Il pedante/Atto IV
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ATTO IV
SCENA I
Mastro Antonio, Repetitore.
Mastro Antonio. Mi non ghe posso catare ancuo negun che me chiami acciò che mi ghe faza una maitina; e no ghe ho invidia a persona del mondo per saver fare una romanesca, una pavana. Alle guagnelle de san Zacaria, che voio andare a casa de sto mistro di scola che m’ha pregao che me ghe vaga a veerlo, che voi che ghe faga no so che servizio. Questa e’xe la porta. Voio battere. Tic, tac. E’ non responde ninguno. Tic, toc.
Repetitore. Quis est ille?
Mastro Antonio. Bon di, bon di, misier.
Repetitore. Bene veniat, bene veniat.
Mastro Antonio. A son mastro Antonio. Trin, trin.
Repetitore. Quid postulatis?
Mastro Antonio. Misier si, a son vegnuo a posta.
Repetitore. Che volete?
Mastro Antonio. Viegno da spasso da San Roco.
Repetitore. Tu recto tramite rispondi.
Mastro Antonio. Si, si, misier si. Che se n’è fatto de quel vostro mistro?
Repetitore. Non est in domi.
Mastro Antonio. Che desi? Non ghe sé in Roma?
Repetitore. Dico domi, domi.
Mastro Antonio. Missier si. E’ me l’ha be’ ditto che ghe vegna.
Repetitore. Oh che pulchra festa ch’è questa!
Mastro Antonio. De grazia, vegnite un pochetin abasso, che voio parlar con Vostra Magnifícenzia.
Repetitore. Aspettate, che nunc venio.
Mastro Antonio. El voio aspettar a ogne modo. Trin, trin, trin.
Repetitore. Bona dies, Dominatio Sua.
Mastro Antonio. A no sudo, no; a so* be’ stracco. Che xe del mistro?
Repetitore. È andato a negoziare.
Mastro Antonio. Elio me disse che mi vegnesse a zercarlo.
Repetitore. Se volete venire in casa, fate voi.
Mastro Antonio. Si, de grazia: ve nne priego.
SCENA II
Prudenzio, Malfatto.
Prudenzio. Promitto, per Deum vivum, che, non tam cito me vide la eccellentissima e reverendissima Signoria del monsignore illustrissimo signor governatore della ortodoxa fede e militante, phano episcopus e gastigatissimo censore e defensore acerrimo della iustizia, quod Deus conservet incolumen, col quale avemo contratta gran familiaritá, che statim me chiamò a sé e postulòmi ch’andassi negoziando. Io gli exposi la t merita dell’inconsiderato uomo e il flagizio perpetrato con di noi come se fossimo qualche incognito viro. Io voglio fo marli un libello de ingiuria, certo che la Sua Signoria mut amore me ssi è offerto. Ma pare che hodie sia certo un lust:
intercalare per noi; che lo infido bibliotecario non ha manco compita l’opera per la quale gli ho soluti inanzi venti quadranti.
Sed ecce a punto Malfatto che torna. O Malfatto!
Malfatto. Me par sentir... Oh! è lo mastro. A fé, site lo ben venuto.
Prudenzio. Et tu quoque.
Malfatto. E dove è lo coco, patrone? Io non lo vego.
Prudenzio. Io dico, tu ancora.
Malfatto. Basta: tant’è. E voi dove séte stato, patrone?
Prudenzio. Fui al bibliotecario e al loco gerente del Mo narca, idest Governatore, ch’è nostro alumno.
Malfatto. Sono uomini questi che dite o sono bestie?
Prudenzio. Sei bestia insolentissima tu, bubone!
Malfatto. Che ne so io? Me par che voi non parlate come li altri, però.
Prudenzio. Che altri? che altri? che tutti li altri insiemi non sanno la decima parte de quello che sanno le mie crepide. Ma dimmi: andasti tu dietro a coloro?
Malfatto. A chi coloro?
Prudenzio. Com’a chi? A quelli ch’io te dissi.
Malfatto. Non me avete ditto niente, ch’io me ricordi.
Prudenzio. Come! Non te dissi che tu andassi dietro a quelli che ti avevano dati quelli nummi?
Malfatto. Io non so che vi vogliate dire.
Prudenzio. Ah furcifer! demente! stolido!
Malfatto. Aspettate, che me cci voglio un po’ pensare.
Prudenzio. Videbis che tu te serai posto a ludere in qualche fòro o in qualche latere con le alee; ed io, cerciorandomene, te scoriarò vapulandote con la scutica, che me delibero che tu non ludi se non col troco.
Malfatto. Patrone, voi séte errato, ch’io non me nne ricordo.
Prudenzio. Die parumper: non te aricordi tu?
Malfatto. Ben sapete che misser si.
Prudenzio. Cur non desinis? perché non me lassi parlare?
Malfatto. Perché io so quello che volete dire, però.
Prudenzio. Che non lo dici, adunque?
Malfatto. Che volete che dica?
Prudenzio. Se sei andato dereto a coloro.
Malfatto. A chi coloro? a quali? Fate che ve intenda.
Prudenzio. Guarda viro impudente, latibulo di spurcizia! Dime un poco: chi te dette quelli quatrini?
Malfatto. Quello che ve disse poltrone.
Prudenzio. Andastegli tu dietro?
Malfatto. Misser si.
Prudenzio. Hai tu saputo chi sono?
Malfatto. Misser si: sono doi omini.
Prudenzio. Ben sai che non sono doi equi. Vedi risposta de insipido! Non vedesti tu almeno dove entrorno?
Malfatto. Misser si: in una casa, che ha una porta, quando si vole entrare dentro; e desopra ha poi le finestre e lo tetto ancora con li focolari.
Prudenzio. Oh insulsissimo Cerbero ignorante! Povera Cerere e Bacco, a chi lascieno epulare si infelicemente i frutti loro! Ecco che noi locuti sumus con monsignore, col vertice, col culmine della sacrosanta iustizia: e non arò fatto nihil; e terrammi Sua Signoria un mendace a posta di questo bubalo!
Malfatto. Fui Perdonateli, che è scapato da esso, da questo rotto straciato.
Prudenzio. Ah temerario! Non sai tu che «non sis ventosus si vis bonus esse videri»? Et stringe os et crepitum.
Malfatto. Però l’ho fatto: per non crepare.
Prudenzio.- Taci, inconsiderato adolescente! È possibile che non ti aricordi ove stia quella casa dove che sono entrati coloro?
Malfatto. Chi ve l’ha detto?
Prudenzio. Dicemolo noi.
Malfatto. Be’, lassateli dire, che non dicono lo vero.
Prudenzio. Se non guardassimo che tu sei un demente, te imparariamo a rispondere ai maggiori tuoi piú cautamente che non fai.
Malfatto. Voi avete torto a dir villania a lui. Ma sapete dove sta quella casa, mò che me ricordo?
Prudenzio. Dove? che non parli?
Malfatto. Sta de qua. Vedete; guardate bene.
Prudenzio. Di’ pur via; seguita.
Malfatto. No, no: io ho sbagliato. Sta da quest’altra banda; e poi se volta cosi, e cosi, e se agionge poi lá, e vassi poi in qua. E cosí la trovate.
Prudenzio. Questo sarebbe uno enucleare.
Malfatto. Oh! tengo ben a ment’io, si.
Prudenzio. Tanto magnassi mai tu! Ma so che tutte le opere mie me succedono oggi extra votum.
Malfatto. Patrone, bon di. Io voglio andar a mieto.
Prudenzio. Va’, che te fragni le crure! Chi demone me ha posta questa bestiola dinanzi? che nihil prodest, idest che non giova el monirlo né di gastigarlo; immo, de male in peius. Ma suo danno, quia sibi luditur.
SCENA III
Ceca, Minio, Iulia, Livia.
Ceca. Oh che l’è da bene! oh che l’è la buona giovane, quella madonna Fulvia! Per certo che, ora ch’io ho inteso el tutto, li ho quella compassione che alle povere bisognose e vedove aver si deve. Grande infelicitá l’è certo la sua, che né vedova né maritata se gli può dire; ma molto... Domino! Esce di casa piangendo Minio; e madonna è sulla porta.
Minio. Eh! mamma mia, perdonateme.
Iulia. Vien qui, giottoncello! Piglialo, Ceca.
Ceca. Che cosa hai tu fatto?
Minio. Eh Dio! aiutarne, Ceca mia.
Iulia. Menalo qui da me; piglialo pei capegli.
Minio. Eh Dio mio!
Ceca. Vieni; non dubitare: che non ti fará male, no.
Iulia. Giottone, ti credevi fugire, ch? E dove volevi andare, ch’io non ti trovassi?
Minio. Oimè! perdonatemi, mamma mia.
Ceca. Madonna, non piú, di grazia. Vanne dentro tu.
Minio. Oimè! Oimè!
Iulia. Aspetta pur, che queste non son nulla a rispetto di quelle che io ti darò. Vanne pur lá.
Ceca. Che cosa ve ha egli fatto?
Iulia. Ma non si curi, quel pedante tristo, sciagurato!...
Ceca. E chi, madonna? el maestro?
Iulia. El maestro, si.
Commedie del Cinquecento -1. 9
Ceca. E per che cosa?
Iulia. Come per che cosa? El mando alla scola perché gl’impari le vertú, e quello mei fa un ribaldo!
Ceca. Madonna, oggidí non si può la persona fidar di nessuno; e i maestri propri son quegli che gli fanno viziosi e cattivi, che meritarebbono el fuoco, la maggior parte.
Iulia. El poltrone l’ha mandato perché gli scusi ruffiano.
Ceca. E con chi?
Iulia. Con la sorella, con Livia. Forsi che con meco?
Ceca. A pena el posso credere.
Iulia. L’è pur cosi. Ma non si curi!... Basta. S’io non ne Ili impago, laméntise di me. Gli darò una tal moglie che forsi gli rencrescerá. Bastarla ch’io non ci stessi per nulla in casa.
Ceca. E che gli ha mandato a dire, se Idio vi guardi?
Iulia. Io non l’ho possuto troppo bene intendere, che gli parlava all’orechio; ma io me delibero che me dica ogni cosa a suon di frustate.
Ceca. Madonna, quanto piú presto ve Ila levate de casa è meglio per voi.
Iulia. Non piú: basta. Qualche cosa sera.
Livia. Madonna, Minio non voi star cheto.
Iulia. Digli che, se io vengo di sopra, ch’io gli romperò el capo.
Livia. A punto piglia lo bastone per darme, vedete?
Iulia. Andiamo dentro.
Ceca. Fuggi, Minio, ch’ecco madonna. Livia, ditegli che fugga, che madonna noi trovi.
Livia. Di’ quanto vói, che noi credo. Che si, fraschetta, tristarello!...
SCENA IV
Malfatto, Prudenzio, Mastro Antonio.
Malfatto. Si, si, domane! Aspettate pur. Sempre me mandano fuori e io prometto di servirli come meritano. Me nne voglio andar a spasso tutto oggi e non ce voglio tornare per un pezzo. E, se vole delli patroni da comandare, che se Ili trovi. Guarda compagni de merda! Vole ch’io vada a chiamare un certo scolaro che vole che venga adesso. Si, si! È bello e venuto.
Prudenzio. Adhuc sei li, ch? Non odi, insolente famulo, no?
Malfatto. Oh! crepa, crepa, che non te voglio respondere.
Prudenzio. A chi parlo io? Olá!
Malfatto. Si, si! oh qua!
Prudenzio. Malfatto, voltate, che te volti el carnifice! O Malfatto! o poltrone!
Malfatto. Che volete?
Prudenzio. Dilli che venghi statim, che l’aspettamo a prandio.
Malfatto. Si; misser si.
Prudenzio. E che verrá tempestive.
Malfatto. Ve possa cader sul capo la tempesta!
Prudenzio. Vade cito et rede.
Malfatto. Me voglio metter a correre acciò che non me veda.
Prudenzio. Non odi, no? El poltrone, agricola, foditore, rustico ha passato el domo e non l’ha postulato. Certo ch’in qualcun altro suo negozio se andará ad occupare. Ma...
Mastro Antonio. Volemo andare a disnare, misiere? che sé ora.
Prudenzio. No, no. Aspettiamo un poco questo puerculo nostro discipulo, nunzio di certe nostre imbasciate.
Mastro Antonio. E sé molto lontano?
Prudenzio. In capite a questa via deambulatoria. E ho necessitá di parlar con lui sotto un brieve epilogo prima che saturi el ventre; che non posso contrastar alla petulanzia carnale e cagion è che vadia con la barba squalida e faccia con li oculi un profluvio di lacrime.
Mastro Antonio. Questa sé una mala trama.
Prudenzio. Io el so, che contremisco totiens quotiens cogito nelli estuanti desiri per li quali son leso che me fanno come un viro furente. Pur, nihilominus, speramo che, mediante el buon naturale discorso che ci troviamo e la sua buona e larga natura educata di continuo nei laboriosi studi, posser ridurla in uxoria fede, quia est viro potens. E cosi, refrigerando e sanando le vulnere ch’ho nel corculo e nello èpate, in rubeo si divertirá el colore busseo.
Mastro Antonio. Non bisogna battere, che sé averta la porta.
Prudenzio. Non posso stare ad exemplificarvi, al presente. Andate, ch’io ne verrò statini.
Mastro Antonio. Stasi pur quanto che ve piase.
Prudenzio. Costui se cogita d’essere un vafro uomo et è un ideota che non degerisce le parole nostre. Io temo che quello insolente iactabundo del servo, poco obsequente ai nostri precepti, non incumba a qualch’altro spurcissimo negozio e il nostro, per ingiusta oblivione, non interlassi.
SCENA V
Curzio, Rufino, Trappolino.
Curzio. Se io avessi guadagnati oggi mille scudi non mi sarebbono stati si cari, ancor ch’io ne abbia di bisogno, come mi è stato caro lo aver provato costui: ch’ogni volta che m’incontrava, e tu lo sai, sempre voleva ch’io lo affannassi; e ora, che de picol summa di dinari l’ho richiesto, tu l’hai sentito quello che m’ha risposto e con quanti preambuli e paroline si è scusato.
Rufino. Patrone, io ve ricordo che, se piú ne avessivo rechiesti, piú ne aresti vo trovati ch’el medesmo vi arebbono detto.
Curzio. Vedi che ’l nostro banchieri ne ha aiutato inel bisogno con una sola polizza delle nostre senza altri contratti o cavillazoni.
Rufino. Io me ne sono maravigliato, che sogliano questi mercanti essere sufistichi, schizzinosi, ch ’a pena si fidono di loro stessi nel conto del danaio.
Curzio. Acceleramo i passi; andiamone in casa, acciò ch’io me possa mettere in ordine per ritrovarmi stanotte con la mia Livia.
Rufino. Eh! patrone, perdonatemi. Se voi ve fossete guidato per mio conseglio, buon per voi!
Curzio. Come! Che buon per me? che aresti fatto?
Rufino. Avria mandato per madonna Fulvia.
Curzio. E pur lá ritorni.
Rufino. Ci torno, signor si; e ritornaròvi sempre, che voi non avete però causa di volergli male.
Curzio. Io, per me, non gli vo’ male. Tu hai torto.
Rufino. Assai mal me pare che li vogliate, quando la tenete lontana da voi. Ma ricordatevi che lei è donna ed è bella e giovane; e, se voi che séte uomo non possete contrastare ai stimoli della carne, che fará lei ch’è di piú fragile e di piú debole complessione?
Curzio. Rufino, tu vedi ch’io volentieri ascolto i consegli tuoi. Ma ti priego che, per adesso, non ne parliamo. Lasciamo passare un po’ qualche giorno ancora; e poi qualche cosa sará.
Rufino. Eimè, che non ne farete altro! per ciò che, se nne avessi vo voglia, lo farestivo senza aspettare che vi uscissino questi danari delle mani, che sono perduti per voi. E non so che vi conoschiate piú in costei ch’in vostra moglie; che, per mia fé, vai piú un’ogna del piede suo che non tutta lei insieme.
Curzio. Tu non la vedi come la vedo io: però parli cosi.
Poi io non me la piglio per moglie.
Rufino. E’ si dice ben cosi; ma...
Curzio. Ma che?
Rufino. Voglio dire ch ’eli’ è peggio: che le moglie patiscono di quelle cose che non patiscono le concubine. Oltre che vi pelano e vi tirano sino al sangue. Ed èvvi vergogna e danno all’anima e alla borsa. Curzio, Non posso io desordinare una volta?
Rufino. Fate voi. Vi priego che non l’aviate per male, che l’amore ch’io vi porto mei fa dire e la pace ch’io vorrei vedere in casa vostra.
Curzio. Credolo. Ma vattene innanzi e fa’ oprire.
Rufino. Signor si.
Curzio. Certo, gran sorte è stata la mia a trovar, in tanto bisogno, questi denari.
Rufino. Tic, tic. Costui deve essere in cantina.
Curzio. Non ci deve essere in casa, nch vero?
Rufino. Io non vel so dire. Tic, tac.
Curzio. Ripichia, ripichia meglio.
Rufino. Che volete pichiare? Questo è un perder di tempo. Tic.
Curzio. Fatti conto ch’el deve dormire.
Rufino. Piú presto deve esser morto.
Curzio. Di questo ne sei cagione tu.
Rufino. E perché io?
Curzio. Perché, se tu lo gastigassi qualche volta, sarebbe piú avertito alle cose mie che non è. Ma non piú. Va’ e ripichia un’altra volta; e, se non risponde, gitta giú la porta, ch’io voglio entrare per ogni modo.
Rufino. Cosí farò. Tic, tac, toc.
Trappolino. Chi è lá? chi è lá? chi è lá?
Rufino. Malan che Dio ti dia!
Trappolino. Te dia el malanno e la mala pasqua a te. Oh patrone! Perdonateme.
Curzio. Non ti curar, forca! Vieni, vieni a oprire.
Trappolino. Adesso.
Curzio. Che domino poteva far costui?
Rufino. Fatevi conto ch’el dovea merendare.
Curzio. Fa’ che tu gne Ilo ricordi la prima volta ch’erra, se tu me vói esser amico.
Trappolino. Buon di. Entrate.
Curzio. Non curar, giotton, forfantello!
SCENA VI
Malfatto, Ceca, Iulia.
Malfatto. Vedi mò che non ho voluto fare a modo del patrone, che li venga el cancaro a lui e a chi lo vede adesso! Ma, alla fé, che li voglio stracciare tutti li libri. Ben li trovare io, si; che non li giovare de averli nascosti sotto lo letto. Oh! Adesso si che voglio achiamar quello che lui me disse che sta qua dentro. Tic, tac.
Ceca. Chi è lá?
Malfatto. Oh! Simo noi. Tic.
^Ceca. Chi è? non odi?
Malfatto. Te l’ho pur detto. Tic, tac.
Ceca. Perché pichi? non odi, no?
Malfatto. Perché me piace. Toc, tac.
Ceca. Che si che ti trarò d’un sasso nel capo!
Malfatto. Voglio bussar per dispetto tuo, adesso. Tic.
Ceca. Non l’odi, poltrone, no?
Malfatto. Si, si. Tic. So ch’io voglio bussare.
Ceca. Tu non me credi, Malfatto, nch vero?
Malfatto. Che vói? che hai? Oh Ceca mia bella!
Ceca. Che vói? che adimandi?
Malfatto. Volevo stare con meco abracciato.
Ceca. Tira alle forche! Levate de li, dico! Aspetta pur ch’io venghi giú con un bastone, che ti farò fugir piú che di passo.
Malfatto. Oh diavolo! Non fare, che te voglio bene, io; e poi me cci ha mandato lo mastro.
Ceca. E che vole? Che non lo dici?
Malfatto. Vole quel cotale che sta qua.
Ceca. Come se chiama?
Malfatto. Lo mastro lo sa.
Ceca. O va’ e fattelo redire.
Malfatto. Non voglio, che lui me ha ditto ch’io venga qua a pichiare. Tic, tac, toc.
Ceca. L’è la festa del pichiare, questa. Tu non lo credi, ch?
Malfatto. E che hai paura? che spezzi l’uscio? la porta?
Ceca. Aspetta, aspetta el bastone.
Malfatto. Eh! non far. Odi, odi. Oh Ceca!
Ceca. Cne vói?
Malfatto. Eh! non fare, de grazia, che lo mastro me cci ha mandato.
Ceca. Malan che Dio te dia, a te e a lui!
Malfatto. Ascolta un poco. Oh madonna quella! Chiama un po’, de grazia, quel cotale.
Ceca. Che cotale? Perché non parli?
Malfatto. Vorria che tu me chiamassi quello che mena.
Ceca. Tu devi esser imbriacco.
Malfatto. Per questa croce, che non ho ancora beuto. Odi, odi; non te spartire. Oh cancaro! S’io torno al mastro e dico che non me hanno voluto aprire, me dará delle staffilate. Io so che voglio bussare. Tic, toc, tac.
Ceca. Tu non lo credi, nch vero?
Malfatto. Che vói ch’io creda?
Ceca. Che te farò andare a pichiare altrove.
Malfatto. Oh! non sono stato io.
Ceca. E chi è stato?
Malfatto. Uno ch’è andato lá giú adesso. Ma, de grazia, chiamarne un poco quello che mena, che lo vole lo mastro.
Ceca. Tu vói forsi Minio.
Malfatto. Si, cancaro li venga!
Ceca. Venga pur a te. Aspetta, ch’ora lo chiamo.
Malfatto. Vedi che pur me ssi è ricordato lo nome. Oh che poco cervello! Gran cosa ch’io non tengo troppo bene a mente! e sono cosí grande!
Ceca. Dove sei? non odi? Oh poco-in-testa!
Malfatto. Che volete?
Ceca. Adesso viene abasso.
Malfatto. Si, si, venga pur, che lo mastro l’aspetta ed è un pezzo che sta in ordine.
Iulia. Chi è quello che vole Minio?
Malfatto. Simo noi, che lo vole lo mastro.
Iulia. Dilli, al tuo maestro, che l’è un gran sciagurato.
Malfatto. È ben vero, si.
Iulia. E è un tristo e un gaglioffo; e che, se non è savio, gli farò romper el capo.
Malfatto. Si, che non possa sedere. Oh! che l’è gran poltrone, alla fé.
Iulia. Basta. Digli pure ch’io non voglio che mio figliuolo vadia piú alla scola sua; che non vo’ che mei faccia un ruffiano.
Malfatto. È ben ruffiano, si.
Iulia. Chi?
Malfatto. Minio, quello vostro.
Iulia. El malanno che ti venga! Io dico el maestro tuo.
Malfatto. Dico ben cosí io ancora. Ma diteme un poco, o madonna: perché non me date moglie?
Iulia. E che ne vói far della moglie, bestia?
Malfatto. La voglio abracciare nello letto, cosi, vedete.
Iulia. Fatti in lá, poltrone! se non hai voglia ch’io ti dia d’una pianella inel mostaccio.
Malfatto. Perdonateme; ch’alia fé, io ve Ilo vorria fare per bene. E chi dorme con voi, la sera, quando è notte?
Iulia. Vedi adimanda scioca! Per certo, che questa di costui è una dolce pazzia. Non ci dorme nessuno. Perché?
Malfatto. Perché si. Non avete paura delli lenconi, voi, quando state sola?
Iulia. Hai tu altro che dire?
Malfatto. Madonna si; un’altra cosa. Ma io non vorria che voi me dessivo delle pugna.
Iulia. Pensati che, si tu non parli saviamente, ch’io te Ile darò; e saranno buone.
Malfatto. Be’, io non ve la voglio dire. Cagna! Voi séte troppo crudela.
Iulia. Orsú! Vatti con Dio, va’; e di’ al tuo maestro che, se non è savio, io gli farò fare uno scherzo che se pentirá d’avermi mai cognoscíuta.
Malfatto. Orsú! Basta: bon di. Io li farò l’imbasciata e diroli che quello che mena lo volete per voi.
Iulia. Dilli quello che ti pare.
Malfatto. Me aricomando alla Vostra madonna Signoria. Alla fé, per questa croce, se non che me venga mò mò lo cancaro, se non sono giá innamorato de essa. Oh! che l’è bella, diavolo! Oh! quasi che vorria che me mandassi spesso, lo mastro. Ma vorria che me facessi dormire con essa; che so che me vole bene, che, quando me parlava, me guardava e rideva. E chi sa? Forsi che ancora me pigliare per moglie; e essa me sará marito; e faremo delli figliuoli; e essi poi me chiamaranno tata, missere; e io comparare uno asino per andare a cavallo a spasso; e montarò in groppa a essa; e faremo a dormire tutti doi l’uno sopra l’altro. Oh cagna! Me pare d’averla giá in braccio e de basarla e de mozzicarla e de voltarme con essa, cosi, per lo letto e tirare delle corregge, cosi. Fu. Oh che possa venire lo male francioso allo patrone! Mò che me sse ricorda, se aranno magnato ogni cosa. Oimè ! oimè ! la parte mia! Oimè ! che non me averanno lassato manco della menestra.