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sposo o amante, sotto il fascino feminino, era stato preso da un entusiasmo lirico sul piccolo Belvedere solitario a cui conduce una scala di pietra coperta di velluto. Le mura parlavano. Una indefinibile malinconia emanava da quelle voci ignote d’amori morti, una malinconia quasi sepolcrale, come dagli epitaffi d’una cappella.

D’un tratto, Maria si volse ad Andrea, dicendo:

― Ci siete anche voi.

Egli rispose, guardandola, con l’accento medesimo di dianzi:

― Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. Vi amo.

Ella lesse. Ed era, scritto di mano d’Andrea, un epigramma del Goethe, un distico, quello che incomincia: “Sage, wie lebst du?„ ― Rispondi, come vivi tu? ― “Ich lebe!„ ― Io vivo! E, se pur cento e cento secoli mi fosser dati, io m’augurerei soltanto che domani fosse come oggi. ― Sotto era una data: Die ultima februarii 1885; e un nome: Helena Amyclaea.

Ella disse:

― Andiamo.

Il tetto di busso pioveva tenebre su la scala di pietra coperta di velluto. Egli chiese:

― Volete appoggiarvi?

Ella rispose:

― No; grazie.

Discesero in silenzio, pianamente. Ad ambedue pesava il cuore.

Dopo un intervallo, ella disse:

Eravate felice, due anni fa.

Ed egli, con una ostinazione meditata: