Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Coraggio!

Coraggio!

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Frontespizio I Garasco
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CORAGGIO!


Il maestro Emilio Ratti, del quale racconto le vicende, fu spinto alla professione dell’insegnamento elementare da una sventura domestica. Suo padre, proprietario d’una piccola tipografia nella città di ***, sede antica d’una Scuola normale di maestri, era ancora nel pieno vigore della maturità, e cominciava dopo vari anni di dissesto a rifarsi un poco, grazie alle ordinazioni di certi editori di Torino e alla stampa d’un giornale agricolo del circondario, quando morì quasi all’improvviso, lasciando senza sostegno la moglie, il primogenito Emilio, ch’era adolescente, e tre ragazzi, una femmina e due maschi, il maggior dei quali aveva nove anni. Una sera, appena seduto a tavola con la famiglia, lasciò cader di mano la forchetta, tentò di ripigliarla, non potè; disse: — Non mi sento bene; — e furon quelle le sue ultime parole sensate: lo portarono a letto, venne il medico: era finita. La paralisi gli aveva preso tutta la parte destra del corpo, togliendogli la ragione: egli non balbettava più che frasi sconnesse e non riconosceva più i suoi figliuoli. Dopo venti giorni morì. Danari da parte non ne avevano, la tipografia bastò appunto a pagare i vecchi debiti, e alla famiglia non avanzò che a campare per un mese, passato il quale, la vedova, che era sempre stata infermiccia, si mise a letto per non più rialzarsi, e i figliuoli rimasero senza pane. Di parenti stretti non avevano che uno zio violinista, spiantato e [p. 2 modifica]scioperato, il quale aveva costretto a scappar di casa la sua figliuola unica, che studiava da maestra a Torino: una lettera affettuosa di lei fu il solo conforto che venne loro da quella parte. I parenti lontani non risposero, gli amici vicini si rimpiattarono. Furono persone estranee, come spesso accade, che salvarono la famiglia, smembrandola. Il vescovo mise uno dei ragazzi in uno istituto di don Bosco, il sindaco ottenne un posto per l’altro negli Artigianelli; e certi coniugi Goli, agiati e senza figli, si presero la bambina, e mantennero l’Emilio per vari mesi, fino a che, rinfrescati i suoi studi dei primi due corsi tecnici, che aveva abbandonati per mettersi col padre nella tipografia, potè presentarsi agli esami d’ammissione alla Scuola normale della città, dove ottenne un posto gratuito. La madre, consunta meno dalla malattia che dallo strazio, prima di veder i suoi figliuoli nella miseria e poi di non vederli più, non restò lungo tempo a carico dei suoi benefattori: morì il medesimo giorno in cui l’Emilio le portò la notizia della sua ammissione alla Scuola.


Ancora sbalordito da quel nuovo colpo, il giovane entrò nel convitto della Scuola normale, ch’era in un antico convento, e contava, fra i tre corsi, circa a cinquanta convittori, e una decina d’esterni. Subito lo distrasse un poco dalla tristezza l’aspetto di quella comunità strana, composta di giovani di diciassett’anni e d’uomini di trenta, di chierici e di ex militari, di figliuoli di contadini, d’operai, di bottegai, d’impiegati, diversissimi fra loro di grado di coltura: alcuni dei quali eran stati cacciati in quella camera dall’ambizione di innalzarsi sopra la loro classe sociale, altri dalla ripugnanza per il lavoro meccanico, o dall’esperimento fallito di mestieri diversi, vari da una disgrazia che aveva precipitato la loro famiglia nella povertà, pochi dalla così detta vocazione professionale; e tutti rifatti un po’ ragazzi da quella vita scolaresca, con la mensa in comune, le ricreazioni e l’uscita a ore fisse. Ma più che altro gli giovò l’occupazione continua, imposta dalle molte materie d’insegnamento, e dall’obbligo che v’era allora, di fare i sunti delle lezioni; il che lo costringeva a scrivere per varie ore ogni giorno. Lo sgomentò da principio lo studio della pedagogia, che [p. 3 modifica]gli parve astruso e arido, e a cui, oltre che la sua intelligenza impreparata a studi astratti, si ribellava la sua memoria. Ma il metodo ottimo del suo professore, che rifuggiva dall’abuso dei precetti dommatici, e s’intratteneva a lungo sulle nozioni elementari, fondando ogni ragionamento sopra osservazioni esatte e sopra fatti comuni, con una grande chiarezza di parola, gli rese presto gradevole anche questa materia.


Il professore di pedagogia, infatti, un certo Megári, direttore della Scuola, che insegnava pure diritti e doveri e abitava nel convitto, era di gran lunga il migliore di quei professori. Aveva insegnato latino e greco in un Liceo. Otto anni innanzi gli era morta la moglie nell’incendio d’un teatro, e questa disgrazia gli aveva lasciato una tristezza inconsolabile. Era sui cinquant’anni, piccolo di statura, grigio, sempre chiuso in un soprabito nero e corto, stretto alla vita, e aveva il viso severo e le mosse brusche; per il che dicevano in città e nella scuola che pareva un colonnello dei bersaglieri in aspettativa. Ma non era collerico nè burbero; si faceva rispettare e temere con certa gentilezza austera di modi, e con un laconismo freddo negli elogi e nei rimproveri, che dava a ogni sua parola un grande valore. Aveva, insieme coll’autorevolezza che vien dal carattere e dall’ingegno, quella cura costante e gelosa di tenerla alta, che è propria degli uomini piccoli. Assisteva alle ricreazioni, e invitava qualche sera gli alunni, a gruppi di otto o dieci, a passare un’ora nel suo salotto, in conversazioni letterarie; ma nessuno avanzava con questo d’un passo nella sua familiarità: egli ridestava sempre in tutti ogni giorno quel senso di curiosità e di suggezione che avevan avuto al primo vederlo. Tutti, per altro, sentivan per lui quella simpatia, nata dalla gratitudine, che ispirano gl’insegnanti, i quali rendon piana e piacevole una materia difficile, e lo stimavano perchè era giusto; tanto che non era riuscito mai ad alcuno di scoprirgli un’ombra di predilezione per chi che sia. Negli studi esigeva molto, ma non fuor di ragione, e usava indulgenza con le intelligenze tarde, ma operose. Non si mostrava irritabile che riguardo alla pronunzia, facendo ripetere anche venti volte la stessa parola, fin che la [p. 4 modifica]dicessero bene, ed era sopra tutto terribile contro la volgarità del linguaggio e la villania delle maniere, e contro la mancanza di dignità personale, anche nelle più piccole cose, così dentro che fuor della scuola: vibrava allora delle parole che facevano arrossire o impallidire i più arditi. Diceva che per prima cosa voleva che i suoi alunni fossero gentiluomini. E da questo, e da altri segni, lasciava trasparire d’avere un concetto altissimo dell’ufficio del maestro. Oltrechè pareva persuaso della onnipotenza della pedagogia, e come certo che, se gli fosse stato possibile l’educare egli solo, a suo modo, tutta la nuova generazione, avrebbe rifatto la razza umana. Derivava forse questa sua illusione dal non aver fatto mai scuola a ragazzi, i quali egli s’immaginava assai più semplici e cedevoli di quello che sono; ma, comunque fosse, quest’illusione non aveva per effetto di alterar punto il carattere sperimentale della sua scuola, e nasceva da una bella passione per l’insegnamento, ch’egli riusciva a trasfondere in molti dei suoi alunni.


Quest’uomo che, essendo triste, rispecchiava il suo stato d’animo, e faceva con un impulso vigoroso correr dritto il suo pensiero sulla via degli studi, senza quasi lasciargli il tempo di rivoltarsi verso il passato doloroso, impresse, si può dire, il proprio stampo nel giovine Ratti. Egli se ne incominciò ad accorgere sul principio del second’anno, quando la pedagogia entrò in un campo più pratico, scendendo dallo studio delle facoltà umane e del concetto generale dell’educazione in quello della scuola e della famiglia. Allora si chiarì e si svolse lentamente in lui una viva passione per la carriera magistrale; passione che gli parve, allora soltanto, d’aver sempre avuta, inconscientemente. E questo era vero. Una gentilezza d’animo ereditata dalla madre, che apparteneva a una famiglia signorile, con la quale, per cagione del suo matrimonio, s’era rotta, e aveva vissuto sempre, con suo grande dolore, in discordia; la lettura, benchè superficiale, di molti libri scolastici o educativi che gli venivan tra mano nella tipografia del padre; quella specie di benignità paterna che fiorisce nel cuore d’ogni primogenito per i fratelli molto minori di lui, quando la famiglia è nelle [p. 5 modifica]strettezze; ed anche l’udir parlare sovente di quella Scuola normale ch’era nella sua città, e che allettava la sua curiosità fin dall’infanzia con le figure nuove e singolari, che vi comparivano ogni anno, avevano predisposto l’animo suo, senza ch’egli se ne avvedesse, alla deliberazione, ch’ei credette di prendere quasi a caso, di fare il maestro. Quando poi la sventura lo aveva colpito, s’era anche aggiunto, a spingerlo per quella via, quel desiderio stanco di vita quieta e solitaria che ogni grande dolore fa nascere: tale parendogli allora che dovesse essere la vita d’un maestro in un villaggio, tutta scuola e casa, senza altro legame col mondo che quello dei suoi ragazzi. Ma un’altra cagione più forte aveva operato in lui. In tutto il tempo trascorso dal giorno ch’era caduto nella miseria a quando n’era uscito per carità altrui, durante quella lunga successione di corse e di visite inutili ch’egli aveva fatto a tanta gente, conducendo sempre per mano i suoi bimbi vestiti di nero, ansiosi come lui mentre salivan le scale, tremanti nel cospetto delle persone a cui chiedevan soccorso, e desolati delle ripulse, in quelle trenta eterne giornate piene di speranze e di delusioni, chiuse tutte da serate tristissime, ch’egli passava in uno stanzino oscuro, accanto alla camera della madre malata, accarezzando e stringendosi al petto quei tre piccoli infelici, e supplicandoli che non piangessero forte, gli era cresciuta per essi nell’anima una pietà immensa e un amore che lo divorava. E in questo aveva molto potuto una cagione che, a primo giudizio, parrebbe che dovesse contar poco in tanta sventura: ed era che i suoi tre poveri ragazzi, non solo mancavano affatto della avvenenza o grazia infantile che giova tanto a ispirar la pietà in casi simili; ma avevano tutti e tre quella specie di bruttezza vistosa, che, senz’esser deforme, rasenta quasi il ridicolo; e quest’effetto era cresciuto dalla grande somiglianza che avevan tra loro. Sul viso di parecchie delle persone a cui li presentava, egli coglieva a volo un movimento di stupore, un sorriso leggerissimo, in alcuni l’espressione d’una pietà piuttosto mossa dal loro aspetto che dal loro stato; la quale gli dava una profonda puntura al cuore, e lo faceva poi prorompere con essi, quand’eran soli, in dimostrazioni di tenerezza [p. 6 modifica]ardente, soffocate dal pianto. Questo sentimento gli era rimasto vivissimo anche dopo la sua entrata nella Scuola, e siccome l’affetto per l’infanzia, forse perchè nasce da una sorgente più ricca e più pura, è quello che più tende ad espandersi di là dalle persone che ne son l’oggetto immediato, così in lui s’era diffuso a poco a poco in una simpatia affettuosa e triste per tutti i fanciulli, per tutta l’infanzia trascurata, abbandonata, povera, oppressa, alla quale lo riconduceva di continuo la sua immaginazione, mossa dai ricordi recenti. A questa disposizione d’animo aggiungendosi l’influsso della letteratura pedagogica tutta ispirata all’amore e al culto della fanciullezza, e al sentimento dell’importanza e della nobiltà del ministero educativo, egli si sentì spinto da tante forze a quella professione, che gli parve d’esser stato designato ad essa dalla natura, e che, se anche la sua famiglia si fosse trovata in istato florido, egli avrebbe finito con fare il maestro. E come a moltissimi accade in quei primi ardori per gli studi e per la professione prescelta, che ci si fissa nella mente una sentenza, la quale esprime le aspirazioni della nostra giovinezza, e diventa quasi il centro luminoso di tutti i nostri pensieri, così a lui si stampò nel cervello, ed ebbe vera e durevole efficacia nella sua vita, una frase intesa dal suo professore di pedagogia verso la metà del secondo corso: — non v’è stato di coscienza più alto e più invidiabile di quello d’un uomo che possa dire ogni sera a sè medesimo: oggi ho messo un’idea nuova, ho destato un sentimento nobile, corretto un difetto, gettato un buon seme di più nell’anima d’un fanciullo. — Ecco il mio avvenire, egli pensò. E questa sentenza gli s’andò di giorno in giorno come accendendo nella mente e approfondendo nel cuore, e divenne l’anima dei suoi studi e delle sue speranze.

Ma, pure senza di questo, se non fosse stato il senso continuo d’oppressione che dava a tutti la sovrabbondanza delle materie di studio, la quale, come si diceva, non solo non lasciava il tempo di digerire le cose, ma nemmeno di masticarle, quella vita gli sarebbe riuscita abbastanza piacevole, non ostante la libertà ristrettissima. Le lezioni pratiche nelle classi elementari annesse alla Scuola, le conferenze, le [p. 7 modifica]passeggiate pedagogiche, le visite alle scuole rurali delle borgate lo divertivano. Anche lo ricreava la compagnia, benchè l’indole sua piuttosto raccolta, e ancora velata di tristezza, lo tenesse un poco in disparte. Nei primi mesi aveva avuto per compagni di camerone un tarchiato campagnuolo di vent’anni, dalle mani callose e dagli scarponi inchiodati, che ansava sui sunti come un bove all’aratro, e stillava sudore sotto le interrogazioni, agitato da un perpetuo terrore degli esami; e un prete spretato allegrissimo, gran fumatore di pipa e spiantato dalle barbe, al quale i colleghi avevan comprato per sottoscrizione una giacchetta di frustagno da quindici lire, tutta grinze e sgonfi, ch’era lo spasso universale. Questi due l’avevano sviato molte volte dai suoi pensieri malinconici. Poi il direttore aveva fatto una nuova ripartizione, riunendo a tre a tre gli alunni dello stesso circondario, e a lui eran toccati per vicini un ex caporale dei granatieri e il figliuolo d’un flebotomo, dai quali non fu più separato. Con questi aveva stretto amicizia, e s’accompagnava con essi soli, com’era prescritto dal vecchio regolamento, nelle ore d’uscita, essendo incaricato il granatiere dell’ufficio di guida, ossia di vigilare e di riferire intorno alla condotta degli altri due. E se la varietà è dilettevole, egli non avrebbe potuto capitar meglio, perchè due originali più diversi fra di loro e da lui non si sarebbero potuti accozzare neanche a cercarli. L’ex caporale, di nome Lérica, era venuto alla Scuola con una piccola celebrità, perchè, avendo l’anno innanzi, per via di favore, dato gli esami di patente con le ragazze, invece che con gli uomini (chè era stato impedito prima dal servizio), un giornale di Torino aveva notato in una descrizione graziosa della sala pei lavori in scritto la macchietta bizzarra che faceva tra quelle duecento signorine, monache, contadinelle e collegiali di varie uniformi, quel colosso di granatiere in divisa, seduto a un tavolino in disparte, curvo sul suo quaderno, con due enormi baffi che spazzavan la carta; e di quella macchietta s’era molto parlato, scherzando, nel mondo scolastico. Riprovato in tutte le materie per mancanza assoluta di preparazione, aveva dovuto rassegnarsi a intraprendere gli studi regolari, ed era entrato alla Scuola. Perchè diamine avesse scelto per l’appunto la professione [p. 8 modifica]di maestro quel soldatone muscoloso, che a vent’otto anni ne dimostrava quaranta, con quei due occhioni che gli uscivan dal capo, con quei due pugni che parevan due mazze, con quella voce di cannone da piazza, e quel viso da spauracchio di ragazzi, nessuno lo riusciva a immaginare, tanto più ch’era di natura impetuosa e collerica a segno che, quando alla scuola di tirocinio, rispondendo alla critica ragionata della sua lezione fatta da un collega, si metteva il pugno sotto il naso, come di solito, e sgranava gli occhi accesi, il collega faceva sempre un passo indietro, per prudenza. E riusciva anche più strano che avesse presa quella carriera perchè pareva dominato da un’avversione istintiva per la ragazzaglia, nella quale immaginava degli abissi di perfidia, in modo che alla scuola pratica credeva di scoprire ogni giorno, dal come lo guardavano, un ragazzo che l’odiasse a morte, e fissava ora l’uno ora l’altro con l’aria provocante d’un duellista, come avrebbe guardato degli uomini, e ne parlava dopo con calore, trattandoli di mascalzoni e di faccie da schiaffi. Ma piaceva a Emilio Ratti per la grande sincerità dell’animo ed anche per un certo acume e per il buon senso che spiegava nelle materie di studio, quantunque nascesse disaccordo subito tra di loro, quando dalla Scuola cadeva il discorso sulla professione; poichè di questa aveva il Lérica un concetto diverso al tutto dal suo, vagheggiando egli una vita battagliera, in cui avrebbe fatto tremare sindaci e parroci, portati di peso fuori dalla scuola parenti indiscreti e inservienti comunali villani, e cacciati gli scolari rivoltosi dalla finestra. A tenere un poco in freno questo toro furioso l’aiutava l’altro compagno, Giovanni Labaccio, un grassotto di statura media, con una faccia sbarbata e placida di buona memoria, assestato in ogni cosa come un vecchio impiegato in ritiro che non si lagnava mai di nulla e dava ragione a tutti, acconsentendo con un sorriso prudente alla maldicenza; diligente negli studi senza passione, ottimo calligrafo, mangiatore lento e leccone, contento sempre come se nella professione di maestro avesse assicurata una vita comoda e felice, piena di vantaggi e di piaceri riserbati a lui solo; e continuamente rallegrato dal pensiero d’una piccola eredità che [p. 9 modifica]aspettava da uno zio vecchio, sindaco del comune di Azzorno, del quale parlava spesso con alterezza. Con questi due s’intratteneva il Ratti in lunghi discorsi durante le ricreazioni, mentre gli altri giocavano alle bocce o al volante, e con loro faceva ogni giorno la sua passeggiata, tanto che a molti in città era diventata come familiare all’occhio la figura di quel giovanotto smilzo e pallido, dagli occhi intelligenti e dal mento lungo, sempre imprigionato fra quel colosso violento, che ogni poco alzava la voce e serrava il pugno sotto il naso, e quel posapiano rotondo e sorridente, attento di continuo a non insudiciarsi le scarpe e a fumare con parsimoniosa lentezza il suo mezzo sigaro Cavour.


Del rimanente, la città essendo piccola, altri dei suoi condiscepoli eran conosciuti di persona e di fama: il prete spretato, un poeta che scriveva sonetti a pagamento per fattorini di caffè e per feste di campagna, un ex operaio tipografo, che sovrastava a tutti per ingegno e per studio, e di cui si pronosticavan gran cose, e due o tre, che facevan delle scappate la notte, uno dei quali fu preso una volta dai carabinieri mentre tentava di scavalcare il muro del cortile, e chiamato in giudizio davanti al Consiglio direttivo. Ma il Ratti non aveva dimestichezza con nessuno fuorchè coi due vicini, e ignorava anche la più parte dei fattarelli della cronaca interna. E così passò i tre anni della Scuola, tutto immerso nello studio, stentando un poco nella parte scientifica, raccogliendo tutti i suoi sforzi sulle lettere e sulla metodologia, e accendendosi sempre più nel suo amore ideale dell’infanzia e nell’estimazione dell’ufficio a cui era destinato; ma senza abbandonarsi a troppo seducenti illusioni sul suo avvenire; chè non gli era concesso dal rude esperimento che aveva fatto della vita dopo la morte del padre. E d’anno in anno si sentì legato al direttore da maggior simpatia non ispirata soltanto dalle doti della mente e del carattere che tutti riconoscevano in lui, ma da un’altra cagione, ch’egli credeva riguardasse sè solo. Fin dal primo giorno della sua entrata alla Scuola, gli era parso che lo sguardo del direttore si arrestasse sopra di lui più sovente che [p. 10 modifica]sopra gli altri, e che qualche volta, quando s’incontrava col suo, lo sfuggisse, come per non essere indagato. Era uno sguardo che non esprimeva nè curiosità nè benevolenza; nè mai negli interrogatorî o in altre occasioni aveva il giovine notato nel suo viso o nei suoi modi il più sfuggevole segno di predilezione. Eppure, qualche cosa c’era; anche soltanto quello sguardo muto, in quell’uomo così rigido ed eguale con tutti, doveva avere un significato. E quel sentimento segreto che non gli riusciva d’indovinare, e su cui tornava ogni momento col pensiero, lo animava al lavoro, gli dava una più viva e più intima soddisfazione di quella che avrebbe avuto, forse, da un’aperta dimostrazione di simpatia. Eran poca cosa quello sguardo, quell’attenzione fredda di cui gli pareva d’essere a quando a quando l’oggetto; ma eran quanto avesse trovato di più somigliante all’espressione della sollecitudine paterna, dopo che non aveva più nè padre nè madre. E anche dubitando spesso che fossero più immaginarie che reali le cagioni del suo sentimento, si sentiva meno orfano quando quegli occhi severi si posavano su di lui. E si rimetteva allo studio, più tranquillo.


Una cosa sola gli venne a turbare, verso la metà del terz’anno, la compostezza d’animo in cui era assuefatto a vivere, e fu l’illusione che tutta quella congerie di cognizioni superficiali di letteratura e di scienza, delle quali avea piuttosto carica la memoria che nutrito l’intelletto, costituissero una vera e ricca dottrina; di che gli spuntò dentro un principio di vanagloria: quella che prende quasi tutti, nel primo fervore degli studi quando non s’è ancora arrivati a quella mezzana altezza di cultura, di dove si abbraccia con lo sguardo il vasto orizzonte delle cose ignorate. Ma si raumiliò ben presto all’avvicinarsi degli esami finali, quando, nel ripassar le materie e nell’interrogare sè medesimo, riconobbe quanto fossero scarse le idee chiare e le nozioni solide in quel magazzino oscuro e disordinato di rottami ch’egli credeva riboccante di ricchezze. Si mise per morto a studiare gli ultimi due mesi, vegliò molte notti, ed ebbe, particolarmente di notte, delle ore tristissime, durante le quali, interrotto lo studio, [p. 11 modifica]era ripreso come da un sentimento nuovo delle sue disgrazie; e in quell’esaltazione cerebrale rivedeva con lucidità spaventevole le agonie dei suoi genitori e le scene più dolorose di quel terribile mese di abbandono, e tornava a desolarsi e a disperare, come davanti alla realtà delle cose. Ma gli giovava allora la compagnia dei due colleghi, che vegliavano nello stesso camerone, poichè da quelle allucinazioni o l’uno o l’altro lo riscoteva: o l’ex granatiere, infuriando col pugno stretto contro le difficoltà, come contro nemici personali, o il Labaccio, che russava regolarmente cinque minuti per ogni ora di studio, emettendo dei suoni acuti stranissimi, come grida che gli sfuggissero dall’anima per la gioia di dormire. E qualche volta anche lo confortavano a parole, l’uno sacrandogli nell’orecchio, l’altro esortandolo ad aversi riguardo alla salute. In fondo, egli non s’affiatava perfettamente con nessuno dei due, chè era troppo più fine di tempra, e aveva un troppo diverso sentimento della vita, oltre che una disparità d’anni notevole; ma forse per l’effetto stesso di quella grande differenza, che lo faceva spesso pensare e sorridere, aveva finito con affezionarsi all’uno e all’altro; al granatiere in particolar modo; tanto che sentì maggior pena che non si aspettasse quando, dati con fortuna gli esami di patente, dovettero separarsi con la certezza di non rivedersi per un pezzo, il Lérica per andare a Torino, l’altro per tornare ad Azzorno, ed egli per rientrare in casa dei coniugi Goli.


Questi, che avevano posto affetto alla bambina, soddisfatti dalla buona riuscita del giovane, gli regalarono la somma che avrebbero speso per la scuola s’egli non si fosse guadagnata la pensione, e gli trovarono subito un posto provvisorio nel vicino villaggio di Garasco, dove avrebbe sostituito per un anno un maestro di 1.a, ch’era malato a Torino, e che il sindaco, suo parente, voleva riprendere, appena fosse guarito. Lo stipendio era poca cosa: settecento lire, ossia centoquaranta lire di meno di quello che lo stesso municipio offriva in quei giorni a una guardia campestre, con un avviso pubblicato sui giornali. Ma stando là nove mesi, egli avrebbe potuto cercarsi con comodo un altro posto più vantaggioso, e quello sarebbe stato [p. 12 modifica]per lui come un anno di tirocinio. Ricevuto l’atto di nomina dal municipio, dedicò le ultime due settimane delle vacanze a prepararsi una scelta accurata di esercizi orali e scritti, graduati secondo la migliore metodica, per esordire con sicurezza; prese l’associazione a un giornale didattico, per tenersi in corrente con le novità e avere una scorta alle lezioni; e la mattina della partenza, caricato sopra un calesse un vecchio baule, che conteneva i suoi pochi panni, una ventina di libri e il pacco voluminoso dei sunti, andò a smontare davanti alla Scuola normale, per dare l’ultimo saluto al suo direttore.


Questi lo ricevette nel salotto, con la sua solita cortesia austera, senza sorriso. Gli fece dei buoni auguri e delle raccomandazioni: che si portasse bene nel villaggio, rispettoso con tutti, ma raccolto nei suoi studi, alieno dai partiti, senz’altro pensiero che quello di compiere il proprio dovere; che non commettesse l’errore di chiedere subito tutto quello che gli fosse occorso per la scuola, come facevan tanti, col disegno d’una scuola modello alla mano, che passavan così per novatori indiscreti; ma pigliasse le cose alla larga, parlando ora col soprintendente, ora col sindaco, a intervalli, coi dovuti riguardi; che era il mezzo migliore di conseguire l’intento. E altre cose. Poi gli disse: — E miri sempre in alto. A tutto si può pervenire anche per la via modesta che ella ha presa. Non si lasci scoraggiare dall’idea della grande concorrenza, che è la scusa degli inetti. I concorrenti sono innumerevoli, nel nostro come in ogni altro campo; ma se si tolgono quelli a cui non basta l’ingegno, quelli che hanno ingegno e non volontà, quelli che han l’uno e l’altro, ma non carattere, o salute, o fortuna, i moltissimi si riducono a pochi. C’è dei maestri che si son laureati, che diventarono professori liceali e universitari, e autori di libri celebri; dei maestri eroici, che senza uscire dall’insegnamento elementare, tiraron su delle famiglie numerose, dei figliuoli medici e avvocati. Ce n’è, anche fra i meno fortunati, molti bravissimi, che vivono stimati e contenti. Ella ne conoscerà. Prenda questi ad esempio, e l’accompagni la fortuna. — Detto questo, gli regalò una copia del manuale di Pedagogia [p. 13 modifica]del Daguet, come sua memoria, dicendogli: — Prenda: ci troverà dentro un foglio che sarà contento di possedere. — Il maestro prese il libro, commosso, si congedò senza poter parlare, e quando fu sul calesse, appena partito, cercò il foglio nel libro e lo spiegò. Non aveva ancora afferrato il senso delle prime parole, che la scrittura, il foglio e la campagna intorno gli si confusero alla vista. Era una lettera di sua madre, l’unica ch’egli possedesse, diretta al professore Megári: un piccolo foglio di carta rigata su cui la povera donna, l’ultimo giorno della sua vita, aveva scritto con la matita: Le raccomando il mio povero figliuolo, dal letto di morte. Il giovane baciò lo scritto, lo ripose, e rialzati gli occhi su quella strada bianca e diritta che lo conduceva alla gran lotta della vita, espresse tutto l’animo suo con la parola che da tre anni s’andava ripetendo continuamente: — Coraggio!