Il nostro padrone/Parte seconda/XII
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XII.
L’indomani mattina egli andò a consultare un medico, o meglio un vecchio signore alquanto strano che abitava in una vecchia casa a fianco della palazzina Perrò, e che si dilettava di medicina e dava consulti e consigli gratis ai malati ed anche ai sani.
Quando Bruno entrò, la piccola anticamera buia era piena di gente; si sentivano gemiti di bimbi malati e lamenti di donnicciuole sofferenti: ed egli sedette in un angolo, dietro l’uscio, aspettando il suo turno e cercando di nascondersi per non essere riconosciuto. Con la testa curva sul petto, pareva un vecchio stanco e malato ma non ancora rassegnato alla sua fine.
Durante la notte non aveva chiuso occhio, ed ora provava una sonnolenza malaticcia; gli sembrava di aggirarsi ancora attorno all’orto e alla casa della maestra, tentato di salire ancora la scaletta, di picchiare alla porticina, di chiamar Sebastiana e di farsi perdonare da lei. La paura, l’umiliazione, il timore di esser deriso, lo rendevano prudente. Gli sembrava di sentir ancora fra le sue braccia l’agile busto di lei, vibrante di passione e di gioia: ella si burlava di sua madre; ella avrebbe riso anche di lui: ella era capace di tutto!
Egli sentiva che una volta diventata sua amante, Sebastiana avrebbe fatto di lui quel che voleva; e mentre il veleno del desiderio non soddisfatto gli fermentava nel sangue, accrescendo il suo malessere fisico, la sua ragione si ostinava nei suoi calcoli, decisa a combattere ancora, a vincere ancora. Egli voleva vivere, voleva vincere. Mille storie, d’uomini che s’erano perduti per causa di donne, gli tornavano in mente; pensava a Lorenzo il dispensiere, che per causa di una donna aveva tentato di uccidere il proprio fratello, ed era diventato cattivo e cinico e aveva fatto una fine misteriosa.
Una domanda bisbigliatagli all’orecchio lo trasse dai suoi sogni.
— Figlio mio, sei qui?
— Zia Chillina? Che, state poco bene?
— Io no, grazie al Signore. Sto bene come un piccolo santo in cielo. Sono venuta qui per un affare.
— Anch’io, — egli disse a voce alta, e siccome zia Chillina si lamentava perchè nè lui nè Marielène la visitavano spesso, aggiunse, cupo: — abbiamo tanto da fare.... da pensare.... Ma presto, spero, presto avrò un po’ di pace e verrò a trovarvi....
Ella gli stringeva il braccio e gli susurrava:
— Figlio mio, non bisogna lasciarsi trasportare dalla ruota della vita.... no.... no.... se no la ruota ci schiaccia.... Pensa un po’ anche a divagarti.... Non pensare sempre ai soldi!
— Oh, no, no, penso anche ad altro! — egli mormorò; ma subito si pentì di queste parole.
In quel momento toccava il suo turno: egli voleva far passare la vecchietta, ma ella ringraziò e lo spinse verso l’uscio socchiuso.
Accanto alla finestra, nella vasta sala bassa e affumicata che sembrava il laboratorio d’un alchimista, sedeva il vecchio studioso, con la testa curva su un libro, fra un globo di vetro e un cannocchiale, ed i suoi foltissimi e arruffati capelli grigi davano l’idea di una nuvoletta sospesa sopra un viso pallido e scarno di sognatore.
Egli accennò al visitatore di sedersi accanto al tavolo, e cominciò a interrogarlo, senza sollevar gli occhi dal libro dove pareva leggesse le sue domande. E di momento in momento queste diventavano sempre più intime, come quelle di un confessore, ma Bruno esitava nel rispondere, e la paura di compromettersi, diventata in lui una specie di istinto, non solo non gli permetteva di rivelare i suoi segreti, le sue abitudini, la sua passione, ma lo costringeva persino ad attenuare la gravità del suo malessere fisico. Finalmente il dottore si alzò e gli applicò sul petto nudo, sopra il cuore, un piccolo imbuto nero. Passarono alcuni momenti di silenzio penoso. Curvo, con l’orecchio sull’imbuto, il dottore ascoltava i palpiti del cuore malato; e Bruno lo guardava con diffidenza, sembrandogli che il vecchio spiasse i suoi più intimi segreti.
— Riposo, riposo, riposo, — qui, e qui! — disse infine il dottore, sollevandosi e toccandosi la testa e le gambe; poi ripulì l’imbuto e tornò a sedersi davanti al tavolo.
Bruno si riabbottonava il corpetto, e domandava, stupito come un bambino:
— Che vuol dire?
— Che vuol dire riposo? Il contrario di strapazzo, e cioè non correre pei boschi, non esporsi alle intemperie.
— Devo rinunziare al mio mestiere?
— Per qualche tempo, sì.
Egli si alzò, pallido e quasi irritato.
— E chi mi dà da vivere? Eppoi.... eppoi.... io non posso vivere senza far nulla! Io sono abituato a lavorare.
Il vecchio ricacciò la testa fra il cannocchiale e il globo, e sopra la tavola Bruno non vide più che la nuvoletta di capelli grigi. Capì che era inutile gridare, difendersi: era venuto per domandare un consiglio, il vecchio glielo aveva dato, e spettava a lui seguirlo o no. Abbassò la voce, e domandò esitando:
— Ma è dunque grave? Mi dica almeno il nome della malattia!
Senza sollevare il capo il vecchio borbottò: «dilatazione dell’aorta», e Bruno se ne andò senz’aver capito che una sola cosa: che il rimedio prescrittogli era peggiore del male.
Dopo aver salutato la sua ex-padrona di casa uscì, triste ed umiliato, e andò dallo speculatore. Anche là alcune donnicciuole e alcuni paesani aspettavano d’esser ricevuti; ma quale contrasto con la scena della casa attigua! Là tutto era triste, lugubre; qui si sentiva l’odore di una colazione succulenta, e il sole inondava la scala sporca e animata come una strada, e lo speculatore, rosso e forte come un lottatore, riceveva uomini e donne, paesani e borghesi, con gli stessi modi famigliari e violenti, rinfacciando a tutti di essere poltroni e incitandoli a lavorare, a muoversi. Egli non si accorse neppure che il suo capo‐macchia aveva una brutta ciera. E furono i soliti discorsi: un rapido calcolare, un incalzare, un incitare verso il guadagno; una pesca tenace e sicura a tutte le probabilità che potevano recar vantaggio alla speculazione.
Come suggestionato dalla forza del suo padrone, Bruno si sentiva rianimare; e un’ora dopo ripartì per la foresta senza aver riveduto Sebastiana.
*
Dopo la fuga di Bruno ella divenne un po’ stravagante; cantava e imprecava, passava spesso da una gioia infantile e rumorosa, senza causa, a un cupo malumore.
Un giorno, nel cortiletto di Marielène, insultò il professore d’italiano che le rivolgeva qualche frase galante, e se ne andò giurando di non rimetter più piede in quella casa.
Ma la sera stessa ritornò, mentre la maestra e le sue vicine stavano a prendere il fresco ed a chiacchierare. Il cortiletto era ingombro di travi, di mattoni, di altri materiali di fabbrica; e Marielène s’affannava, al chiaro di luna, a pulire con una falciuola un fascio di canne che dovevano servire per il tetto della nuova casa.
— E lascia! — le disse con ironia Sebastiana, — tanto, il lavoro di notte va al diavolo.
— Io volevo pregarti di aiutarmi!
— In fede mia, no! Non lavoro per me che son povera, e devo lavorare per te che sei ricca?
Poco dopo s’udì un fischio nel viottolo, e la maestra disse:
— Mi pare quello di Predu!
Sebastiana uscì di corsa e infatti vide suo marito davanti al cancello della loro casetta.
— Chiamami tua madre, — egli le disse, — va, devo dirle qualcosa per Marielène.
— Che è accaduto, Predu? Dillo a me.... Bruno sta male?
— Va; non è cosa che ti riguarda.
Ella cominciò a tremare e ritornò nel cortiletto. Non era cosa che la riguardava? Ah, invece, le gambe le si piegavano e un’angoscia profonda le opprimeva il cuore. Nel vederla così turbata, la maestra credette che Predu Maria avesse commesso qualche mancanza talmente grave da farsi cacciar via dal suo posto, e corse da lui affannata; ma quando egli le disse che Bruno stava molto male e che bisognava avvertirne con prudenza Marielène, sospirò, sollevata.
— Meno male, meno male!
— Perchè meno male? — gridò Sebastiana. — Che vi ha fatto quel disgraziato? Andate, andate e avvertite sua moglie, che lo faccia venir giù, che lo curi, che smetta di pensare ad accumular denari e dia attenzione a quell’infelice....
— Eh, eh! Sebastiana! — disse Predu Maria alquanto ironico. — Perchè tanta agitazione?
— Perchè mi fa rabbia quella gente! Non pensano che ai denari.
— E lasciali fare! Non ci ammaleremo noi, per questo!
— Ma che ha avuto? — domandò la maestra. — Come devo dirle?
— Ma non lo so neppur io che diavolo ha avuto. Stavamo a discorrere; egli pesava dei sacchi. C’era un carriolante che raccontava di esser stato a Golfo Aranci e di aver veduto Lorenzo a scendere dal piroscafo, di ritorno dal Continente; a un tratto Bruno diventò bianco come un foglio di carta e ci cadde fra le braccia. Non era svenuto, ma rimase quasi mezz’ora senza parlare, senza poter respirare: pareva avesse l’asma, e ad ogni movimento provava un dolore acuto al cuore. Io sono sceso perchè, in fede mia, ho paura che muoia.
— Che fare? Che fare? — disse Sebastiana. — Bisognerebbe avvertire subito il Perrò; bisognerebbe mandar su il medico....
— Ebbene, appunto, bisogna che ci pensi sua moglie....
— Vado ad avvertirla, — disse la maestra.
Sebastiana provava una cupa irritazione perchè sua madre e suo marito prendevano la cosa con calma. Ella avrebbe voluto mettersi in cammino, chiamare il medico, salire dal malato e strapparlo alla morte.
— Vedrai che sua moglie seguiterà a pulire le canne. Non le importa nulla di lui!
Invece Marielène si spaventò, corse per aver notizie e volle subito partire per la montagna: Predu Maria e un medico chiamato d’urgenza l’accompagnarono.
Rimasta sola, Sebastiana si gettò sul letto in preda a una convulsione di dolore e di gelosia, e ripeteva a voce alta che a Marielène non importava nulla di Bruno: la disgraziata invece saliva su per i sentieri della montagna col cuore gonfio d’angoscia e di cupi presentimenti, e di tanto in tanto i suoi singhiozzi risuonavano fra le roccie e gli alberi come i lamenti di un’anima in pena.
Quando arrivarono lassù, Bruno s’era assopito. Steso sopra un sacco, nell’interno della tettoia illuminato dalla luna, egli sembrava un cadavere, pallido, d’un pallore azzurrognolo, coi lineamenti stirati e i baffi spioventi. Per non agitarlo troppo, il medico proibì a Marielène di farsi vedere, ed ella attese ansiosa in una capanna addossata alla dispensa.
Predu Maria guardava Bruno con un sentimento di profonda pietà: eccolo, era lì, l’uomo calmo e calcolatore, che il vento delle passioni e le vicende della vita non riuscivano a scuotere. Ecco, un leggero soffio venuto da un luogo misterioso, una piccola mano invisibile, lo avevano atterrato: ma anche nella sua caduta pareva che egli conservasse la sua calma fredda e melanconica.
— È inutile; non te l’ho detto mille e mille volte? Non si sfugge al proprio destino, — gli diceva mentalmente Predu Maria, mentre lo scuoteva per svegliarlo.
— Tu devi aver fatto qualche stravizio nel mangiare o nel bere, e adesso hai un po’ d’infezione intestinale. Purga! Purga! — disse il medico al malato, trattandolo come un bambino; ma Bruno sentiva che il suo male era grave, e ricordando la sua visita all’altro medico domandò se era necessario ritornare in paese.
— Non ti farà male, certo!
Dalla capanna Marielène sentiva parlare suo marito e si rassicurò, e poichè egli diceva che aveva sonno, ella decise di seguire il consiglio del medico di non lasciarsi vedere fino all’alba. La notte era chiara e tiepida, dolce come un crepuscolo estivo. Predu Maria andava e veniva, da una capanna all’altra, e non rivolgeva la parola alla sua antica amante, nè lei lo interrogava: non avevano nulla da dirsi, sebbene il profumo dei ricordi salisse dalla profondità del loro cuore, come da lontano arrivava sino al pianoro diboscato l’odore degli elci fioriti.