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la mano inguantata. Il giardino pareva deserto. Dal palazzo dell’Academia non giungeva alcun romore, alcuna voce. Si udiva chiaro nel silenzio il chioccolío della fontana a mezzo dello spiazzo; i viali si prolungavano verso il Pincio diritti, come chiusi fra due pareti di bronzo su cui non anche moriva la doratura del vespro; l’immobilità di tutte le forme dava imagine d’un labirinto impietrato: le cime delle canne acquatiche intorno la vasca erano immobili nell’aria come le statue.

― Mi sembra ― disse la senese, socchiudendo i cigli ― di trovarmi su una terrazza di Schifanoja, lontana lontana da Roma, sola... con te. Chiudo gli occhi, veggo il mare.

Ella vedeva dal suo amore e dal silenzio nascere un gran sogno e dilatarsi nel tramonto. Ella tacque, sotto lo sguardo di Andrea; e un poco sorrise. Ella aveva detto: con te! Pronunziando quelle due sillabe, ella aveva chiuso gli occhi: e la bocca era parsa più luminosa, quasi che vi si fosse raccolto anche lo splendor celato dalle palpebre e dai cigli.

― Mi sembra che tutte queste cose non sieno fuori di me, ma che tu le abbia create nell’anima mia, per la mia gioia. Ho questa illusione in me, profonda, ogni volta che io sono innanzi a uno spettacolo di bellezza e che tu mi sei vicino.

Ella parlava lentamente, con qualche pausa, come se la sua voce fosse l’eco tarda di un’altra voce inaudibile. Perciò le sue parole avevano un singolare accento, acquistavano un suono misterioso, parevano venire dalle più segrete profondità dell’essere; non erano il comun