Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Garasco/XIII

Questione sociale

../XII ../XIV IncludiIntestazione 22 settembre 2024 100% Da definire

Garasco - XII Garasco - XIV
[p. 58 modifica]

QUESTIONE SOCIALE.


Erano intanto venuti già a Garasco e nei dintorni molti villeggianti, che avevano quasi mutato aspetto al villaggio, e ogni giorno n’arrivavano; un nuvolo di signore, di ragazze, di studenti, d’uomini d’affari, che ripartivano ogni mattina per Torino per ritornare la sera; e incominciò la vita delle scarrozzate, dei piccoli balli e dei desinari, nella quale il sindaco si tuffò a capo fitto. Cercando i villeggianti, come sogliono, per il gran terrore della noia, la compagnia di tutti, anche il maestro Ratti, giovane e simpatico, fu cercato. [p. 59 modifica]

Fu un piacere nuovo per lui quello di trovarsi per la prima volta in quella numerosa compagnia signorile; ed era la prima volta, poichè signori non gli parevano veramente, e per la vita modestissima che menavano, e per i modi e gli usi loro poco diversi da quelli della classe inferiore, le poche persone agiate del paese, con le quali aveva qualche relazione. Nato sul confine tra il popolo minuto e la borghesia, spinto a salire in questa, non solo dall’ambizione ch’era nella sua indole, ma dalla tendenza comune della classe lavoratrice in cui era cresciuto, e preparato, per di più, a sapervi star bene dall’educazione gentile ricevuta dalla madre, e dal commercio avuto, come figliuolo di tipografo editore, con gente del miglior ceto, egli non si trovò punto a disagio, sulle prime, in mezzo a quelle famiglie d’impiegati, d’avvocati e di industriali ricchi, che l’attirarono nel loro cerchio. Quell’ultima levigatura che gli mancava, certe finezze, convenzionali più che altro, delle forme, egli aveva tanta facilità ad appropriarsele, avendo acume bastante per osservarle, che in pochi giorni nessuno si sarebbe più accorto che una volta gli fosser mancate. Si gettò dunque in quella società nuova, portandovi il suo desiderio istintivo, non già di primeggiare, ma d’ispirar simpatia con le sue maniere, di farsi benvolere per il suo carattere, e stimar quasi, per l’intelligenza e la cultura, superiore alla sua professione. E c’era in fondo a tutto questo, non tanto la speranza, quanto l’idea lieta della possibilità d’ispirare a qualche persona socialmente maggior di lui un sentimento più che di benevolenza, non col fine determinato di valersene, ma solo per sentirsi come sollevato in dignità davanti a sè medesimo, e cavarne argomento di buon augurio per altre fortune, in un campo affatto diverso.

Ma fin da principio gli toccò di fare un’esperienza spiacevole, cioè che la sua cultura, non disprezzabile per un maestro giovane, ma ristrettamente scolastica, era come moneta fuor di corso nella società mondana; egli si trovava come al buio in mezzo a tutta quella gente infarinata di letteratura europea del tempo corrente, informata, per udita se non altro, di nomi, di libri e di fatti, ch’egli non conosceva, esercitata a toccare leggermente cento soggetti, di cui egli era [p. 60 modifica]digiuno. Molto spesso doveva tener la bocca cucita; qualche volta sentire anche delle piccole esclamazioni di stupore: — Come non conosce il tale?.... Come non ha letto questo?... — fatte senza alcuna intenzione di pungerlo: ma che lo pungevano. Ed anche quel materiale di lingua tecnica ch’egli possedeva e maneggiava con garbo nella scuola, s’avvide che gli serviva male in quelle conversazioni varie e sciolte, in cui si dà ad ogni pensiero l’espressione più rapida e si gioca al volante con le parole: egli riusciva stentato nello scherzo, intaccava nell’aneddoto, si coglieva egli stesso, sovente, a spiegare una idea invece d’accennarla passando, e gli uscivan di bocca delle frasi corrette, su cui non c’era nulla da dire, ma ch’egli avrebbe voluto non aver dette, appena ne aveva inteso il suono e vista l’impressione sul viso altrui. Queste furono le prime sbucciature che gli toccarono, assai dolorose, poichè si trovava in quel periodo critico in cui il nostro orgoglio intellettuale, alimentandosi più dell’idea di ciò che speriamo di diventare che della coscienza di quello che siamo al presente, ha delle pretensioni vaste e indeterminate, che, per quanto si tengan nascoste, ci espongono a mille offese e a mille vergogne.

Ma il suo peggior disinganno fu un altro, e quanto peggiore! Entrando per la prima volta, in qualità di maestro, in una società signorile e non priva d’una certa cultura, egli avea creduto che la sua professione vi fosse tenuta in un grado di stima corrispondente alla sua reale importanza, e alle molte e delicatissime difficoltà di ogni specie, ch’egli v’aveva trovate, e v’andava trovando ogni giorno. E fu invece molto stupito al riconoscere che quel nome di maestro sonava agli orecchi dei più assai diverso da quello che aveva immaginato, che alla sua professione pareva legata l’idea di non so che di meschino e di trito, e quasi un’ombra di ridicolo, come a quella dei cantastorie e dei poeti improvvisatori delle fiere. Quando lo presentavano a qualcuno, a quelle parole: — Ecco il maestro — egli osservava certe espressioni di curiosità sorridente che lo urtavano. Certi sguardi delle signorine, le quali, pensando sempre al matrimonio, lasciano trapelare meglio delle signore, quando si presenta loro un [p. 61 modifica]giovane, il caso che fanno della sua condizione sociale, gli dicevan troppo chiaramente che esse lo consideravano, non forse tanto al disotto, quanto a una grande distanza da loro. Osservato con una espressione sfuggevole di simpatia quel suo viso lungo e un po’ pallido, rischiarato da due occhi pensierosi, e dolci quando ridevano, esprimenti insieme dignità e gentilezza, pareva che dicessero: — Peccato che non sia che un maestro! — Certi modi familiari, e che pure avevano un’intenzione cortese, come una frase che intese un giorno a una merenda in campagna: — Oh, facciamo un po’ di posto anche al maestro, — gli parevano estremamente indelicati. E soprattutto lo umiliava il contegno ossequioso d’una maestrina di Torino, che una bella e grossa signora, moglie d’un ricco negoziante d’olii, aveva condotta in campagna a far ripetizione ai bambini: egli si sentiva ferito di rimbalzo, quando, senza mostrare il minimo senso della sconvenienza dell’atto, la signora le diceva: — Maestra, mi tenga lo scialle. — Signorina, mi vada a prendere il ventaglio — come a una cameriera. E aveva un bel rimproverarsi di esser di pelle troppo tenera, e accusarsi di pretensioni ridicole, pensando che il suo collega Labaccio della Normale, messo al posto suo, non avrebbe sentito nessuna di quelle umiliazioni, e si sarebbe accomodato piacevolmente a tutti e a ogni cosa, e mostrato così più modesto e più sensato di lui: l’orgoglio offeso gli si risollevava a suo malgrado, imperioso, come la voce stessa della coscienza. Perdio, un maestro era così poca cosa? E, ancora ingenuo, se ne domandava il perchè. Egli trovava una contraddizione assurda fra quel gran dire e scrivere che si faceva da tutti, della nobiltà della professione d’educatore, dell’importanza capitale dell’istruzione primaria, dei diritti disconosciuti e delle sante benemerenze dei maestri verso la società, e la maniera con cui questa società li trattava, a quattr’occhi. Come mai? diceva tra sè. Ci affidano i loro figliuoli, ci dicono: — ingentilite i cuori — preparate una generazione migliore — rifate il mondo.... e poi: — fate un po’ di posto anche al maestro; — maestra, mi vada a prendere il ventaglio. Qui c’è un’ingiustizia e un’ipocrisia.

E tornando a casa da una festa o da una [p. 62 modifica]passeggiata, rimasticando una di quelle parole o uno di quegli atti che gli avevan fatto sentire l’umiltà del suo stato, e dai quali gli pareva che fossero state ferite insieme tutte le sue ambizioni e le sue speranze, come da una scarica a pallini uno stormo di colombi, pensava a lungo a quella contraddizione e a quell’ingiustizia, e scopriva di giorno in giorno più chiaramente una verità sconsolante. Quei signori non lo disprezzavano per la sua professione, poichè era levata a cielo da tutti; non lo tenevano in così poco conto per l’umiltà della sua famiglia, poichè molti di essi non eran di origine più alta della sua; nè perchè fosse meno istruito, poi che trattavan con grande rispetto anche alcuni della loro classe, ignorantissimi; nè perchè avesse modi meno civili, chè in ciò egli si riconosceva pari a loro. Non poteva dunque esser per altro, che per questo: che egli aveva uno stipendio di settecento lire ed era sopra una via in cui poco di più avrebbe potuto mai guadagnare. Dunque, ne deduceva egli, è l’orgoglio del danaro quello che sfugge loro, quasi loro malgrado; c’è dunque una presunzione di superiorità morale che non deriva da altro che dalla ricchezza, davanti alla quale pare a loro che chi n’è privo debba tenersi spontaneamente quasi in un grado sottoposto, come davanti a una virtù, a un privilegio naturale, che so io? a un diritto del sangue. Che ci fosse anche questa grande divisione di sentimento, oltre che di condizioni materiali, fra i danarosi e gli sprovveduti d’una stessa classe della società, eguali per tutto il resto, egli non l’aveva pensato per l’addietro. Per la prima volta, ora, riconosceva l’esistenza di quest’aristocrazia. E l’osservava ogni giorno nel paese riguardo ai villeggianti, dei quali si contavano le rendite o i lucri professionali con un particolare rispetto, in cui non entrava la stima che ispirasse la loro persona, e si misurava la profondità del saluto alla stregua dei loro averi, non tenendo nemmen conto delle differenze di prodigalità che corressero fra gli uni e gli altri. Era così. Quella sentenza tante volte letta ed intesa, che coi denari non si compera la considerazione, era proprio il rovescio di quello che ei vedeva. E questo lo amareggiava nel più vivo dell’anima. A che pro avrebbe studiato, se, presso a poco, doveva rimaner sempre in quella povera [p. 63 modifica]condizione? Certo, c’erano i compensi dalla coscienza; ma, in una società così fatta, non sarebbe stato sempre egualmente in un canto, avrebbe mai avuto altro che umiliazioni?

Addentrandosi in questo pensiero, s’inasprì, e perdette a grado a grado, nella compagnia che frequentava, quella serenità giovanile, che lo aveva reso da principio, come pensava lui, tollerabile. Cominciò a far capire che s’accorgeva di certe negligenze, che sentiva male certe mancanze, anche involontarie, di riguardo. Dal che nacque, come accade sempre in casi simili, che quelle negligenze si mutarono in freddezze, e quelle mancanze di riguardo involontarie, in piccoli sgarbi voluti. Allora il suo orgoglio fece sangue, e non ci potendo reggere, egli si tirò in disparte. Ma la solitudine lo inasprì ancora di più. Fino allora egli non s’era mai appassionato, non avendo una cognizione sufficiente delle cose, per la quistione dell’ordinamento sociale: se un’idea aveva avuto al proposito, udendo certi discorsi degli operai di suo padre o di gente di campagna, leggendo dei giornali per caso, non era che un’idea negativa e confusa: non riusciva a capire come si potesse credere e affermare che la miseria dei milioni fosse prodotta dal superfluo di qualcheduno, e affacciatosi appena col pensiero a quel campo, si arrestava al vecchio argomento della divisione delle ricchezze, che farebbe tutti poveri a un modo. Ma ora ritornava di proposito, meditando, su quella quistione, non con maggiori idee di prima, ma con una passione che gliene faceva cercare, e di contrarie affatto a quelle che, vagamente, aveva avute per l’addietro. Non trovando però nel suo capo come si dovesse architettare e si potesse costrurre l’edifizio nuovo, che in una idea netta e soddisfacente si sarebbe quetata alquanto, come in una speranza, la sua irritazione, con tanto maggior acrimonia gli veniva fatto d’odiare l’edifizio vecchio, e tanto era l’acrimonia più forte in quanto si poteva posare sopra persone determinate, e alimentare di ricordi freschi dell’orgoglio ferito. Cercando uno sfogo in ogni modo, si proponeva di educare d’ora innanzi a quelle idee i suoi ragazzi, di accendere in loro la propria passione, di vendicarsi almeno con le piccole armi che la società gli metteva in mano. Ma nell’atto [p. 64 modifica]che cercava uno sfogo in questi proponimenti, mille altri pensieri lo turbavano. Avrebbe, così facendo, potuto godere ancora le sue soddisfazioni intime d’insegnante, ch’eran le più vive e le più pure che avesse ancor provato, e che potesse sperar di provare in vita sua? Avrebbe potuto far quello senza tradire i doveri del suo ufficio? Avrebbe avuto la coscienza abbastanza sicura? il coraggio, quando fosse occorso, di sostener quelle idee pubblicamente, in faccia al suo ispettore, per esempio? E allora lo prendeva una grande incertezza, e si ritrovava scontento degli altri, di sè, della sua professione, di tutto. In questo stato d’animo lo sorprese la festa dei premi, dopo la quale egli aveva stabilito di partire.