Il re della montagna/4. Fathima
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Cap. IV.
Fathima.
Qualunque altro uomo, cadendo dalla cima di quell’alta muraglia, si sarebbe spezzato il cranio o per lo meno rotte le gambe, ma così non accadde all’agile montanaro, abituato sin dall’infanzia a quei salti pericolosi. Rimessosi in gambe, erasi prontamente raddrizzato, guardando con viva curiosità e un po’ con ansietà il luogo ove trovavasi.
Era un grandioso e superbo giardino, cinto da solidi muraglioni e così alti da sfidare, senza una scala, il più svelto uomo della Persia. Giganteschi platani dal cupo fogliame, bellissimi faggi, melagrani, cotogni, ciliegi e nespoli, disposti in bell’ordine, proiettavano una fresca ombra sui viali lisci e puliti, e fiori bianchi, rossi, azzurrognoli e gialli, profumavano delicatamente l’aria. Qua e là attraverso il verde delle foglie, apparivano graziosissimi padiglioni e piccoli chioschi, zampilli d’acqua che slanciavansi a grande altezza, spandendo intorno miriadi di goccioline, e più oltre limpidissimi stagni, entro i quali nuotavano candidi uccelli acquatici e dissetavansi branchi di leggiadre gazzelle col capo armato di sottili corna leggermente arcuate.
Nessuna voce umana udivasi nè sotto gli alberi, nè in riva agli stagni, ma quando non sussurrava il vento, da lontano venivano certe note delicate, dolci, che parevano emesse da una mandola.
— Dove sono io? — si chiese Nadir, dopo essere rimasto per qualche tempo in ascolto. — Chi abita questo luogo? Corro un nuovo pericolo?
Fece alcuni passi sotto un viale, con l’occhio in guardia e una mano sull’impugnatura del suo fido kandjar, poi s’arrestò curvandosi verso le muraglie del giardino. Involontariamente rabbrividì.
— E’ qui dentro — aveva gridato una voce. — L’ho visto io arrampicarsi sul muro; guarda là le tracce della scalata.
— Chi lo inseguiva? — chiese una voce chioccia, che pareva quella di un servo.
— Il cavaliere del re che abbiamo veduto cadere.
— E’ un ribelle, adunque?
— Se aveva dei soldati alle spalle, non può essere un galantuomo.
— Raccogli quanti uomini puoi ed entriamo nel giardino. Se il nostro padrone sa che un ribelle si è qui rifugiato, ci farà frustare a sangue.
— Corro subito.
— Una parola ancora. Fa’ ritirare tutte le donne nell’harem, onde non si spaventino.
— Lo farò e tu rimani lì, e se il briccone tenta di scappare, sparagli addosso. Lo sciàh ci pagherà a peso d’oro la testa.
— Non temere, armo le mie pistole.
— Sono perduto — mormorò Nadir quando non udì più nulla. — Mirza mi ha detto che degli uomini mi odiano e che mi ucciderebbero se avessi la sfortuna di cadere nelle loro mani. Dove nascondermi?
Guardò le mura, ma, come si disse, erano alte e lisce, impossibili a scalarsi. Guardò gli alberi, ma non ve n’era uno che fosse così folto, da poterlo nascondere agli occhi di coloro che si preparavano a visitare il giardino. Un’idea fortunatamente gli balenò nel cervello.
— Mi ricordo che Mirza mi disse che gli harem servono di casa alle mogli dei gran signori — mormorò. — Se chiedessi protezione ad una di esse? Una donna non può essere cattiva.
Rimise il kandjar nella cintura e s’inoltrò sotto un viale, fiancheggiato da grossissimi platani che proiettavano una fitta oscurità, e che pareva dovesse menare ad un luogo abitato. Il venticello aveva allora cessato di sussurrare tra le frondi; solo udivasi il dolce mormorìo delle fontane ed i lontani tremolii delle mandole.
Aveva percorso un cinquecento passi, quando qualche cosa di bianco e di vasto colpì i suoi sguardi. Non sapendo cosa fosse, si fermò, indeciso fra il tornare indietro e l’andare innanzi.
— Se retrocedo, mi prenderanno — disse dopo alcuni istanti. — Tanto vale tirare innanzi.
Fece altri venti passi e tornò ad arrestarsi, gettando un grido di stupore.
Dinanzi a lui, fra quattro altissimi alberi, rizzavasi un magnifico palazzo di marmo bianco, abbellito da colonne e da arabeschi e sormontato da una cupola che scintillava come se fosse d’oro, sotto gli ultimi raggi del sol morente.
Belle erano le loggie chiuse da leggerissime cortine di seta color di rosa e sostenute da eleganti colonnine di marmo screziato; leggere e finamente scolpite le arcate dei chioschi che giravano attorno, riparate da vetri azzurri; graziosissime le finestre, molte delle quali seminascoste da ingraticolate dorate; meraviglioso il padiglione che, in certo qual modo, difendeva la porta d’entrata, tutto in marmo e porcellana, con una cupoletta sulla cima, e con due ampie fontane d’alabastro ai lati, entro le quali guizzavano pesciolini di mille colori.
Nadir, che non aveva visto che le cadenti torri della sua montagna, dinanzi a quel palazzo — vero capolavoro dell’architettura persiana, erasi arrestato col più vivo stupore dipinto sul volto.
— Dove sono io? — si chiese per due volte. — Chi abita questo luogo? È il giorno delle sorprese questo? Ah! Se Mirza lo vedesse!
Ad un tratto si rammentò del colloquio udito dietro le mura del giardino.
— Guardo e non penso che degli uomini si preparano ad uccidermi — mormorò. — Forse là vi è la salvezza.
Tese l’orecchio. Nel palazzo s’udivano di quando in quando degli scrosci di risa argentine e s’udivano ancora, ma più distinti, i delicati suoni della mandola.
Guardò sulle logge e sotto i chioschi, sulle finestre e sotto il padiglione: non vide alcun soldato e nessuna testa di donna. Prese rapidamente il suo partito.
Attraversò in pochi salti la distanza, s’aggrappò alle colonnine del padiglione, ed aiutandosi colle mani e coi piedi giunse alla cupoletta, aggrappandosi all’asta di ferro che sorgeva nel mezzo. Tutto ciò lo eseguì in meno tempo di quello che occorra a descriverlo. Si guardò allora all’intorno, indi alzò la testa, e con inesprimibile gioia vide una finestrina alta forse tre metri.
— Se riesco a guadagnare il davanzale, sono salvo — mormorò.
Si alzò quanto era lungo, ma l’altezza era troppa. Allora si raccolse su se stesso, come fa la tigre quando slanciasi sulla preda, e spiccò un salto. Le sue mani incontrarono il davanzale e vi si aggrapparono con sovrumana energia.
Proprio in quell’istante udì una voce sotto il padiglione che diceva:
— Avanti e prudenza!
Nadir non esitò più. Con uno sforzo si alzò, superò il davanzale e cadde entro una stanza, che fortunatamente era deserta.
Quella stanza era ammobiliata principescamente. Non era molto vasta, quadrata, colle pareti coperte da bellissimi tappeti dai mille colori e il pavimento pure. Non c’erano i pesanti mobili che si vedono nelle case europee, ma larghi divani di raso rosso, che correvano tutto all’intorno; eleganti tavolini di mosaico, con sopra dei vasetti microscopici, larghi braccialetti d’oro, anelli d’ogni sorta e collane di perle grosse come nocciuole, di un valore favoloso.
— Questo è il santuario di una donna — bisbigliò Nadir. — Mi tradirà essa?
Fece alcuni passi in quella stanza, respirando quell’aria impregnata di un vago profumo di vita molle e fastosa, e s’avvicinò ad una doppia tenda di seta azzurrina, che pareva celasse una nuova stanza.
— Se lì dentro ci fosse?... — mormorò.
Alzò, tremando, le tende e guardò dentro. Eravi un’altra stanzetta, pure tappezzata, con un piccolo divano nel mezzo, sul quale, in un grazioso disordine, c’erano delle vesti di broccato e di seta, ricamate in oro ed in argento e che esalavano ancora un profumo delicatissimo che non era l’essenza di rose, così smodatamente adoperata dalle Persiane.
Un europeo avrebbe subito riconosciuto in quel profumo quello della violetta.
Guardando ancora, Nadir vide in terra due babbucce di pelle rossa, e così piccine, che parevano dovessero servire ad una fanciulla anzichè ad una donna, e sopra un tavolino di lacca, entro un vaso di porcellana di China, una rosa appena sbocciata.
— Chi mai potrà essere la fortunata abitatrice di questo nido? — disse Nadir, lasciando ricadere le tende.
Un gridio assordante che veniva dal giardino, lo chiamò tosto alla finestra.
— Eccolo! — gridava una voce.
— Dàlli! Dàlli!
— Avanti, voialtri!
— Fuoco, Abbassi!
Un colpo di archibugio rintronò, facendo tremare i vetri dei chioschi.
— Se fossi rimasto nel giardino, a quest’ora il buon Mirza avrebbe perduto il suo figlio adottivo — disse Nadir. — Ma...
Non finì. Nella stanza attigua aveva udito come un legger crepitìo e subito dopo girare la maniglia di una porta. Con un balzo solo fu nell’alcova snudando il kandjar, risoluto a farsi uccidere coll’arma in mano, piuttosto che arrendersi.
Passò un minuto lungo quanto un secolo per lui, poi la porta si aprì e agli ultimi bagliori del crepuscolo, vide entrare una figura di donna, avvolta in un ampio velo di mussola, che la copriva dal capo alle piante.
Ella s’arrestò un momento girando la testa intorno come se presentisse che qualcuno era lì entrato, poi s’avvicinò alla finestra senza produrre il più lieve rumore, curvandosi sul davanzale.
Le grida che poco prima avevano attratto Nadir a quella stessa finestra, si fecero udire nel giardino.
— Eccolo!
— Dàlli! Dàlli!
— Avanti, voialtri!
— Fuoco, Abbassi!
Poi una seconda archibugiata rintronò.
A quello sparo quella donna si gettò vivamente indietro, facendo un gesto di terrore.
— Infelice! — la udì esclamare con voce tremante Nadir. — Forse quegli sciagurati l’hanno ucciso!
Tornò a piegarsi sul davanzale, in preda ad una viva emozione, tradita dal tremito della sua leggerissima mussola, poi, non udendo più nulla, abbassò la tenda di seta azzurrina e tornò in mezzo alla stanza ad accendere una gran lampada dorata, appesa al soffitto.
Uno sfolgorìo abbagliante tosto l’avvolse tutta. Dai forellini della mussola scaturivano vivi baleni come se sotto vi fossero ori, perle, zaffiri e diamanti. Nadir, senza sapere il perchè, provò un vago timore.
— Chi è quella donna? — si chiese con voce soffocata. — Perchè nel trovarmi qui celato le mie membra tremano? È forse?...
S’arrestò. La sconosciuta con un movimento grazioso aveva slacciato i cordoni della mussola e l’aveva lasciata cadere ai suoi piedi, esponendo ai raggi della lampada il suo ricco costume orientale, ricamato in oro ed argento e tempestato di perle e di diamanti di un valore inestimabile. Un profumo soavissimo, il profumo della violetta, si sparse subito per la stanza, penetrando fin dentro l’alcova.
Un nuovo timore, più forte del primo, scosse Nadir in tutte le fibre. Senza pensare che poteva venire scorto, alzò con mano tremante la tenda e guardò in viso la sconosciuta.
Ell’era giovane assai e in tutto l’insieme elegantissima, quantunque non avesse nè gli occhi grandi, nè le labbra forti, nè i capelli nerissimi.
Era invece alta, snella, delicatissima, con una vitina sottile, sottile e con forme piccine come quelle di una fanciulla dodicenne. Bianchissime, quasi diafane, ma morbide erano le sue mani; bellissimo e lievemente roseo il suo volto, ombreggiato da un velo di melanconia; rosse come corallo le labbra e lievemente sporgenti; neri gli occhi, ma dolci, languidi; leggiadramente arcuate le sopracciglia, e quasi biondi, a riflessi d’oro, e sottili come fili di seta i capelli, ricadenti sulla nivea fronte.
In quella donna nulla vi era della classica bellezza degli artisti, ma da tutta quell’elegante personcina traspariva una ingenuità fanciullesca, una tenerezza, una dolcezza veramente femminea; che, come dicemmo sopra, la rendevano simpatica e modesta.
Un orientale avrebbe detto, nel suo pittoresco linguaggio, che quella giovinetta somigliava ad uno di quei delicatissimi fiori che sboccian superbi ai primi raggi del sol primaverile e che avvizziscono per sempre ai primi soffi della gelida tramontana...