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Cap. IV.

Fathima.

Qualunque altro uomo, cadendo dalla cima di quell’alta muraglia, si sarebbe spezzato il cranio o per lo meno rotte le gambe, ma così non accadde all’agile montanaro, abituato sin dall’infanzia a quei salti pericolosi. Rimessosi in gambe, erasi prontamente raddrizzato, guardando con viva curiosità e un po’ con ansietà il luogo ove trovavasi.

Era un grandioso e superbo giardino, cinto da solidi muraglioni e così alti da sfidare, senza una scala, il più svelto uomo della Persia. Giganteschi platani dal cupo fogliame, bellissimi faggi, melagrani, cotogni, ciliegi e nespoli, disposti in bell’ordine, proiettavano una fresca ombra sui viali lisci e puliti, e fiori bianchi, rossi, azzurrognoli e gialli, profumavano delicatamente l’aria. Qua e là attraverso il verde delle foglie, apparivano graziosissimi padiglioni e piccoli chioschi, zampilli d’acqua che slanciavansi a grande altezza, spandendo intorno miriadi di goccioline, e più oltre limpidissimi stagni, entro i quali nuotavano candidi uccelli acquatici e dissetavansi branchi di leggiadre gazzelle col capo armato di sottili corna leggermente arcuate.

Nessuna voce umana udivasi nè sotto gli alberi, nè in riva agli stagni, ma quando non sussurrava il vento, da lontano venivano certe note delicate, dolci, che parevano emesse da una mandola.

— Dove sono io? — si chiese Nadir, dopo essere rimasto per qualche tempo in ascolto. — Chi abita questo luogo? Corro un nuovo pericolo?