Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

La Contessa Livia e don Emilio.

Emilio. Vostro fratello desina, e voi qui passeggiate?

Cosa vuol dir, che a tavola con esso non andate?
Livia. Vi par che mi convenga mangiare in compagnia
Con gente forastiera, che non si sa chi sia?
Evvi il signor Riccardo, due donne, madre e figlia,
Che mangiano di gusto, che beono a meraviglia.
Spiai dalla portiera: vidi che da una parte
Facea con mio germano la giovane le carte;
E la vecchia dall’altra, senza nessun riguardo,
Faceva la vezzosa col discolo Riccardo.
Ha così poco sale in capo il fratel mio,
Che a sì gentil banchetto volea ci fossi anch’io.

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Era qui colle incognite, ed ebbe l’ardimento

Di farmi dir che ad esse facessi un complimento.
Ma io che me ne accorsi, fingendo l’ammalata.
Volli nella mia camera star sola e ritirata.
Voi attendeva appunto con somma impazienza.
Mi par che del germano sia questa un’insolenza;
E che sugli occhi miei fino nel proprio tetto
Condur tali pasticci, sia un perdermi il rispetto.
Emilio. Or, più che pontigliosa, bramo che siate esperta.
È ben che si trastulli, che goda e si diverta.
Secondarlo conviene in ogni suo diletto.
Finchè il disegno nostro conducasi ad effetto.
Stiam navigando, e insegna il marinaro accorto,
Che bordeggiar conviene, finchè si giunga in porto.
Livia. Sperate di vederlo al termine ridotto?
Emilio. Lo spero; e l’avvocato per questo ho qui condotto.
Ei nella sala aspetta; sa tutto il mio progetto,
E dalle sue parole assai mi comprometto.
Dopo che il Conte è erede, più di dieci avvocati
Stan colla bocca aperta attenti e preparati.
Aspettando l’incontro di qualche litigante.
Per avere la decima anch’essi del contante.
Il mio mi ha insinuato quello che far dovremo,
Dicendo: in ogni caso alfin litigheremo.
Livia. Se ha tanta gente intorno, da cui prende consiglio,
Vedo le mire nostre in prossimo periglio.
Emilio. Con qualcheduno al mondo deve passar la vita.
Noi non possiam costringerlo a viver da eremita.
Basta che si procuri tenerlo allontanato
Da chi con prevenzione può discoprir l’aguato.
Temo donna Felicita più che altri in questo mondo,
Ella è una donna accorta, che sa pescare a fondo,
Che al Conte più d’ogn’altro aprir può l’intelletto.
Livia. Appunto alle mie mani giunse testè un viglietto,
Con cui donna Felicita rimprovera il germano,

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Per avergli spedita un’imbasciata invano.

Lo prega istantemente esser da lei per poco,
E se da lei non vuole, che le destini un loco.
Era a tavola il Conte; la lettera pigliai,
Finsi a lui di recarla, la lessi e lacerai.
Ho fatto ben?
Emilio.   Benissimo. Teniamolo distante
Da questa troppo scaltra pericolosa amante.
Anzi sarebbe bene ch’egli s’innamorasse
Di una civile e povera, e ch’ei se la sposasse.
Livia. Quella che ha seco a pranzo, par docile ed umile.
Povera sarà certo; non so se sia civile.
Emilio. Ecco il Conte che viene.
Livia.   Le donne ove ha lasciate?
Emilio. Da lui tutto sapremo. Fingete e simulate.

SCENA II.

Il Conte Orazio e detti.

Conte. Come state, germana? Da voi erami inviato,

Della vostra salute per rilevar lo stato.
Livia. Sto meglio.
Conte.   Mi rallegro. Vi avrà giovato molto,
Al mal che vi affliggeva, di don Emilio il volto.
Orsù, vi parlo schietto: ciò non cammina bene;
Le nozze questa sera concludere conviene.
Livia. Per me non mi ritiro.
Emilio.   Basta che lo vogliate.
E voi, signor cognato, quando vi maritate?
Conte. Converrà ch’io lo faccia.
Emilio.   Quivi testè arrivato,
Credea quasi che foste promesso e maritato.
Vidi così dall’uscio un pezzo di ragazza,
Che a dir la verità, mi par di buona razza.

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Livia. Il Conte mio fratello è un uomo di buon gusto.

Conte. Dubito che provato ne abbiate del disgusto. (a Livia)
Livia. Perchè? se son persone di carattere onesto...
Conte. Oneste e civilissime; vel dico e vel protesto.
Son povere, per altro non vi è nulla che dire.
Emilio. Chi è povero nel mondo, devesi compatire.
Se la figliuola è onesta, per me son persuaso
Ch’ella, Conte amatissimo, sarebbe il vostro caso.
Conte. Voi che dite, sorella?
Livia.   Dico che il ciel vi ha dato
Tanto ben, che vi basta per vivere in buon stato.
Non avete bisogno di moglie danarosa;
Basta che sia civile, onesta ed amorosa.
Conte. Dunque mi lodereste sposar questa signora.
Livia. Fate ch’io la conosca; non l’ho veduta ancora.
Emilio. Andiamo a riverirla.
Conte.   In camera serrata
Colla sua genitrice per ora è ritirata.
Livia. Attenderò impaziente ch’escano dalla stanza;
Procurerò con esse supplire alla mancanza;
A lor chiederò scusa d’essermi ritirata,
E tratterò la giovane da amica e da cognata. (parte)
Emilio. Ed io con chi volesse parlar diversamente,
Dirò che vi portaste da savio e da prudente.
in altro un si riporta, farlo in questo non lice;
Dee soddisfarsi il genio per vivere felice.
Alfin chi vi consiglia è amico ed è cognato....
Appunto nella sala vi aspetta l’avvocato.
Di quel che fra noi passa, non dissi a lui niente;
Se voi l’informerete, la cosa è più innocente.
E un uom che per il giusto sol vi consiglierà;
Fatel venire innanzi, vi lascio in libertà. (parte)

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SCENA III.

Il Conte Orazio, poi Bigolino.

Conte. Che sia poi don Emilio sì onesto e delicato,

Che nulla al suo legale non abbia confidato?
Per verità sarebbe delicatezza estrema:
Questo soverchio zelo fa che di lui più tema.
E il consigliar sì franco, ch’io sposi una mendica?
E Livia secondarlo, che prima era nemica?
Crediam che tai parole sian d’amicizia effetto,
Oppur siavi nascosto qualche sinistro oggetto?
Mi piace la fanciulla, ma ho dato altrui la fede.
Mi sta donna Felicita nel cuor, più che non crede.
Si lagnerà che ancora da lei non mi ha veduto.
Vadasi, e a lei si renda il solito tributo.
Ma se è ver ch’ella pure congiuri ad ingannarmi,
Con una che m’insidia, dovrò sagrificarmi?
Oh son pure confuso, son pure in dubbio stato!
Sentiam cosa sa dirmi quel celebre avvocato.
Chi è di là? Vi è nessuno?
Bigolino.   Son qui, signor padrone.
Conte. Quel signor venga innanzi.
Bigolino.   Che vuol quel chiaccherone?
Conte. Lo conosci?
Bigolino.   Il conosco. È un di quegli avvocati.
Dai quali non ricorrono che i furbi e i disperati.
Un che trovar cavilli nel suo mestier s’ingegna.
Che senza fondamento di vincere s’impegna:
Un forastier sortito non so da qual nazione,
Indegno di trattare sì nobil professione.
Conte. Come lo sai tu questo?
Bigolino.   Lo so con fondamento:
Intesi, quel ch’io dico, a dir da più di cento.
Se vuole un avvocato, lo dica a me, signore;
Io li conosco tutti, gli troverò il migliore.

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Qua lo farò venire, farò che parli seco.

(Voglio trovarne uno, che se l’intenda meco).
(da sè, accennando colle dita che vuol danari)
Conte. Posso sentir quest’altro, senza operar niente.
Bigolino. Perdoni. Ha qualche lite?
Conte.   Non ho lite al presente.
Teco vo’ confidarmi; so che ami il tuo padrone;
Voglio su certo affare sentir la tua opinione.
Bigolino. Sono un povero giovine, ma son di cuor sincero.
Conte. (Esce dagl’ignoranti talora un buon pensiero). (da sè)
M’insinua don Emilio, che del mio meglio ha cura,
Che a lui de’ beni miei rilasci una procura.
Ti par che dica bene?
Bigolino.   Rispondo in due parole:
Il signor don Emilio assassinar vi vuole.
Conte. Perchè?
Bigolino.   Nel stato vostro, se fosse anche maggiore,
Bisogno non avete d’alcun procuratore.
Chi il maneggio del vostro vi vuol levar di mano,
O cerca trappolarvi, o credevi un insano.
Voi siete un uom di garbo, e siete assassinato.
Con vostra permissione, licenzio l’avvocato. (parte)

SCENA IV.

Il Conte Orazio, poi Raimondo, poi varie persone cariche di varie merci.

Conte. E ben che si licenzi, se è un uom poco sincero;

Ma chi sa poi se dicasi da Bigolino il vero?
Chi sa ch’ei non mi voglia trarre dai lacci altrui,
Per condurmi egli stesso nei trabocchetti sui?
Tutti son miei nemici: uno quell’altro accusa;
Ho ha sospettar di tutti, ho la ragion confusa.
Che vivere infelice in mezzo a’ miei tesori!
Trame, sospetti, inganni producono quegli ori.

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Potea povero e umile menar la vita a stento,

Ma senza insidiatori almen vivea contento.
Allor son più dolente, ch’esser credea giocondo.
Ah! non si dà compita felicitade al mondo.
Raimondo. M’inchino al signor Conte con umile rispetto.
Conte. (Ecco il sensale accorto, di cui pure ho sospetto).
(da sè)
Non ho tempo per ora; son altrove aspettato.
Raimondo. Due paroline sole, e presto è sollevato.
Conte. Un po’ troppo sollecita mi par la cura vostra.
Raimondo. Di quel che le bisogna, le ho recato una mostra.
Conte. O aspettate, o tornate.
Raimondo.   La spiccio immantinente.
Conte. Dove avete la roba? (con impazienza)
Raimondo.   Venite, buona gente.
(verso la scena; entrano varie persone con varie merci)
Conte. Che von tutti costoro?
Raimondo.   Son tutti principali.
Che han portata la mostra dei loro capitali.
Ho piacer che contratti, che veda, che capisca...
Conte. Ora non sono in caso....
Raimondo.   La prego, favorisca.
(lo tira in disparte)
Non perda l’occasione, ch’è una fortuna vera.
Son tutti mercadanti tornati dalla fiera.
Bisogno han di monete, e per necessità
Daran le loro merci per men della metà.
Conte. Che tornino più al tardi.
Raimondo.   Bene, facciam così:
La roba che han portata, facciam che resti qui;
Poscia ritorneranno.
Conte.   In casa mia non voglio,
In dubbio di comprare, aver codesto imbroglio.

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SCENA V.

Bigolino e detti.

Bigolino. Con licenza.

Conte.   Che vuoi?
Bigolino.   Senta, signor padrone.
(lo tira in disparte)
Non si lasci fuggire questa ottima occasione.
Vedute ho queste robe, qualche discorso ho fatto,
E sento che le danno ad un prezzo disfatto.
Conte. Tempo non ho, nè voglia, da contrattar per ora.
Bigolino. Sol che le dia una occhiata, che sì che s’innamora?
Che stoffe! che ricami! che bei lavori inglesi!
Affè, che i suoi danari sarebbero ben spesi.
Se regalar volesse l’amica ch’è di là.
Con pochissima spesa far onor si potrà.
Conte. Scatole ve ne sono? (a Raimondo)
Raimondo.   Scatole prelibate.
Quelle scatole d’oro al cavalier mostrate.
Lasciate un po’ vedere quella repetizione;
Mostrategli l’astuccio; e voi la guarnizione.
Osservi quel ventaglio sì ben dipinto in pelle.
Veda che bei ricami!
Bigolino.   Padron, che cose belle!
Conte. S’ha da sentire il prezzo.
Raimondo.   Del prezzo or non si parla.
Non intendiam per ora, signor, d’incomodarla.
Metta nel suo burò tutte le cose in fascio.
Le stoffe, i guarnimenti a Bigolino io lascio.
Tomerem questa sera, doman, quando vorrà.
Conte. Tante cose non voglio.
Bigolino.   Diman si scieglierà.
Andiam, venite meco. Volete ancor finirla?
Raimondo. Servo di vossustrissima. Tornerò a riverirla, (partono)

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SCENA VI.

Il Conte Orazio, poi un Servitore.

Conte. Bellissima è la cosa. Deggio comprare a forza,

E fino il servitore mi obbliga e mi sforza.
Dice che quei lavori son belli e a buon mercato.
E se coi venditori fosse anch’ei collegato?
Finor, per dire il vero, meco non fu briccone,
Ma d’esserlo finora non ebbe l’occasione.
Chi sa che nel vedermi più ricco e fortunato,
Non tenti alle mie spalle di migliorar suo stato?
Ovunque mi rivolga, mi trovo in un periglio:
Lo vedo, lo conosco, bisogno ho di consiglio.
Ma di chi ho da fidarmi? Ora un pensier mi viene,
Per scoprir chi m’inganna e quel che mi vuol bene.
Sì, lo porrò ad effetto; ma vi vuol tempo e loco;
E pria di porlo in pratica, vo’ maturarlo un poco.
Or da donna Felicita il mio dover mi chiama.
Con lei farò il segreto, per rivelar se mi ama.
Ma innanzi di partire, vuol la convenienza
Ch’io passi da Rosina a prendere partenza.
Sono ancor ritirate, ch’escano aspetterò.
Le condurrò da Livia, poi mi licenzierò.
Par che Rosina mi ami, per lei ho dell’affetto,
Ma far sopra di tutti esperienza aspetto.
Servitore. Signore, è domandato.
Conte.   Da chi?
Servitore.   Da una gonnella.
Conte. Da una donna? che vuole?
Servitore.   Non lo so dire.
Conte.   È bella?
Servitore. Così e così.
Conte.   Frattanto che ad aspettare io sto
Le ospiti ritirate, venga, l’ascolterò.

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Servitore. (Non ho veduto mai tanta gente in un giorno.

Son tanti sparavieri ad un pollastro intorno).
(da sè, indi parte)

SCENA VII.

Il Conte Orazio, poi Sandrina.

Sandrina. Serva sua; a rallegrarmi sono venuta anch’io.

Conte. Di che vi rallegrate?
Sandrina.   Ch’è morto il signor zio.
Conte. Grazioso complimento! Quando muore un parente,
Venire a condolersi mi par più conveniente.
Sandrina. Se il morto lascia debiti, si sta in malinconia;
Ma quando vi è lo scrigno, la morte è un’allegria.
Per uno o per due giorni si mostra un po’ di duolo,
Ma è un mal che passa presto; però me ne consolo.
Conte. Voi siete, a quel ch’io vedo, donna di cuor sincero.
Sandrina. Sì certo, a dir son usa in ogn’incontro il vero.
Sandrina è il nome mio. Son povera fanciulla,
Cerco di maritarmi. Di dote non vi è nulla.
Ai miei benefattori raccomandarmi io soglio,
E tutti i nomi loro registrano in un foglio.
Eccolo qui, signore. Ecco i nomi segnati:
Il marchese del Bovolo per sedici ducati,
Il conte Parasole per dodici zecchini.
Per venti il conte Cavolo fra roba e fra quattrini,
La duchessa del Torchio trenta scudi romani.
Quattordici filippi il conte Mangiacani,
Il principe dell’Oca un letto ben fornito,
Il capitan Tempesta un abito guarnito.
Conte. Siete da me venuta, perch’io mi sottoscriva?
Sandrina. La somma al mio bisogno ancora non arriva;
E so che vossustrissima può rendermi contenta.
Conte. Segnate il conte Orazio.

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Sandrina.   Per quanto?

Conte.   Soldi trenta.
Sandrina. Trenta soldi a una giovane della mia qualità?
Conte. Vuol prescriver la somma chi cerca carità?
Sandrina. So pur ch’è generoso; so che in questa mattina
Donò liberamente trenta scudi a Pasquina.
Conte. Voi come ciò sapete?
Sandrina.   Ella colla sua mano
Teste me li ha mostrati.
Conte.   Or capisco l’arcano.
Fra voi ve la intendete; questa è l’usanza scaltra.
Quando si fa del bene, una lo dice all’altra.
Poi sfilando bel bello con attestati e lotti,
Andate per le case a caccia di merlotti.
Non è vero, signora?
Sandrina.   Io vengo onestamente;
Domando il mio bisogno, e non rubo niente.
Quei che son sottoscritti, non son tanti babbioni.
Conte. Esser anche potrebbero false sottoscrizioni.
Sandrina. Signor, mi maraviglio; voi non mi conoscete.
Conte. Vi darò trenta scudi, quando vi sposerete.
Sandrina. Gli altri, per dire il vero, non dissero così.
Subito li han pagati. La ricevuta è qui.
Una fanciulla onesta andar non può ogni giorno
A cercar la elemosina ai cavalieri intorno.
Non pratico nessuno; mi preme l’onestà.
(sdegnata e sostenuta)
Conte. Dove state di casa?
Sandrina.   Poco lontan di qua. (in confidenza)
Dietro dello speciale, vicino a quel magnano,
Su della terza scala, nel penultimo piano.
Conte. Posso dunque portarvi i trenta scudi io stesso.
Sandrina. Padron; ma non potrebbe darmene dieci adesso?
Conte. Se han da servir per dote, è ben li abbiate insieme.
Sandrina. Ho da far una spesa, che subito mi preme....

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Una spesa, s’intende, per il mio sposalizio....

Conte. (Per conoscerla meglio vo’ usare un artifizio). (da sk)
Orsù, mi par che siate giovane di prudenza...
Sandrina. S’informi di Sandrina.
Conte.   Vi fo una confidenza.
I scudi a voi promessi, quei che a Pasquina ho dato,
Da me sono dovuti in forza di un legato.
È ver che il zio è mancato senza far testamento,
Ma scritto di sua mano lasciò il suo sentimento.
Ed io per gratitudine e per un zelo onesto.
Le sue disposizioni vo’ soddisfare in questo.
Nei libri di memorie trovai codesto articolo...
Ma noi dite a nessuno.
Sandrina.   Oibò, non vi è pericolo.
Conte. Nel scrigno in una borsa vi son scudi dugento
Per dare a due fanciulle nel loro accasamento.
Ma che sian savie e oneste.
Sandrina.   Oh, in materia di questo,
S’informi. La Sandrina? lo giuro e lo protesto,
Che nessun possa dire pericolo non c’è.
Non si vede nessuno a capitar da me.
S’ella venir volesse, sì sì, si provi pure.
Ritroverà tre porte, con quattro serrature.
Potrei delle due giovani esser io la primiera?
Conte. E perchè no? sentite: tornate innanzi sera.
Ora non posso farlo. Preparerò il danaro.
Quando che lo consegno, vo’ che ci sia il notaro.
Avrete i cento scudi, ma non lo sappia alcuno.
Sandrina. Oh signor, cosa dice? non parlo con nessuno.
Vuol che si scriva in libro?
Conte.   Non voglio ostentazione.
Facciam segretamente.
Sandrina.   Bravissimo; ha ragione.
Tornerò innanzi sera. Per ora io la ringrazio.
Son serva divotissima del signor conte Orazio.

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Eh! non pensasse mai.... mi sposo domattina.

E non creda ch’io parli. (Voglio avvisar Pasquina).
(da sè, e parte)

SCENA VIII.

Il Conte Orazio, poi la Contessina Livia.

Conte. Se discoprire un poco...

Livia.   Le ospiti sono uscite?
Deggio andar a inchinarle? Farò quel che mi dite.
Conte. Lasciate ch’io le vegga, ch’io le prevenga in prima,
Che per lor professate venerazione e stima.
Fingendo per pretesto aver poca salute,
Temeano con ragione di essere mal vedute.
Or or verranno qui. Trattenetele un poco.
Fin che un affar m’impegna, restate in questo loco.
Non tarderò gran tempo ad esser di ritorno.
(Veggiam donna Felicita, pria che tramonti il giorno).
(da sè, indi parte)

SCENA IX.

La Contessina Livia, poi Brigida e Rosina,
poi il Servitore.

Livia. Del mio futuro sposo faccio il consiglio in questo.

Vedrò se sian le donne di carattere onesto.
È ver che l’interesse in parte mi consiglia.
Ma non saprei permettere un torto alla famiglia.
Brigida. Su via, venite innanzi, cara la mia Rosina,
Fate una riverenza alla bella damina.
Ditele: serva sua. (inchinandosi)
Rosina.   Serva. (fa un inchino)
Brigida.   Serva divota. (inchinandosi)
Livia. La loro gentilezza, la lor bontà mi è nota,
Perciò desideravo....

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Brigida.   Finora siamo state.

Per dirla in confidenza, un poco ritirate.
Perchè (siam tutte donne) io ho un picciolo difetto;
Subito che ho mangiato, mi corico nel letto.
Sia di notte o di giorno, mi piace dormir sola;
E dopo che son vedova, dormo colla figliuola.
Livia. Come farete allora che si farà la sposa?
Brigida. Se prenderà marito, farò anch’io qualche cosa.
Voi l’avete lo sposo?
Livia.   Io sono ancor fanciulla.
Brigida. Fanciulla? Oh perdonate. Non vi dico più nulla.
Livia. Però fra poche ore sarò consorte, io spero.
Brigida. Anche la mia Rosina vuol maritarsi. È vero?
(a Rosina)
Rosina. Certo, signora sì.
Livia.   Sollecitar conviene.
Rosina. Il signor conte Orazio dice che mi vuol bene.
Brigida. Oh povera ragazza! non è si fortunata.
Avrebbe un buon marito e una bella cognata.
E voi la trovereste tanto tanto bonina,
Quieta, savia, obbediente. Non è vero, Rosina?
Rosina. Signora sì, ch’è vero.
Brigida.   Io, io me l’ho allevata.
E innocente, meschina, tal e qual com’è nata.
Le altre! al giorno d’oggi! povera gioventù!
Livia. Quanti anni avrà?
Brigida.   Quattordici.
Rosina.   Oh, diciassette e più.
Brigida. Taci là, non è vero. Quattordici; t’inganni.
Livia. (Già ogni madre alla figlia nasconde tre o quattr’anni).
(da sè)
Brigida. Certo, se la Rosina avesse tal fortuna,
Per me non averei difficoltade alcuna.
Benchè sia innocentina, e il Conte un po’ avanzato.
Bisogna contentarsi, se il ciel l’ha destinato.

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Livia. Che dice la fanciulla?

Rosina.   Dirò, se dir mi lice,
Ch’io non son tanto semplice, quanto mia madre dice;
Che so la parte mia, quanto si può sapere.
Brigida. Chetati, quando io parlo.
Rosina.   Ma se...
Brigida.   Non vuoi tacere?
Sono ancor le bambocce i passatempi sui.
Rosina. Quando averò marito, mi spasserò con lui....
Livia. Sentite? (a Brigida)
Brigida.   Che innocenza! Oh bocca benedetta!
Beata quella casa che avrà tal giovinetta!
Livia. Mio fratello, per dirla, è ricco, e non è avaro;
Non ha, se si marita, bisogno di danaro.
So che brama una moglie nata con civiltà.
Brigida. In quanto a questo poi, circa la nobiltà,
Può star la mia Rosina al par di chi si sia;
Abbiam per parentado tutta cavalleria.
Si sa che mio marito, Anselmo Rigadon,
Era un uom benestante, e gli davano il don.
Era di condizione fra il nobile e il togato.
Più in su del cittadino, più in giù del titolato;
Ma volea titolarsi, e s’ei viveva un mese,
So che comprar voleva il titol di marchese.
Ma è morto il poverino, e il marchesato è ito.
Rosina. Certo, mio signor padre so ch’è morto fallito.
Brigida. Quanto faresti meglio a chiuder quella bocca.
Non le credete nulla; parla come una sciocca.
(A casa, disgraziata). (piano a Rosina)
Rosina.   (Vo’ dir quel che mi pare).
(piano a Brigida)
Brigida. (Sfacciata). (piano a Rosina)
Rosina.   (Dirò tutto, se mi state a gridare).
(piano a Brigida)
Brigida. (Povera me! sta zitta). (piano a Rosina)

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Livia.   (Par vi sia dell’imbroglio.

Aprir gli occhi ben bene, e assicurarmi io voglio).
(da sè)
Servitore. È qua donna Felicita. (a Livia)
Livia.   Che vuol da’ fatti miei?
Servitore. Non vi essendo il padrone, brama parlar con lei.
Livia. Egli è uscito ch’è poco; per via non l’ha incontrato?
Servitore. Per la porta di strada so che il padrone è andato.
Ella per il giardino entrò segretamente,
Io credo per non essere veduta dalla gente.
Non si sono incontrati.
Livia.   Basta, non so che dire.
Inciviltà non uso. Venga, se vuol venire.
((il servitore parte)
Ora abbiamo una visita, che un poco m’imbarazza.
Ma non ne facciam caso; venite qui, ragazza.
Vogliovi a me vicina; per voi ho dell’affetto.
(Se vien donna Felicita, vo’ farlo per dispetto). (da sè)
Brigida. Vedi se ti vuol bene? se sarai fortunata?
Via, dalle un bel bacino alla cara cognata.

SCENA X.

Donna Felicita e le suddette.

Livia. Sì, di cuore vi abbraccio; vi do d’amore un pegno,

In prova d’amicizia, di parentela in segno. (a Rosina)
Felicita. Compatite, Contessa....
Livia.   Provo un piacere estremo
D’avervi conosciuta. Spero che ci godremo. (a Rosina)
Brigida. (Brava la mia ragazza). (da sè, giubilando)
Felicita.   Signora Contessina.
(in via di rimprovero)
Livia. Compatite, di grazia; son con questa damina.
Felicita. Son venuta per dirvi una parola sola.
È una dama codesta?

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Livia.   Sì certo.

Brigida.   È mia figliuola.
Felicita. (Saprò or or se sia vero). (da sè)
Livia.   È un acquisto novello
Che fa la nostra casa.
Brigida.   Sposerà suo fratello.
Felicita. Brava, di tal novella ne provo anch’io contento.
Brigida. Via, presto, ringraziatela. Fatele un complimento.
(a Rosina)
Rosina. Grazie. (a donna Felicita)
Brigida.   È ancor giovinetta. (a donna Felicita)
Livia.   Non ha parole pronte.
(a donna Felicita)
Rosina. Io vorrei che tornasse a casa il signor Conte.
Felicita. Povera signorina! Si vede ch’è innocente.
Desidera lo sposo, per altro non sa niente.
Brigida. È maritata ella?
Felicita.   Signora no.
Brigida.   La mia
Brama quel che vorrebbe aver vossignoria.
Livia. Certo la nostra casa può dirsi fortunata,
Acquistando una sposa sì docile e garbata.
È nobile e gentile. Ha un tratto che consola.
Bella, fresca, ben fatta. Ha tutto.
Brigida.   È mia figliuola.
Felicita. Finor vostro fratello fu veramente cieco,
A perdere il suo tempo miseramente meco.
Mi consolo davvero, che alfin contenta siate.
Il Conte è di buon gusto, e voi non v’ingannate.
Livia. Io sprezzar non intendo nè voi, nè chi che sia,
Lodando in questa giovine bellezza e leggiadria.
Sceglier poteva il Conte a gusto suo la sposa,
Godo che l’abbia scelta gentile e manierosa.
Felicita. Certo che se la fede avesse a me serbata,
Toccavagli una sposa e ruvida e sgarbata.

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Ha fatto il conte Orazio una elezion migliore,

Ma non può dirsi il tratto da cavalier d’onore.
Livia. Nelle mie stanze andate, vi prego, ad aspettarmi.
So che questa signora premura ha di parlarmi.
Tosto sarò con voi. (a Brigida e Rosina)
Brigida.   Andiam, figliuola mia.
Serva di vossustrissima. (a Livia) Bondì a vossignoria.
(a donna Felicita)
Rosina. Se viene il signor Conte, ditegli che si aspetta. (a Livia)
Felicita. Povera innocentina!
Brigida.   Oh invidia maledetta!
(parte con Rosina, conducendola per il braccio)

SCENA XI.

Donna Felicita e la Contessina Livia.

Livia. Eh ben, che mi comanda?

Felicita.   Due volte ho supplicato
Mi favorisse il Conte, nè ancor si è incomodato.
Cosa aveva da dirgli utile ai casi sui;
Da me non è venuto, venuta io son da lui.
E ritrovando uscito di casa il cavaliere,
Parlar colla germana creduto ho mio dovere.
Se a lei reco un incomodo, la prego condonarmi.
Livia. Padrona; dica pure cos’ha da comandarmi.
Felicita. Per il tempo passato, signora, ella saprà
Ch’ebbe il di lei fratello per me della bontà.
Che si degnò di farmi diverse confidenze
In tempo delle sue domestiche indigenze.
A lei lo posso dire, fra noi segretamente,
Giurandole che alcuno nol sa, nè saprà niente.
Per lui, per la germana, nei giorni suoi meschini.
Ebbi l’onor di dargli quattrocento zecchini.
In prestito li chiese il cavalier bennato.
Ecco la ricevuta coll’obbligo firmato.

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Livia. Bastava per averli chiedere li facesse;

Saran restituiti, e ancor coll’interesse.
Felicita. Ecco il frutto ch’io cerco del mio danar prestato.
Bastami dir che il Conte è un cavaliere ingrato.
E tanto son discreta, condiscendente e umana,
Che bastami di dirlo in faccia alla germana.
Non faccio altre parole; son quieta, e son pagata.
Ecco sugli occhi vostri la carta lacerata.
(lacera il foglio e lo getta in terra)
Livia. Risparmiar si poteva venir nel nostro tetto
Ad isfogar, signora, la rabbia ed il dispetto.
A lei non si conviene di usarmi un’insolenza.
Di là sono aspettata. Con sua buona licenza. (parte)

SCENA Xll.

Donna Felicita, poi Onofrio.

Felicita. In lei rimorso interno coll’ambizion contrasta.

Ho fatto una vendetta, ma ancora non mi basta.
Onofrio. (verso la scena)
Onofrio.   Mia signora.
Felicita.   E ben, riconosciute
Avete le due donne?
Onofrio.   Sì certo, le ho vedute;
Son quelle per appunto, che a lei ho confidato.
Dalle quali il merlotto vuol esser trappolato.
Io, per parlar sincero, non fo che il mio mestiere:
Non ho che un matrimonio proposto al cavaliere;
E se di accreditarle tentai quel che non sono,
Parlai come sensale, e merito perdono.
Felicita. Entrare accompagnato col Conte io vi osservai.
Perciò chiamar vi feci, perciò v’interrogai.
E seguitando meco l’impegno disegnato,
Di dodici zecchini il don vi ho preparato.

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Onofrio. Eccomi qui disposto, e sia pur persuasa,

Che il farò volentieri.
Felicita.   Il Conte non è in casa:
Andiam per il giardino ad aspettar ch’ei torni.
Non vo’ senza una scena lasciar questi contorni.
(L’amo ancor quest’ingrato, e l’amo a cotal segno,
Che oso la vita istessa di mettere in impegno.
Se rende all’amor mio tal ricompensa strana,
Vo’ almen mortificata veder la sua germana.
Voglio scoprir coloro ch’ella d’amare affetta;
Se ho da soffrir gl’insulti, vo’ fare una vendetta).
(da sè, e parte)
Onofrio. Oh Brigida! vecchiaccia! vo’ me la paghi affè.
Venir qui a desinare senza dir nulla a me?
Se la figliuola è in grazia, tutto è merito mio;
E quando che si mangia, ho da mangiare anch’io.
Dodici bei zecchini, se parlo, mi darà?
Io sono un galantuomo, dirò la verità. (parte)

Fine dell’Atto Quarto.


Note