Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/141


atto primo 133


Rufino. Eh! patrone, perdonatemi. Se voi ve fossete guidato per mio conseglio, buon per voi!

Curzio. Come! Che buon per me? che aresti fatto?

Rufino. Avria mandato per madonna Fulvia.

Curzio. E pur lá ritorni.

Rufino. Ci torno, signor si; e ritornaròvi sempre, che voi non avete però causa di volergli male.

Curzio. Io, per me, non gli vo’ male. Tu hai torto.

Rufino. Assai mal me pare che li vogliate, quando la tenete lontana da voi. Ma ricordatevi che lei è donna ed è bella e giovane; e, se voi che séte uomo non possete contrastare ai stimoli della carne, che fará lei ch’è di piú fragile e di piú debole complessione?

Curzio. Rufino, tu vedi ch’io volentieri ascolto i consegli tuoi. Ma ti priego che, per adesso, non ne parliamo. Lasciamo passare un po’ qualche giorno ancora; e poi qualche cosa sará.

Rufino. Eimè, che non ne farete altro! per ciò che, se nne avessi vo voglia, lo farestivo senza aspettare che vi uscissino questi danari delle mani, che sono perduti per voi. E non so che vi conoschiate piú in costei ch’in vostra moglie; che, per mia fé, vai piú un’ogna del piede suo che non tutta lei insieme.

Curzio. Tu non la vedi come la vedo io: però parli cosi.

Poi io non me la piglio per moglie.

Rufino. E’ si dice ben cosi; ma...

Curzio. Ma che?

Rufino. Voglio dire ch ’eli’ è peggio: che le moglie patiscono di quelle cose che non patiscono le concubine. Oltre che vi pelano e vi tirano sino al sangue. Ed èvvi vergogna e danno all’anima e alla borsa. Curzio, Non posso io desordinare una volta?

Rufino. Fate voi. Vi priego che non l’aviate per male, che l’amore ch’io vi porto mei fa dire e la pace ch’io vorrei vedere in casa vostra.

Curzio. Credolo. Ma vattene innanzi e fa’ oprire.

Rufino. Signor si.