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La festa solenne 65

già in un angolo la banda dei filarmonici, il cortile era affollato, e il muro di cinta tutto coronato di contadini, seduti con le gambe ciondoloni, che formavano una grande fascia nera semovente fra il bianco dell’intonaco e l’azzurro del cielo. Egli s’andò a mettere in piedi vicino alla sua classe. Osservò che don Leri mancava. La serva del parroco s’era piantata, vicino agli scolari di lui, con l’aria d’invigilare.

Alle tre in punto entrarono il sindaco e i consiglieri, seguiti da un corteo di villeggianti vestiti di colori allegri, tutti coi visi accesi dalle libazioni, i quali annunziavano dei cuori pronti a intenerirsi.

La funzione cominciò con un canto delle alunne, che al maestro fecero l’effetto di un branco di galline che facessero l’ovo tutte insieme. Le madri le avevano infagottate, poverine, che parevan balle di cenci, e lisciate e unte come roba da friggere. Poi cantarono un coro gli alunni, del quale il maestro non capì che un verso: le gioie del lavor, ripetuto dieci volte. L’organista concertatore fu complimentato dalle autorità.

A quel punto avrebbe dovuto parlare il soprintendente Toppo; ma non c’era neanche da pensarci. Non levandosi in piedi il sindaco, nè facendo cenno che si incominciasse la distribuzione dei premi, il maestro si domandava con curiosità che cosa s’aspettasse, quando vide alzarsi e venire innanzi nello spazio vuoto tra le autorità e gli alunni la maestrina di prima. Fu preso da una viva inquietudine. Che diavolo veniva a fare?

Ahimè! non tardò a saperlo.

La ragazza, striminzita in una veste di percalle a chicchi rossi, che le accorciava troppo la vita, disse a voce alta, con una disinvoltura che gli fece dispetto: — La battaglia di Maclodio, di Alessandro Manzoni.

Il maestro ebbe una scossa. La battaglia di Maclodio! Che idea! Come c’entra? Ma è ridicolo! Ma in che maniera permettono un simile scherzo?

La signorina cominciò. Non aveva detto ancora la prima strofa che il maestro si sarebbe nascosto sotto un sedile. La sua voce forzata dava in falsetto; l’intonazione era enfatica e monotona; con le braccia parea che nuotasse: tutta la sua maniera aveva un che d’affettato e di puerile, che l’espressione tetra del viso contraffatto rendeva più comico. Il giovane diventò

Il romanzo d’un maestro. — I. 5