Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Il Conte Orazio, un Notaro, due Testimoni.

Conte. Presto, signor notaro, coi testimoni entrate.

Quel che abbiamo fissato, ad eseguire andate.
E, se vi chiede alcuno chi siete e chi vi manda,
Dite: un esecutore son io di chi comanda.
Poscia ritroverete alcun bene adattato
A fare il personaggio che abbiam già concertato.
Il fin del mio disegno non è che onesto e buono:
Son cavalier d’onore, e galantuomo io sono.
Notaro. Tutto farò, signore, senza riguardo alcuno.
Io faccio il mio dovere, non parlo con nessuno.
(parte con i testimoni)

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SCENA II.

Il Conte Orazio, poi Sandrina.

Conte. Duolmi che or fra i parenti e fra gli amici miei

Non sia donna Felicita; la scena è ancor per lei.
Se stanca d’aspettarmi fuori di casa è andata,
È segno manifesto che meco si è sdegnata.
Questa impazienza sua, questo novel suo sdegno,
Non so se sia d’amore o di disprezzo un segno.
Sandrina. Eccomi di ritorno.
Conte.   Siete ben puntuale.
Sandrina. Quando do una parola, fatene capitale.
Eccomi ad obbedirvi, e a prendere il danaro.
Non vorrei perder tempo per causa del notaro.
Conte. Il notaro? è la dentro.
Sandrina.   Quel vestito di nero?
Conte. Appunto.
Sandrina.   Favorisca. (chiamando il notaro verso la scena)
Conte.   (Vienmi un novel pensiero), (da sè)
Venite pur. (al notaro, verso la scena)

SCENA III.

Il Notaro e detti.

Notaro.   Comandi.

Conte.   (Ditemi il parer vostro.
Vi par che questa donna sarebbe al caso nostro?
È quella ch’io vi dissi, che aver spera il legato).
(piano al notaro)
Notaro. (Buonissima. È il formaggio sui maccheron cascato).
(piano al Conte)
Conte. (Come abbiam da dirigersi?) (piano al notaro)
Notaro.   (Difficile non è.
Lasciate ch’io le parli; fidatevi di me). (prono al Conte)

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Sandrina. Signori, vi sarebbe qualche difficoltà?

Se aveste qualche dubbio sul punto di onestà,
Questa carta leggete. Ecco qui l’attestato
De vita et moribus di tutto il vicinato.
Conte. Son di ciò persuaso. Là col notaro andate.
Fate quel ch’ei vi dice, e non vi dubitate.
Sandrina. Sola con quel notaro in camera appartata?
Eh, non avrei paura, se fossi in un’armata.
Andiam. (incamminandosi)
Conte.   Così mi piacciono franche le donne e pronte.
Sandrina. Ehi! son cento zecchini. (tornando indietro)

SCENA IV.

Pasquina e detti.

Pasquina.   Serva del signor Conte.

Conte. Voi qui? cosa volete?
Pasquina.   (Ritroverò un pretesto), (da sè)
Sandrina. (Che tu sia maledetta! Venuta è troppo presto). (da sè)
Pasquina. Sono andata girando per tutta la città,
E pur, non fo per dire, non trovo carità.
Testè tornando a casa, mi han detto i miei vicini,
Che il zio del signor Conte lasciò cento zecchini.
Onde son qua venuta prima che altre ragazze...
Conte. Onde, non fo per dire, siete due belle razze.
(a Pasquina e Sandrina)
Sandrina. Oh, io non ho parlato.
Pasquina.   Oh, non ne so niente.
Conte. Quel che volea scoprire, scoprii bastantemente.
Itene pur... (come sopra)
Notaro.   Signore, vi prego in grazia mia.
Con queste buone donne di usar più cortesia.
(Fate che parlin meco; con tutte due m’impegno
Di far più facilmente riuscibile il disegno).
(piano al Conte)

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Conte. Via, in grazia del notaro, andate; io vi perdono.

(come sopra)
Pasquina. Che siate benedetto. (al notaro)
Sandrina.   Obbligata vi sono.
Vo’ farvi un bel regalo innanzi di morire.
(al notaro, e parte)
Pasquina. Saprò l’obbligo mio. Basta, non fo per dire.
(al notaro, e parte)
Notaro. Poco più, poco meno, a spender non badate.
Conte. Fate quel che credete; ad operare andate.
(il notaro parte)

SCENA V.

Il Conte solo.

Ciascun la parte sua fa meco a maraviglia.

Chi roba, chi domanda, chi prega e chi consiglia.
Ma è ben sagrifìcato un poco di danaro,
Qualora al maggiore male dee porgersi riparo.
Cosa son questi fogli? è di mia man lo scritto.
(vede in terra i pezzi lacerati da donna Felicita, e li raccoglie ed unisce.)
Come! un obbligo in pezzi di mia man sottoscritto?
Sì, con donna Felicita il debito ho contratto,
E alla restituzione non ho ancor soddisfatto.
In casa mia tal foglio? e lacerato in brani?
Come a donna Felicita uscito è dalle mani?
Che sia fors’ella stessa venuta in casa mia,
Volendo la tardanza tacciar di villania?
Ma se del suo danaro vuol la restituzione.
Perchè, stracciando il foglio, perder ogni ragione?
Son più che mai confuso, non so capire il vero.
Serbisi questa carta, rileverò il mistero.
Vediam, quand’io non v’era, se sia venuto alcuno.
Chi è di là? Bigolino. Gente, non vi è nessuno?

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SCENA VI.

Riccardo e detto; poi il Servitore.

Riccardo. I vostri servitori son nel cortile ancora,

Che bevono un boccale, e giocano alla mora.
Conte. Vi è Bigolino insieme?
Riccardo.   Oh, il signor Bigolino
Degli altri non si degna. Passeggia nel giardino.
Ed ha una compagnia che piace anche al padrone.
Conte. Chi vi è?
Riccardo.   Donna Felicita.
Conte.   Con vostra permissione.
(in atto di partire)
Riccardo. Dove andate?
Conte.   Ho bisogno di ragionar con lei.
Riccardo. Con chi tratta il mio servo, io non mi degnerei.
Conte. Si può temer che il tratti, perchè ne sia inclinata?
Riccardo. Non sarebbe gran cosa. Si sa com’ella è nata.
Dite, dov’è Rosina?
Conte.   Di là colla germana.
Riccardo. È molto che la tratti quella femmina strana.
Conte. Deggio andar, permettete.
Riccardo.   No, fatemi un favore...
Conte. Aspettate; ho veduto passare un servitore.
Ehi?
Servitore.   Mi comandi.
Conte.   Amico, con buona grazia. Ascolta.
Nessun, quand’io non v’era, venuto è a questa volta?
Servitore. Venne donna Felicita, che nel giardino aspetta.
Conte. (Ah, indovinai pur troppo). (da sè, in atto di partire)
Riccardo.   No, non abbiate fretta, (arrestandolo)
Sappia che siete in casa, e fatela salire.
Ho una cosa che preme, con voi da conferire.
Conte. (Tornerà meglio ancora forse al disegno mio). (da sè)
Va giù: di’ che ci sono, non dir che lo diss’io.

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Vedi se vuol salire; e se partir destina,

Sollecito mi avvisa. Non ti fermar. Cammina.
(il servitore parte)
(Trovomi in questo giorno pieno di confusione). (da sè)
Riccardo. Par che siate turbato.
Conte.   D’esserlo ho ben ragione.
Riccardo. Perchè?
Conte.   Disgrazia simile certo non mi aspettai.
(Principiam la lezione). (da sè)
Riccardo.   Eh, non parliam di guai.
Oggi con queste donne il dì si è consumato;
Fare non si è potuto il giro divisato.
Lo farem questa sera.
Conte.   A che mai son ridotto?
(si abbandona sopra una sedia)
Riccardo. Fate il piacer di mettere due bollettini al lotto.
Una bella ragazza mi pregò ieri sera
Di compir questa lista di certa tabacchiera.
L’averà messa al lotto tre o quattro volte o sei.
Tocca a chi sa toccare, sempre rimane a lei.
Conte. Deh lasciatemi in pace.
Riccardo.   Vi è qualche novità?
Conte. Parmi di sentir gente.
Riccardo.   Vengono per di là
Rosina con sua madre, e la germana vostra.
Non fate questo torto all’amicizia nostra.
Confidatevi meco. Sì, di cuor ve lo dico:
Esponerò la vita, se occor, per un amico.

SCENA VII.

La Contessina Livia, Brigida, Rosina ed i suddetti.

Livia. Come! siete tornato? e a noi non dite nulla?

Brigida. È ben mortificata la povera fanciulla.
Livia. Quant’è che siete giunto? cos’è, non rispondete?
Siete molto confuso. German, che cosa avete?

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Riccardo. Non parla, non risponde, sta lì come insensato.

Brigida. Oh poverina me! siete forse ammalato?
Se avete qualche male, troviam la medicina.
Digli tu qualche cosa. (a Rosina) Guardate la Rosina.
(al Conte)
Conte. Vedrò se la Rosina davver mi vorrà bene.
Brigida. Uh, che ve ne vuol tanto. Da piangere le viene.
(Sforzati un po’ di piangere). (piano a Rosina)
Rosina.   Sì signor, ve ne voglio.
(mostrando di piangere)
Brigida. Guardate quelle lagrime; cascano come oglio.
Riccardo. Non può sapersi ancora, il Conte che cos’ha?
Livia. Egli non vuol parlare; so io che cosa avrà.
Meco sarà sdegnato, da ridere mi viene,
Perchè la sua signora trattata ho poco bene.
Perchè con un viglietto da lei l’avea chiamato;
Ed io, non mi nascondo, l’ho preso e l’ho celato.
Ella ardì prosontuosa vantare in mia presenza
D’aver la nostra casa soccorsa in qualche urgenza,
E poscia, immaginandomi di farmi un gran dispetto.
Mi lacerò sugli occhi dell’obbligo il viglietto.
Ad un’ingiuria simile chi può star saldo, stia.
Non soffrirò che torni tal donna in casa mia;
Ed è un torto che fate a questa qui presente.
Che amar vi dichiaraste.
Brigida.   Uh povera innocente!
Conte. (Quante cose in un punto rilevo inaspettate?)
(da sè)
Riccardo. Via, sfogatevi almeno. Volete dir? parlate.
Conte. È ver, di mia germana l’inciviltà detesto.
Ma non ha il mio cordoglio l’origine da questo.

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SCENA VIII.

Don Emilio e detti.

Emilio. Conte, che fa il notaro, che scrive in quella stanza?

Gli parlo, e non risponde. Mi pare un’increanza.
Conte. Quel che opera il notaro, pur troppo lo saprete.
Stare in piedi non posso, vi supplico, sedete.
(Ancor donna Felicita comparir non si vede). (da sè)
Livia. (Che sarà, don Emilio?) (piano a don Emilio, sedendo)
Emilio.   (Vediam quel che succede).
(piano a Livia, sedendo)
Brigida. (Non perdere il tuo posto; vattene a lui vicina).
(Dice piano a Rosina, e in questo mentre Riccardo vuol sedere vicino al Conte, ed essa lo trattiene.)
Questo, con sua licenza, è il loco di Rosina.
Riccardo. S’accomodi, signora. (scostandosi) Povero il mio Contino.
Rosina. Gli voglio star dappresso. (siede dappresso al Conte)
Brigida.   (Si è portata benino).
(da sè, con allegria, sedendo)
Ehi! signor, qui vi è un loco; perchè non siede anch’ella?
(a Riccardo, mostrando la sedia a lei vicina)
Riccardo. Starò vicino al solito della mammina bella. (siede)
Emilio. Via, diteci, signore. (al Conte)
Livia.   Ancor non si sa niente. (al Conte)
Conte. Aspettate, ch’io vedo venir dell’altra gente.
Livia. Come! donna Felicita? ancora ha tanto ardire?
Conte. Via, per l’ultima volta lasciatela venire.

SCENA IX.

Donna Felicita, Bigolino e detti.

Felicita. È permesso? (s’inchina, e gli uomini la salutano)

Livia.   (Un litigio costei viene a promovere).
Conte. Favorite sedere. (a donna Felicita)

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Brigida.   (Sta salda, non ti muovere).

(piano a Rosina)
Conte. Signori, in qualche parte fatele un po’ di loco.
Felicita. No, sto ben dove sono. Mi basta, e non è poco.
(Bigolino porta una sedia a donna Felicita)
Sta meglio il conte Orazio, avendo a lui vicina
Da un canto la germana, dall’altro la damina.
Brigida. (Ehi, sentite l’invidia). (a Riccardo) (Non ti smarrir per questo). (a Rosina)
Felicita. Ma cos’ha il signor Conte, che sembrami sì mesto?
Dovrebbe in dì di nozze esser contento e lieto.
Riccardo. Si può saper la causa che vi fa star inquieto? (al Conte)
Conte. Or che raccolti insieme siam fra parenti e amici,
Vi svelerò la fonte de’ miei casi infelici.
Udite se può darsi fato peggior del mio.
Io non son più, signori, l’erede di mio zio.
Ei fece un testamento, che oggi alfin si è scoperto;
Fu avvisato l’erede, e il testamento è aperto.
Con donna ebbe una tresca il vecchio, e l’ha sposata.
Dal loro matrimonio una figliuola è nata.
Celò, finch’egli visse, la figlia e la consorte,
E le ha col testamento beneficate in morte.
Ed ecco in quelle stanze un pubblico notaro
A inventariare i mobili, le gioje ed il danaro.
Io sono eseredato con crudeltà inumana,
Lascia un grosso legato per dote alla germana,
Oltre quel che le spetta per ragion della madre,
Ed io resto coi beni scarsissimi del padre.
Vi par che giustamente il mio dolor mi opprima?
Eccomi sventurato, più povero di prima.
Livia. A me lascia un legato?
Conte.   A voi tale fortuna,
A voi senza alcun titolo, senza ragione alcuna.
Livia. È ver ch’era di lui pochissimo parente,
Ma sempre come a padre gli fui obbediente.

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Voi a donna Felicita, più che allo zio soggetto,

Della vostra condotta miratene l’effetto.
Rosina. (Sente, signora madre?) (piano a Brigida)
Brigida.   (Non dubitar, chi sa?
S’è erede di suo padre, qualche cosa averà).
(piano a Rosina)
Emilio. Il caso veramente è strano e inaspettato.
Si sa della mia sposa a che ascenda il legato? (al Conte)
Conte. Questo è quel che vi preme, più assai del mio destino.
(a don Emilio)
Riccardo. Amico, con licenza. (s’alza) Signori, a voi m’inchino.
Conte. Che? di già mi lasciate?
Riccardo.   Sono altrove aspettato.
Mi dispiace davvero vedervi in tale stato;
Non posso trattenermi; ho le faccende mie.
Ci rivedremo in piazza. (Non vo’ malinconie).
(da sè, indi parte)

SCENA X.

Il Conte Orazio, donna Felicita, Contessina Livia,
don Emilio, Rosina, Brigida e Bigolino.

Conte. (Ecco il primo scoperto). (da se)

Felicita.   (Lo lascia il compagnone).
Bigolino. (Bisognerà ch’io pensi a ritrovar padrone).
Emilio. Vediam se vi è rimedio. Ancor, caro cognato,
Non vedo apertamente il caso disperato.
Esaminar dobbiamo, se vale il testamento;
Si potria coll’erede trattar aggiustamento.
Non tengono talora gli occulti matrimoni,
Se siano difettosi di prove e testimoni.
Più di quel che pensate, il vostro ben mi preme.
Conte. Ecco, viene il notaro con due signore insieme.

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SCENA XI.

Pasquina, Sandrina, il Notaro e i suddetti.

Notaro. Servo del signor Conte. Presentargli degg’io

La moglie e la figliuola del fu suo signor zio.
Queste per testamento son legittime eredi;
Nozze, natali e stato provano questi fedi.
Che sian riconosciute comanda il magistrato,
E alla contessa Livia se gli darà il legato.
Livia. La sapete la somma?
Notaro.   Le assegna un capitale
Di diecimila scudi.
Livia.   (Che dite?) (piano a don Emilio)
Emilio.   (Non vi è male).
(piano a Livia)
Pasquina. Lo scrigno è roba nostra.
Sandrina.   Nostre sono l’entrate.
Pasquina. E nostra è questa casa.
Sandrina.   E a provvedervi andate.
Conte. Chi siete voi, signore?
Pasquina.   Io son della famiglia.
Sandrina. Io son, se nol sapete... (Son la madre, o la figlia?)
(piano al notaro)
Notaro. (La madre). (piano a Sandrina)
Sandrina.   Io son la moglie, io son la vostra zia,
E questa che vedete, signore, è figlia mia.
Don Pietro fu mio sposo, fu di Pasquina il padre.
(Dubito sia più vecchia la figlia della madre). (da sè)
Conte. Udite? (a don Emilio)
Emilio.   Fra parenti le liti han da lasciarsi:
La cosa onestamente potrebbe accomodarsi.
Può soddisfar ciascuno la ricca eredità.
Potreste col nipote divider per metà.
(a Pasquina e Sandrina)
Livia. Salvo però il legato.

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Emilio.   Eh, questo ci s’intende.

Notaro. Invan col testamento divider si pretende.
Tutto di queste donne è il capitale e il frutto.
Pasquina. Noi non ci dividiamo.
Sandrina.   E noi vogliamo tutto.
(Facciam bene la parte?) (piano al nolaro)
Notaro.   (Benissimo. Tacete).
(piano a Sandrina)
Conte. Prendetevi ogni cosa. Se l’eredi voi siete,
Vano sarà il litigio. Non son sì sfortunato,
Se ricca è mia germana, se ricco è mio cognato.
A voi mi raccomando. Se voi mi abbandonate,
Torno a cadere al fondo delle miserie andate.
Quel provvido governo che aveste nel pensiero
Degli interessi miei, sol per amor sincero,
Cambiate soccorrendomi in amorosa cura,
Per legge d’amicizia, per legge di natura.
(a Livia e a don Emilio)
Livia. Degg’io, quando sia sposa, dipendere da lui.
Emilio. Deve pensar ciascuno agl’interessi sui.
La dote ed il legato non fanno una ricchezza:
Pensar dobbiamo ai figli, pensare alla vecchiezza.
Voi siete un uom di spirito, sano, robusto e forte;
Fra l’armi vi consiglio cercar la vostra sorte.
Felicita. (Ingratissima gente!)
Conte.   Ecco nel mio destino
Mi abbandona ciascuno. Ah fedel Bigolino,
Tu che sincero e fido dicesti ognor d’amarmi.
Vieni il padron tu stesso a seguitar fra l’armi.
Bigolino. Io alla guerra, signore? Domandovi perdono:
Avvezzo, lo sapete, a faticar non sono.
Se andate a militare, io vi darò il buon viaggio;
Mi spiace non potere servirvi d’avvantaggio.
Ecco il sensal, che chiede le robe che ha portate.

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SCENA XII.

Raimondo e detti.

Raimondo. Le mercanzie, signore. (al Conte)

Conte.   Tutte son sequestrate.
Ecco il notar; chiedetegli se sia la verità.
Raimondo. Come? (al notaro)
Notaro.   Tutto finora spetta all’eredità.
E quel che pretendete, un dì vi sarà dato,
Quando lo proverete davanti al magistrato.
Raimondo. Testimon Bigolino.
Notaro.   Il servitor non prova.
Raimondo. Lo dirà il signor Conte.
Notaro.   Il testimon non giova.
Raimondo. Io sono responsabile. Pagar devo i mercanti.
Notaro. Questa è la ricompensa che mertano i birbanti.
Raimondo. Povero me!
Conte.   Soffrite, se aveste il reo disegno
D’ingannarmi d’accordo col servitore indegno.
Tutti mi teser lacci nel mio felice stato;
Io son, reso infelice, da tutti abbandonato.
La germana, il cognato, gli amici, i servitori.
Tutti si son scoperti mendaci insidiatori.
Da voi, donne gentili, posso sperar pietà?
(a Rosina e Brigida)
Brigida. Quel che avete dal padre, in che consisterà? (al Conte)
Conte. In pochissime entrate, che non arriveranno
A rendermi di frutto dugento scudi all’anno.
Rosina. Sono pochi davvero. (piano a Brigida)
Brigida.   Son pochi veramente.
(piano a Rosina)
La signora Contessa non vi darà niente? (al Conte)
Livia. Io dovrò in ogni cosa dipender dal marito.
Emilio. Vi consiglio, signora, cercare altro partito. (a Brigida)

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Conte. Tace donna Felicita, e di vedere aspetta

Dal perfido destino compir la sua vendetta.
Il danar non mi scordo però, che mi ha prestato:
Dell’obbligo conservo il foglio lacerato.
E di sudar fra l’armi accetterò il partito.
Finchè abbia il suo danaro a lei restituito.
Felicita. Tacqui finor, volendo mirar fino a qual segno
Giunger può degl’ingrati il trattamento indegno.
Della germana vostra, del suo diletto sposo
Vidi l’amor sincero, vidi il cuor generoso.
Dei servi, degli amici e di un’amante ignota
La fellonia ravviso, l’infedeltà mi è nota.
Pure in faccia di questi, avidi sol dell’oro,
Voi sconoscente, ingrato siete assai più di loro.
Vidi gl’insulti vostri finor con sofferenza,
Ora assai più mi offende la vostra diffidenza.
Credete l’amor mio sì vile e interessato.
Che amar non vi sapessi anche in misero stato?
Qual fui già vi scordaste? o si sospetta e crede
Ch’io il facessi soltanto voi prevedendo erede?
L’amor venga alle prove. Smentisca il cuor maligno
Degli empi innamorati dei beni e dello scrigno.
Conte, voi siete misero, senza speranza alcuna:
Io povera non sono di beni di fortuna.
E se la gratitudine può meritarmi amore,
Vi offro la man di sposa, e vi offerisco il core.
Conte. (Oh generoso affetto! oh cuor fido e sincero!
Oh fortunati inganni, che discopriste il vero!) (da sè)
Brigida. Anche la mia Rosina, signora, il prenderà,
E gli darà di dote quel poco che averà.
(a donna Felicita)
Felicita. Di una rivale indegna, che più di me si stima,
Il mascherato amore vo’ che si scopra in prima.
Galantuomo, venite, e libero parlate. (verso la scena)

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SCENA ULTIMA.

Onofrio e detti.

Onofrio. Servo di lor signori.

Brigida.   Onofrio, come state?
Venite qui, carino, vo’ dirvi una parola.
Onofrio. Signor, ve lo confesso, m’ha preso per la gola.
(al Conte)
Codesto matrimonio cosa non è per voi.
Son qui, voglio scoprire tutti i difetti suoi.
La vecchia fu bizzarra nella sua prima età;
Rosina di chi è figlia, ancora non si sa...
Brigida. Pezzo di disgraziato!
Onofrio.   Ella è venuta qui.
Sperando di potere...
Conte.   Orsù, basta così.
Del cauto mio disegno sono arrivato al punto,
Dal vero la menzogna a separar son giunto;
Ecco, signor notaro, andarvene potete.
(al notaro, dandogli una borsa)
Due zecchini per una voi, femmine, prendete.
(a Pasquino e Sandrina)
Notaro. Servo del signor Conte. A lei sono obbligato. (parie)
Sandrina. Questi son due zecchini. E i scudi del legato?
Conte. L’arte ha l’arte delusa. Andate immantinente.
Sandrina. Due zecchini son pochi; ma meglio che niente. (parte)
Livia. Che? non è dunque vero?...
Conte.   No, non è vero, ingrata;
Per iscoprirvi tutti, la favola ho inventata.
Voi porgete la destra a lei cui deste fede.
(a don Emilio)
So che ne siete indegno, ma l’onor mio lo chiede.
Emilio. Al mio dover son pronto.
Livia.   Pazienza. Ecco la mano.

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Conte. Scordatevi per sempre d’avermi per germano. (a Livia)

Esci di questa casa, perfido, scellerato,
E in dono ti concedo quel ch’hai finor rubato.
(a Bigolino)
Bigolino. Signore, è tanto poco...
Conte.   Non provocarmi, indegno:
Se di clemenza abusi, ti arriverà il mio sdegno.
(Bigolino parte)
Raimondo. Signor....
Conte.   Le robe vostre vi saran consegnate;
E a contrattar cogli uomini con onestà imparate.
(Raimondo parte)
E tu, mezzano indegno, esci di casa mia.
Onofrio. Subito, sì signore. Grazie a vossignoria. (parte)
Brigida. Ehi, signore illustrissimo, sono una poverina:
Non vi fa compassione la povera Rosina?
Conte. Sì, mi fa compassione; son cavaliere umano,
E voglio per suo bene levarvela di mano.
Anderà in un ritiro fra semplici persone,
Fino che il ciel le ispiri la sua risoluzione,
Io le darò la dote, che al stato suo conviene.
Voi non lo meritate, ma il bene è sempre bene.
Eccomi finalmente, grazie al ciel, liberato
Da quelli che mi avevano oppresso e circondato.
Misero me, se a tempo non apria gli occhi al vero.
Mi avriano strascinato al pessimo sentiero.
Ecco come s’insidia in cento modi e cento
Chi ricco è per fortuna dell’oro e dell’argento.
Così son le famiglie in precipizio andate.
Spettatori, apprendete, gradite e perdonate.

Fine della Commedia.

Note