Il nostro padrone/Parte prima/XII
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XII.
In quel breve intervallo Marielène, buttata sulla scala e come atterrata da un male violento, pensava ai casi suoi, ricordando tutto il suo passato come uno che sta per morire e fa un rapido esame di coscienza.
Credente, ma con fede diversa da quella di Predu Maria, ella si riteneva in diritto di disputare anche con Dio, e gli domandava rabbiosamente:
— Ma che ho fatto, io? Che ho fatto perchè debba morire di umiliazione e di rabbia?
Ella sapeva di aver peccato; ma metteva sulla bilancia della giustizia divina i suoi peccati e i suoi patimenti, e trovava che questi superavano il peso dei primi. Le sembrava di non aver mai fatto male a nessuno. Si rivedeva bambina, in una stamberga nera popolata di altri bambini affamati; in un canto stava sdrajato su una stuoja lurida un uomo ancora giovane ischeletrito da una implacabile malattia di nervi; e tutto il suo passato le appariva come una macchia nera, sulla quale ella distingueva solo i visini sporchi dei suoi fratellini e delle sue sorelline, e quel viso d’uomo, giallo, con le palpebre chiuse, livide e tremule, e le labbra grigie che si aprivano e si chiudevano lentamente e continuamente come quelle di un ruminante.
Ella aveva dieci anni allora, e doveva alzarsi all’alba e accendere il fuoco e dar da mangiare ai bambini, e chetarli se piangevano o litigavano, e inginocchiarsi davanti a quell’uomo che le ricordava Gesù Cristo deposto nel sepolcro, come si vedeva sul muro della chiesa, e fargli sorbire qualche cucchiajo di semolino o di caffè.
Sua madre era morta, ed ella la ricordava appena. Era una donna oriunda di Oliena; una lavoratrice che andava sulle montagne per raccogliere scorza di ontano, con la quale faceva una tinta e tingeva l’orbace dopo averlo ammorbidito pigiandolo per ore ed ore come si pigia l’uva.
Una volta, tornata appena da un giro per i villaggi, la povera iscarchiadora1 si era buttata sulla stuoja battendo i denti e delirando. Diceva d’aver trovato una brocca piena di monete d’oro, e stringeva le bracca al petto e urlava se qualcuno le si avvicinava. Ella morì così, fulminata dalla febbre perniciosa: dopo una vita di miseria se n’era andata almeno con l’illusione di stringere fra le braccia un tesoro.
A dieci anni Marielène era già seria e pensosa come una donna anziana. Il suo sogno era di proseguire il mestiere di sua madre; ma qualche anno dopo le offrirono un posto di servetta in una piccola locanda, ed ella accettò. L’alberguccio era di fronte alla casa Dejana; ella sentiva gli urli del patrigno di Predu Maria, e quando il terribile uomo entrava nella piccola sala da pranzo dell’albergo e parlava di sua moglie e dei suoi figli come di nemici mortali, la servetta giallognola dai folti capelli neri lo guardava con curiosità e con spavento. Un giorno anche Predu Maria entrò nell’alberguccio, chiamò l’ostessa e si mise a piangere come un bambino. Marielène pianse anche lei, dietro l’uscio. L’ostessa se ne accorse e si mise a ridere e raccontò la cosa al giovine Dejana; ed egli guardò la servetta, le domandò di chi era figlia, poi si recò dal padre di lei e gli portò vino, una coperta, una moneta. Marielène pianse una seconda volta e cominciò ad arrossire quando, mentre spazzava la strada davanti all’alberguccio, vedeva Predu Maria affacciato alla finestra. Una mattina egli la pregò scherzando di spazzare anche davanti alla sua bottega. Ella non rispose, ma lo accontentò; e l’indomani mattina spazzò senza che egli ripetesse lo scherzo. Allora egli scese nella strada solitaria e le disse che per ringraziarla voleva darle un bacio. Così si amarono. Ella aveva sedici anni, egli diciannove; entrambi erano quasi brutti e non erano ardenti, non erano calcolatori; ma si amavano perchè sentivano scambievolmente pietà l’uno dell’altro. Dopo la catastrofe, Marielène, che non aveva mai pensato di farsi sposare da Predu Maria, a poco a poco si dimenticò di lui. Un forestiere alto e forte, che parlava con voce da padrone e con un linguaggio d’altre terre, smontava di tanto in tanto all’alberguccio, mettendolo ogni volta in subbuglio. Egli era già vecchio, ma la sua fama d’uomo ricco lo circondava come d’un’aureola d’oro, e d’altronde era ancora più forte e vigoroso di tanti giovani che Marielène conosceva; tanti giovani magrolini e di statura così bassa che neppure il re li accettava per suoi fantaccini. Un giorno ella gli servì una pietanza così squisita che egli sollevò gli occhi azzurri distratti e domandò:
— L’hai fatta tu, di’, ragazza?
— Missignorìa2 sì!
— Brava, ti voglio regalare un libro.
Il libro che le regalò era Il Cuoco moderno, e l’ostessa lo sfogliò a lungo e diventò gelosa della servetta.
Ogni volta che Mossiù Perrò scendeva alla locanda, Marielène studiava il libro e preparava una pietanza nuova: e un giorno anche lui domandò di chi essa era figlia, e quanti anni aveva. L’ostessa disse con malignità: «non ha ancora compiuto il ventun anno,» ma egli rispose che voleva domandare ai genitori di lei il permesso di prenderla con sè per cuoca.
L’ostessa predisse a Marielène:
— Tu la finirai male se vai con quel gallo lì!
Ma nonostante i pettegolezzi della sua padrona, Marielène seguì lo speculatore a Nuoro e le parve di cominciare una vita nuova. Il Perrò stava quasi sempre fuori di città e non le dava alcuna molestia, ma una sera d’inverno, dopo che ebbe assaporato con voluttà un buon pranzo preparato dalla giovane cuoca, egli sedette davanti al camino e la chiamò, e quando ella si avvicinò la costrinse a sederglisi sulle ginocchia e le disse:
— Non spaventarti: se tu non vuoi non ti tocco, e domani puoi andartene. So che hai già avuto un amante. Ora sei sola, e anch’io son solo, carina, e non ho figli: mia moglie non ha mai voluto seguirmi; ci siamo quindi separati legalmente, e forse riuscirò a far annullare il nostro matrimonio. Io sono più libero di uno scapolo e lascerò tutti i miei averi a te. Tu hai ventun anni compiuti, adesso, e puoi fare quello che vuoi. Vuoi darmi un bacio?
Ella non rispose; che poteva fare, dove poteva andare? Lasciò che il padrone la baciasse, ma quando egli la condusse nella sua camera e le mise al collo un monile di zecchini, ella, accorgendosi che la collana era fatta di monete, gliela restituì. Non voleva esser pagata.
Passarono gli anni. Lo speculatore non riparlò più di far annullare il suo matrimonio; ma ella viveva nella certezza di passar tutta la sua vita con lui, di raccoglierne l’eredità, e di piangerlo dopo morto come si piange un buon marito. Egli amava le donne, ma ella non era gelosa perchè non era innamorata di lui: d’altronde egli invecchiava, diventava sempre più goloso e casalingo, ed ella s’accorgeva d’essergli sempre più necessaria. Ed ecco, ad un tratto, come il tizzo che sembra spento e dà all’improvviso un’ultima fiamma, egli s’era incapricciato di Sebastiana. Diffidente e astuta, Marielène nascose a lungo la sua gelosia; ma un giorno, fingendo uno scrupoloso interesse per la ragazza che ella aveva quasi allevato, chiamò la maestra Saju e la pregò di ritirare presso di sè la figliuola.
— Io non rispondo più di lei. È troppo bella, e tutti la tentano.
Ma la maestra Saju rispose che non poteva attaccarsi la figliuola alla cintola, e che preferiva lasciarla in casa del padrone, poichè ella era costretta ad assentarsi spesso di casa sua, e avrebbe dovuto quindi lasciar sola Sebastiana.
Ma per salvaguardare in qualche modo sua figlia, ella cominciò a dire a tutti che avrebbe querelato come corruttore di minorenne chiunque avrebbe tentato di sedurre Sebastiana; e Marielène si sentì alquanto tranquilla, ricordando che il Perrò aveva atteso che ella compisse i ventun anni per innalzarla dal grado di cuoca a quello di favorita. Ma fra lei e Sebastiana cominciarono le scene di gelosia, le liti, i pettegolezzi, le perfidie; e un giorno lo speculatore disse che se continuavano a seccarlo le cacciava via di casa tutte e due. Marielène gli domandò perchè non mandava via Sebastiana; egli le diede uno schiaffo.
— Tutte e due! Andatevene! — urlò. Ma nè l’una nè l’altra se ne andarono.
Quando si fu calmato, egli disse a Marielène, che piangeva piegata ai piedi di lui come una schiava:
— Tu non mi vuoi più bene ed hai ragione; tu sei giovane ancora ed io sono vecchio. Se tu mi volessi ancora bene non mi faresti queste scene. Per la tranquillità di entrambi occorre che tu prenda marito; e se conosci qualcuno che ti piace, dimmelo; assicurerò il tuo avvenire.
Ella piangeva e urlava, strappandosi i capelli come aveva visto fare alle prefiche nelle cerimonie funebri del suo paese; ma egli la pregò seccamente di alzarsi e di uscire, ed ella uscì e vide Sebastiana che s’allontanava dopo aver origliato dietro l’uscio.
Dopo quel giorno ella mise in opera tutte le sue arti di amante e di cuoca per tenersi buono il padrone; ed egli mangiava e beveva, ma non si commoveva. Per quanto spiasse, ella non riusciva ad accertarsi se fra lui e Sebastiana esistevano già relazioni intime; ma sentiva che oramai tutto era finito, per lei. La dichiarazione del capo‐macchia, l’arrivo di Predu Maria, le voci vaghe che le venivano riferite, tutto la indispettiva: le sembrava che tutti raggirassero contro di lei; e andò da una fattucchiera che sapeva consultare le carte e le carte risposero che tra poco il padrone l’avrebbe abbandonata.
Vedeva la sua rivale entrare spesso nel cortile di Antonio Maria e capiva che là dentro si tramava qualche cosa contro di lei, e per vendicarsi mandò a dire alla maestra Saju che Sebastiana aveva dei convegni amorosi nella casa del Moro.
Il colloquio con Predu Maria finì di esasperarla. Buttata sui gradini della scala ella aspettava il ritorno della rivale, decisa a non lasciarla rientrare. Le sembrava di aver finalmente la prova della perfidia che si tramava contro di lei; e l’odio, la certezza che oramai tutto era perduto, le pungevano il cuore. Si sentiva sola, abbandonata, più misera di quando, bambina, doveva provvedere alla sua di sgraziata famiglia; ma appunto questo senso di solitudine e di abbandono le dava un selvaggio desiderio di lotta, la forza feroce della tigre ferita.
Quando il passo provocante di Sebastiana risuonò su per le scale, ella balzò in piedi, ma subito tornò ad accovacciarsi, mettendosi come in agguato, mentre un brivido di rabbia le faceva battere i denti e il suo volto diventava verdognolo.
— Vattene, senti! Vattene subito, — disse sottovoce, quando Sebastiana le fu davanti.
— Perchè?
— Vattene, ti dico, se non vuoi pentirti. È meglio per te e per me. In questi pochi momenti ho saputo molte cose: ho saputo quello che hai detto e quello che hai intenzione di fare. Ma tu, bella mia, hai fatto male i conti. Può darsi che ti riesca, il tuo progetto, ma può anche darsi che non ti riesca.
— Io non so quello che dici. Lasciami passare e lasciami in pace!
— Tu non rientrerai qui, finchè ci sarò io!
— Tu non sei la padrona, qui! Io non ho fatto alcun male e tu non hai diritto di cacciarmi via.
— Ah, io non sono la padrona? Ora te lo farò vedere. Vattene o ti butto dalle scale.
— Prova a toccarmi!
Marielène tremava tutta e si afferrava alla ringhiera della scala quasi avesse paura di cadere.
— Sebastiana, vattene! — disse, quasi supplichevole. — Ti ripeto, è meglio. Se tu sali un altro scalino io non rispondo di me. Mi vedi? Sono come pazza: e coi pazzi non si ragiona.
— Io non ti ho fatto nulla! Se tu credi ai pettegolezzi peggio per te.
— Io credo ai fatti: credo ai miei occhi! Tu fai del male a te stessa; te ne accorgerai un altro giorno!
— Se faccio del male a me stessa infischiatene! Pensa ai casi tuoi.
— Appunto perchè penso ai casi miei ti parlo così. Io ti ho allevata: io ti ho tenuta sempre come una figlia. Che male ti ho fatto io, ti domando, dimmi, che male? È forse stata tua madre, ad allevarti? Essa ti ha quasi buttato via, non ha mai pensato a te.... Ma tu non ricordi nulla.
— Io ricordo che ho sempre lavorato: tu mi hai comandato, il padrone mi ha pagato. Non ti devo nulla, e non c’è ragione che tu ora mi scacci via.
— Io non ti scaccio, — replicò Marielène, — io ti dico solo che è meglio per te e per me separarci. Vattene adesso che sei ancora in tempo.
— Eh, se vuoi che ci separiamo puoi andartene via, tu!
— Sebastiana! Non provocarmi, — gridò Marielène con uno strido di rabbia; ma subito riabbassò la voce: — tu sei ancora una bambina e non capisci quello che fai. Va da tua madre, ti prego. Tu l’hai già detto a molti, che fra poco doveva andarmene io; ma prima di me devi andartene via tu, da questa casa! Vattene prima che sii contaminata....
Sebastiana si slegò il fazzoletto e lo prese in mano e lo sbattè come il toreadore agita la bandieruola prima di affrontare il toro.
— Contaminata? — urlò con voce cupa.
— Io? Io?... Contaminata dal tuo contatto.... solo da questo.... vecchia bestia! Vattene tu! Vattene! Io resterò qui, e ne uscirò solo per sposarmi.... e tu schiatterai....
— Sposarti? Con chi? Col padrone? Ah! Ah!
— No, no, con un altro che a te piace più del padrone. Più giovane, più fresco di lui!
Marielène ricordò allora che Sebastiana si vantava d’essere amata da Bruno.
— Tanto meglio! — disse con ironia, — ma adesso va da tua madre....
— Eh, lascia stare mia madre! Se essa mi ha abbandonato a me stessa, come tu dici, o presso una donna come te, peggio per l’anima sua!
— Come? presso una donna come me? Che hai tu da rinfacciarmi? Ti ho forse dato io i cattivi consigli?
— Ma se dicevi che pensando ai casi tuoi davi avvertenze a me? Proprio tu; donna di dare avvertenze, tu!
Marielène balzò in piedi, guizzante come una fiamma, e si curvò e protese i pugni.
— Non provocarmi oltre, vipera! Io sono una donna onesta, più onesta di te quando ancora eri nel seno di tua madre! Io non mi sono venduta, come tu ti vuoi vendere! Io ho avuto un cuore, mentre tu hai un serpente, in petto! Io non farò la fine miserabile che farai tu! Vattene!
Sebastiana strinse i pugni come per provare la sua forza; buttò il fazzoletto per terra e si slanciò su per i pochi scalini che la dividevano da Marielène, ma vide che questa, invece di aspettarla correva nello studio del padrone e staccava dal muro una pistola, ed ebbe paura e ridiscese di corsa le scale.
Sentì la rivale correrle dietro ansando e mugolando: diede un urlo di terrore e balzò fuori. Marielène chiuse la porta, e nel risalire le scale prese il fazzoletto come un trofeo di vittoria. Per il momento aveva vinto.