina. — Indovina quant’è costata? — Era costata ottocento lire, e il municipio s’era deciso a farla costrurre dopo un’avventura singolare, di cui avevan parlato i giornali, dopo che una maestra stata nominata a Pilona, dove si doveva aprire una scuola, in seguito al concorso bandito, e venuta là nientemeno che da Modena, sua città natale, era stata costretta a rinunciare al posto e a tornarsene a casa, rimettendoci il tempo e le spese, perchè nè a Pilona, nè per lo spazio di mezzo chilometro intorno aveva potuto trovare un alloggio qualunque fosse. Un bel caso di previdenza amministrativa.
Uscendo di casa, il maestro fu stupito di veder la tavola apparecchiata sotto il capanno. La cugina gli disse che aveva deciso così per il fresco.... e per la politica. Ma là vicino non passava che qualche donna carica d’erbe o di terra, o qualche ragazzo, a lunghi intervalli.
Il desinare consisteva in una minestra, una gallina e un’insalata con ova. Si misero a sedere ridendo. La cugina scalcò la gallina con mano vigorosa, dicendo che aveva una fame “da maestra di montagna„. Al maestro pareva piuttosto un buon camerata che una ragazza; ma trovava che avea un bel color bruno e dei bei denti, e quella vita lunga gli metteva allegrezza. A pezzi e a bocconi essa raccontava le sue ultime vicende; in che modo, per levarsi di torno a suo padre, avesse deciso, presa appena la patente, di cercarsi un posto lontano; come gliel’avesse trovato nell’Italia meridionale una sua amica d’infanzia, moglie d’un ingegnere, dalla quale gli era venuto un giorno un telegramma fulmineo, che le diceva di partire; in che imbarazzi si fosse trovata per mettere insieme quel poco di denaro per il viaggio e per l’altre prime spese. Era partita ai primi di novembre, aveva fatto un viaggio di mare orribile.... Peggio non avrebbe potuto incominciare la sua carriera. Figurarsi che, dopo varie peripezie, era arrivata di notte, con la pioggia, a una stazione di strada ferrata, dalla quale al paese dove doveva andare c’erano tre o quattro miglia di salita, e l’unico vetturino che si trovasse là domandava per quel tragitto cinquanta lire, la metà giusta del suo avere! E le avrebbe dovute pagare se due ufficiali là presenti, mossi a compassione, non si fossero interposti, facendo ridurre il prezzo a due scudi. Ma queste eran celie. Arrivata lassù in un trabiccolo sconquassato, stanca morta dallo strapazzo, e presentatasi subito al direttore delle scuole, un vecchierello smilzo, questi le dà la bella notizia che durante il viaggio di lei, il sindaco, e con lui il suo partito, che volevan dividere le scuole, eran caduti; che il sindaco nuovo non voleva fare innovazioni; che il posto, per conseguenza, non c’era più. Spaventata, essa corre dal nuovo sindaco, il quale le riconferma la cosa. Restò di sasso. Come fare! Dopo tutto quel lungo viaggio! Non aveva più denari per ritornare, era sulla strada. Si mise a piangere. Il sindaco n’ebbe pietà, promise di provvedere, e intanto le assegnò un posto di sottomaestra nell’asilo infantile. Che razza d’asilo! Una catapecchia, dei bimbi ignudi nati, che, appena entravano, li doveva tuffare in una secchia d’acqua tepida, e poi fregarli, lavarli, insaccarli in una camicia, che rilasciavano all’uscita. C’era da campare, in ogni modo. Ma verso la metà dell’anno, mancando i fondi, e non potendosi più dare la minestra, l’asilo fu chiuso, ed eccola daccapo sul lastrico, col credito di due mesi di paga. In buon punto le fu offerto un posto d’istitutrice presso la famiglia d’un conte, nel capoluogo del circondario, ed essa fece il viaggio con le più belle speranze; ma la contessa, che la ricevette in assenza del marito, trovandola troppo giovane e non abbastanza.... repulsiva, la rimandò con Dio, senza cerimonie. Allora sì, si vide perduta senza rimedio, e ritornò al paese con la disperazione nell’anima. In quel frattempo, per buona fortuna, il sindaco aveva cambiato idea e deciso di sdoppiare la classe femminile, come voleva il suo predecessore: ci fu quindi un posto per lei. Piena d’entusiasmo, incominciò la scuola; aveva la seconda classe; quattordici alunne inscritte, sette presenti. Le pareva di rivivere. Ma nel paese dominavan le febbri; ne furon prese tutte le sue alunne; l’ebbe lei pure, e seppe allora soltanto che, appunto per le febbri, nessun insegnante era mai rimasto là più d’un anno, perchè ci andava metà lo stipendio in chinino. Guarì, si rassegnò. Campava male, per altro. Del credito dell’asilo non le davano un soldo; le avevan promesso di rifarla delle spese del viaggio, e non vedeva nulla; solamente verso la fine dell’anno adempirono la promessa di darle l’alloggio, mettendola in un convento mezzo diroccato, dentro a un camerone con gli usci senza imposte, e a lei toccava di chiuderli con assi e puntelli. Tra quello che le costava una servetta scalza e i piccoli debiti che doveva saldare via via, le rimaneva appena tanto da sfamarsi, non mangiando che fave, ceci, lattuga, piselli. Il paese, d’altra parte, era molto povero: basti dire che facevan bandire ai crocicchi, come una cosa straordinaria, una gallina da vendere. Nondimeno vi sarebbe rimasta. Ma rincrudirono le febbri a tal segno, che le donne del popolo, esasperate, entravano fin nella scuola a gettare insulti, e peggio, contro il ritratto del re, gridando ch’era lui che mandava quel flagello alla povera gente. Essa medesima ricadde malata, e andò a un pelo dalla fine. E allora si dovette risolvere a cercare un nuovo posto, e scrisse al Provveditore, che la esaudì, e la destinò a un altro villaggio, in riva al mare. Ricevuta appena la nomina, partì; fece un tragitto interminabile in diligenza, e, con sua grande gioia, si trovò aspettata all’arrivo da una folla di bimbi e di bambine, che l’accompagnarono al municipio con applausi ed evviva. Fu ben ricevuta da tutti; e in quarantott’ore s’andarono a iscrivere centoventi ragazze dai cinque ai quattordici anni, delle quali fu costretta a rimandare le più grandi e le più piccole, perchè non capivano nella scuola.
— Mi affezionai a quelle ragazze — disse — e loro s’affezionarono a me, subito. Siccome capivano che ero un po’ triste perchè ero sola, molte mi tenevano compagnia tutta la giornata, e dopo la lezione ballavano sulla terrazza, per ricrearmi, suonando il tamburello e cantando. Ah, che buone e brave ragazze! Non si può dire quanto sentivano il rimprovero e la lode, come erano intelligenti, con che brio recitavano, e come riuscivan bene nei lavori di cucito! Mai, mai n’ho ritrovato di eguali.
E anche i parenti le avevan preso a voler bene. Il giorno di Pasqua le portarono in regalo pandolci, ova sode, vino, cacio, paste, tutti in fila, a processione, come sarebbero andati da una regina. In quei pochi mesi le alunne avevan fatti grandi progressi, le più piccole leggevano, tutte s’erano appassionate per lo studio.... Ma qui appunto cominciarono i guai. Gli altri maestri, tutti preti del paese, ignoranti e affamati, che accorrevano come corvi a ogni letto di morte, per raspare quei quattro soldi della sepoltura, ingelosirono di lei. Avendo detto un giorno il sindaco che le sue alunne erano le sole di tutto il paese che facessero profitto, uno di quei preti minacciò di mandarlo a sfidare. Sparlavan di lei; dicevano ch’era figliuola d’una erbivendola di Torino, ch’era arrivata al paese senza camicia, che non poteva dare un’educazione decente alle bambine, che dal villaggio dov’era prima l’avevan mandata via perchè portava una rivoltella in tasca, ch’era un’avventuriera, che aveva fatto di tutto un po’ nel paese suo.... Ma essa si consolava di questa guerra con l’affetto delle sue ragazze.
— Facevamo delle passeggiate per le colline, — disse con vivacità, — comperavamo dei cesti di lattuga e dei poponi, e mangiavamo tutte sedute in giro sull’erba. Poi si saltava alla cordicella. Il giorno dello Statuto mi portarono tutte un po’ d’olio, e si fece l’illuminazione della scuola. I parenti eran contenti. Andavamo insieme ai Santuari. Erano feste deliziose che mi facevano dimenticare tutti i dispiaceri. Oh che giornate splendide! Che bel mare! Che belle memorie!
Gli occhi le si empirono di lacrime dicendo questo, e si dovette interrompere. Ma poi eran venuti dei guai più gravi: i parenti eran soddisfatti, è vero; ma non tutti. Alcuni, di quei pochi signori che stavan nel paese, le mandavano dei doni speciali perchè accordasse certi privilegi alla loro bimba: come, per esempio, di metterla in un banco a parte o di farla uscir la prima dalla scuola; essa rifiutava, quelli s’offendevano. Altri le venivano a dire che non desse del tu alla loro figliuola, ma del lei, e la chiamasse donna. Lei rispondeva di no, e si faceva altri nemici. Il sindaco, ch’era un democratico, godeva di quei rifiuti e la lodava; e questo tanto più inaspriva gli offesi. I signori avversavano il sindaco, che trattavan di capraro. Era un buon diavolo, che portava a vedere i lavori di ricamo e i fiori fatti da lei al “club dei galantuomini„ e diceva: — Vedete che cosa sa fare la nostra maestra! — E così irritava sempre più le gelosie. Avendo essa un giorno ricevuto una lettera d’un chiericotto di quattordici anni che le proponeva di fuggire in America, i suoi nemici ne menarono gran rumore, accusandola d’aver fatto girare la testa al ragazzo. Il che non toglieva, peraltro, che gli stessi maestri preti che la calunniavano, le facessero gli occhi di triglia morta e dei complimenti arrischiati, a ogni occasione; uno specialmente, un perticone, tutto naso e capigliatura, e gran fumatore, il quale badava a dirle, con voce da commovere, che i poveri sacerdoti, privi di famiglia e di consolazioni, erano infelici, e avevano bisogno d’affetto. Costui, una sera, in un piccolo teatro dove lei era andata con una famiglia di suoi vicini, standole seduto di dietro, la toccò; essa gli diede del villano insolente; e quegli, offeso nell’anima, si prese a vendicare i dì seguenti, nel teatro stesso, facendole di lontano dei cenni che lasciassero supporre un’intelligenza. Per farlo smettere ella scrisse al sindaco, che ne riferì all’arciprete, il quale minacciò il reverendo di sospenderlo a divinis. Questi allora le giurò guerra a morte. Altri del paese, intanto, dei giovani di buona famiglia, credendola una preda facile perchè era sola, s’eran messi a importunarla con dichiarazioni, che le sfoderavano per la strada, come a una chitarrista da cantonate; le mandavan persino delle lettere amorose per mano delle serve, mentre faceva scuola; e respinti, s’arrabbiavano, e s’alleavano coi preti. In fine, per sua mala sorte, il sindaco che l’aveva in grazia fu rovesciato e allora incominciò la via crucis. Il prete suo nemico, visto la strada libera, fabbrica delle false lettere, che presenta al sindaco, dicendole scritte a lui dalla maestra; il sindaco la prega di dare le sue dimissioni; essa si difende, non è creduta, è forzata a dimettersi, e move querela contro il prete. Costui, impaurito, la supplica di ritirare la querela, essa rifiuta, egli s’imbestia, e la fa pigliare a sassate dai ragazzacci, uno dei quali ferisce al capo la sua serva.
Il maestro fece un atto d’indignazione.
— Eh! non è nulla ancora, — riprese la cugina. A questo punto, non vedendo altra via di salvamento, scrissi a mio padre a Torino che mi mandasse dei denari per tornar subito a casa. Mio padre mi rispose che non gli pareva decoroso ch’io lasciassi il paese prima della fine dell’anno scolastico. Che potevo fare? Chinai il capo, ritirai la querela. Ma si trattava di vivere. Misi su una scuola privata. Siccome le ragazze mi volevan sempre bene, vennero da me un’ottantina, e l’altra maestra, quella che m’aveva sostituito, moglie d’un impiegato arrivato di fresco al paese, rimase con sette od otto. Di qui nacque la rivalità. Le mie ragazze, per la strada, sbeffeggiavano la mia collega; le alunne di lei s’accapigliavano con le mie. Il municipio, che proteggeva quella, ordinò a me di chiuder la scuola. Ed eccomi un’altra volta per terra. Mi diedi a lavorare, facevo scarpettine per bimbi, corredi per battesimi, cappelline: i sarti mi mandavan roba da cucire pei ragazzi: guadagnavo tanto da tenermi in piedi. Ma non sempre. Dei giorni non avevo da mangiare; dovevo vender la mia roba, m’ero ridotta a dormire sopra un pagliericcio. — Ed esclamò con uno scatto d’allegrezza: — Ah! mi par d’essere una gran signora, adesso.
Poi continuò. Mentre andava stentando il boccone a quel modo, scriveva al provveditore, raccontandogli le sue miserie. Ma.... sì! il provveditore era lontano, non credeva a tutto, riceveva informazioni contradittorie, rispondeva: vedremo, provvederemo. Alcuni, in paese, le consigliavano d’andarsene in qualunque maniera. Ma in quale maniera, se non aveva un centesimo! Quelli furon giorni segnati con tante stilettate nel suo cuore. Poi le venne un po’ di fortuna da una disgrazia. Essendosi ammalata di crup una sua scolara, d’una famiglia del partito a lei ostile, e volendo vedere la sua maestra, i parenti la mandarono a chiamare: essa accorse, l’assistette, le stette a capo del letto fin che spirò. Quell’atto intenerì il nuovo sindaco, il quale, per compenso, le permise di riaprire la scuola, col patto che la intitolasse soltanto “scuola di lavori femminili„, e insegnasse a leggere e a scrivere di contrabbando. Fu una benedizione. Ci si mise con ardore, fece dei cartelloni col carbone, dei disegni per la nomenclatura, una carta geografica. Le alunne ritornarono. Pareva che tutto volgesse a bene.
— Quando un giorno, — disse — mi capita inaspettato un sedicente ispettore, con due gran baffi di setola, ammira i cartelloni e i disegni, interroga, loda i progressi delle alunne, mi fa un monte di complimenti. Io mi sento rientrare la vita nel cuore. Chiede di veder le mie patenti: gliele do.... Era un traditore, mandato dai miei nemici, uno sfacciato briccone. E si smascherò subito, rifiutando di restituirmi la patente di grado superiore se non firmavo una dichiarazione con cui m’impegnassi a partir dal paese.... A quel colpo, rimasi schiacciata, non ebbi più la forza di lottare, firmai. Quegli non mi rese la patente, però; e disse che non me l’avrebbe resa che il giorno della mia partenza. Ma per partire dovevo mettere qualche lira da parte. Mi rimisi dunque coraggiosamente a lavorare, a dar lezioni private, a far persino la bambinaia, lesinandomi il pane, non dormendo che quattro ore della notte, non perdendo un minuto della giornata. Avevano, in quel frattempo, cessato di perseguitarmi, il prete aveva ritrattato per iscritto le sue calunnie. Ma in quel paese, dove avevo passato di così tristi giorni, non ci potevo più restare. Quando m’arrivò una lettera che mi chiamava al provveditorato per ricevere una nuova destinazione, e mi parve di ricevere una grazia di Dio! E quattro giorni dopo partii. —
Essendo troppo costosa la diligenza, cercò ed ottenne con cinque lire un posto in una barca, condotta da otto pescatori, che andavano alla città vicina con un carico di fichi. Dovevano essere camorristi. Ma era troppo tardi quand’essa n’ebbe il primo sospetto. — Una volta che fummo lontani dalla riva — disse — vedendo che mi guardavan tutti la borsa che portavo a tracolla, con l’idea, forse, che ci avessi dei danari, cominciai a prender paura e a tremare, e per prevenire una violenza, l’apersi, perchè ci guardassero: non c’era che le patenti e un po’ di pane e di salame. Quelli non fiatarono. Mi tranquillai un po’; ma ecco che la notte si leva una burrasca; un mare d’inferno; i pescatori si credettero perduti; io mi gettai in fondo alla barca, e mi raccomandai l’anima, certa di morire; furono quattro ore di terrore e d’angoscia disperata. Per fortuna, il legno fu sbattuto su certe secche, dove s’aspettò che aggiornasse. All’alba il tempo mutò. Ma non avevo più il coraggio di proseguire sul mare, che mi metteva orrore; mi feci sbarcare a terra, e sola, immollata da capo a piedi, e sfinita di forze, attraversato un bosco senza incontrare anima viva, andai a raggiunger la corriera che mi portò alla città vicina, dove mi dovevan condurre i pescatori. Qui mi credetti alla fine delle mie tribolazioni; presi la strada ferrata, arrivai a ***, corsi all’ufficio del provveditore, fui ricevuta bene, anche troppo.... Dunque? Qual’è la mia nuova destinazione? Angeli del paradiso! Era un villaggio a poche miglia dal paese che avevo lasciato! —
Perchè l’avevan chiamata, allora? Perchè farle fare inutilmente quel viaggio della dannazione? Dio mio, il perchè era facile a indovinarsi. La fama delle sue piccole avventure aveva stimolato la curiosità; l’avevan fatta venire per vedere il suo frontespizio; e le avrebbero forse dato un posto più vicino se avessero trovato la persona corrispondente all’immaginazione, o l’arrendevolezza in armonia col desiderio. Non rispondendo essa abbastanza alla prima condizione, e punto alla seconda, se ne doveva ritornare. E s’armò di santa pazienza e ritornò. Per arrivare al nuovo villaggio, dove pochi anni prima avevano ammazzato il sindaco a coltellate, non c’era strada: essa v’andò in groppa a un mulo, che ogni poco cascava, per un sentiero orribile, fiancheggiato di precipizi. Rischiò più volte di sfracellarsi il capo; arrivò al paese con le mani in sangue. Vi trovò una scuola con le finestre senza impannate, con un soffitto a travi, pien di topi, e un alveare in un muro, da cui volavan le api sulle alunne. Ci stette molti mesi. Non le pagarono lo stipendio pattuito, non le davano che cinquanta lire al bimestre. Ma s’adattò anche a questo, e resse l’anima coi denti fin che suo padre, tocco dalla voce di Dio, s’indusse una buona volta a richiamarla a casa. Ma prima di partire volle che le pagassero lo stipendio arretrato, che sommava a seicento lire. La cassa era vuota, dovette aspettare un pezzo. Le diedero finalmente, non intero il suo avere, ma sole cinquecento lire, tutte in soldi, ch’essa impiegò un’ora e mezzo a contare, e che dovette caricar sopra un ciuco. Arrivata al porto vicino, dove si doveva imbarcare per Genova, si vide rifiutata, alla locanda, una parte della moneta, e verificò che molti dei suoi soldi eran falsi. Fece un ultimo atto di rassegnazione, chiuse in un canestro i soldi buoni, e s’imbarcò. E così fu finita.
Vinto dalla commozione, il giovane le afferrò una mano, ch’essa gli lasciò un momento, dopo aver dato uno sguardo fuor del capanno.
— Arrivata a casa — concluse — sentivo un gran bisogno di vivere un po’ di tempo in pace, lontana dal mondo, e cercai un posto in un paesetto di montagna. Ed eccomi qui.
E il maestro seguì con l’occhio il suo gesto, che accennava la valle, stupito quasi di riveder tutt’a un tratto i boschi di pini e d’abeti e le cime bianche delle Alpi, dopo aver viaggiato col pensiero tanto lontano di là, sulle rive del mare, in un mondo luminoso e sconosciuto.
— Eppure — esclamò la cugina con impeto giovanile — io ritornerò in quei paesi. Ci ho sofferto, ma ci ho passato di così bei giorni, ci ho conosciuto tanta buona gente! Le ragazze mi adoravano, molte mi scrivono ancora. Qui in mezzo alla neve ripenso a quei luoghi e mi par di vedere una gran luce lontana. Mi prende la nostalgia del sole. E poi... quei due anni m’han messo la smania di vedere il mondo, di cambiar modo di vita, che so io? un bisogno di movere e di lottare. Chiederò un posto nelle nostre scuole di Tunisi — finì con dir sorridendo — o in Palestina. Non voglio morire al freddo. — E soggiunse con mestizia: — Anche là mi farò voler bene.
Accompagnò il cugino per un buon tratto di strada fino a un ponte sul torrente, che era il termine ordinario delle sue passeggiate. Il giovane era silenzioso: quei racconti di viaggi, di dolori e di sacrifizi gli avevano eccitato la fantasia, destato, anche a lui, un certo desiderio di paesi lontani e di cose nuove. E quell’idea che anche nella vita del maestro si potessero dare tante avventure strane, e pericoli, e casi in cui occorreva coraggio e fortezza, nobilitava nel suo concetto la sua professione; la quale gli appariva illuminata da una nuova luce di poesia, come la vita dell’esploratore e del soldato. Si rallegrava d’esser giovane, di sentirsi pieno di speranza e di forza.
Al momento di separarsi, mosso da un vivo affetto, prese tutt’e due le mani alla cugina.
Questa se le lasciò stringere, ma le ritirò subito, guardando intorno, e gli disse: — Bada, ho detto che siamo cugini; ma potrebbero non crederlo.... E poi, c’è qui un capraro che mi fa la corte. Se ingelosisce, son perduta. Siamo dunque d’accordo sul programma didattico! — soggiunse a voce alta, vedendo gente che passava.
— Siamo d’accordo, — rispose sorridendo il maestro.
Ed essa riprese a bassa voce, con l’accento del cuore, ma fermo: — Se volesse il caso che non ci rivedessimo più... salute e coraggio.
Il maestro le ricambiò l’augurio affettuosamente, con un atto della mano, e pigliò la via della valle: essa ritornò verso la sua casetta, ch’era già nell’ombra.