V - Fragole e ale di pollo

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IV VI

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Capitolo V.

Fragole e ale di pollo.

Erano le undici e mezzo, e nella sala da pranzo non c’era nessuno ancora, fuorchè Giggia, la profuga dai chiari occhi idioti. Ella, senza pudore, essendo già l’ora di servire in tavola, infilava i suoi piedi nudi nelle calze.

— Voi che state facendo? — domandò Pasquà a Beatus.

— Caro Pasquà — rispose Beatus —, vorrei fare colazione, e mi è sembrato di sentire dalla cucina un odorino di brodo. Avete messo un pollo nella pentola?

Ce steva — disse Pasquà — ma sono venuti due operai e se l’hanno magnato.

— Due operai hanno mangiato un pollo?

Eh, caro signore — rispose Pasquà — mo’ i polli li magna chi lavora.

E allora entrò Carmè, la bianca, con un cestello di fragole. [p. 34 modifica]

— Oh, le bellissime fragole — esclamò Beatus.

— Queste non sono per voi — disse Pasquà.

— E perchè?

Questa è una cosa troppo fina, e co’ zucchero e co’ cugnac, meno di quattro lire non ve le posso dà. È roba da cocottes che ponno pagà. E poi scusate; mo’ che la gente soffre la fame e muore in guerra, vui andate cercando le fragole? Vui siete gentiluomo!

E queste parole furono proferite in tono di rimprovero.

Ora, siccome Beatus girava appunto l’Italia per rimproverare altrui, così gli dolse esser rimproverato dall’oste, e domandò:

— Come fate a sapere che io sono un gentiluomo?

Ih, si vede! V’aggio domandato il nome? Se siete profugo, internato, se siete francese, chi siete, che cosa siete venuto a fare in questo paese? V’aggio presentato il conto? Vui siete gentiluomo e basta! Vedete quella tavola? Mo’ arrivano le cocottes.

Una compagnia d’operette agiva in un piccolo teatro lì presso, e Pasquà chiamava, senza cattiva intenzione, col nome di [p. 35 modifica]cocottes o di ciantose ogni donnina un po’ eteroclita.

Assettateve, assettateve, che mo ve porto una minestrina di verdura, che va bene per vui.

Realmente Pasquà aveva dato a Beatus una lezione di sociologia: mangiano delicatezze coloro di cui la società ha bisogno: operai e cocottes.

Un fruscio di seta, un incrociarsi di voci e di risa avvertì Beatus che le cocottes o ciantose erano giunte.

Entrarono con passo di danza e occhi sfacciati. Seguivano due giovanotti alti e membruti, stilati all’ultima moda; ma parlavano come Pasquà. Le signorine parlavano con la voce sguaiata del palcoscenico.

Pasquà, derogando al suo costume, prese lui i servizi di mensa e cominciò: — Mo’ ve servo ’na supressata di verace maiale «Eccellentissimo!», significò trivellando la gota.

Ma non ottenne il meritato successo di approvazione perchè i due giovanotti [p. 36 modifica]consultarono prima le ciantose, e si sentì la voce di Pasquà che aveva perso la pazienza e disse: — Più fine? Più fine di vermicelli con le vongole che v’aggio a dà?

A Beatus, Pasquà fece portare la minestrina di erbe cotte. Mangiando la quale, Beatus si ricordò di quel sapientissimo Esiodo, quando dice: «Stolti gli uomini, che non sanno quanto maggior guadagno sia cibarsi di malve e di asfodelo che di opere ingiuste» Vero! Ma è seccante aver vicino chi mangia pollo e fragole.

Nell’attesa degli spaghetti con le vongole, le due ciantose si tolsero i cappelli e i mantelli. Poi aprirono le loro borsette, ne levarono piumino, specchietto, lapis e cominciarono a ritoccarsi il volto come in casa propria.

I due giovanotti assistevano all’operazione con molta serietà.

Per quello che Beatus poteva distinguere, le due ciantose erano due babbuine dipinte: carni un po’ travagliate, roba di terzo ordine. Pretesa di gran mondane, come i piumacci dei loro cappelli avean pretesa di colibrì. Uno dei visetti era mantecato all’alchermes, l’altro al pistacchio. Se avessero avuto più senno, [p. 37 modifica]si dovevano mantecare allo stesso modo. Ma forse pei due provinciali erano più interessanti così.

Una di esse, d’un tratto, fece scattare contro i giovanotti la pompetta dei profumi. Il loro incanto di contemplazione fu rotto e parvero felici come bimbi a cui il giocoliere fa un bel giuoco. Chiusero gli occhi e accolsero in faccia l’acqua benedetta.

Ma quando Pasquà ebbe stappato la bottiglia, e versò il nero vino, fu dolcemente redarguito da uno dei giovanotti. Ma non dolcemente rispose Pasquà:

Vui pazziate, compà — disse. — Io vi apro una bottiglia che è una reliquia, e vui andate trovando ’a sciampagna!

Dopo gli spaghetti e il vino fumoso, il simposio si animò.

Beatus sentì uno dei giovanotti che diceva a una delle ciantose: — Facite vede!

Era il modo come esse tenevano la forchetta.

Si provarono essi, ma non vi riuscirono.

La vostra maniera è aristocratica — disse uno —, ma accussì non se ponno magnà li vermicelli. [p. 38 modifica]

Una ciantosa intonò:

         Mi chiamano Mimì
         il perchè non so.

I due giovanotti si distesero estasiati come due grossi cani a cui si faccia una carezza.

Beatus provò un senso di nausea a quel romanticismo da strapazzo.

Ma il passaggio al realismo fu rapido, chè una delle ciantose disse forte ad uno dei due giovani: cochon, mon petit cochon.

Parve al giovane parola gentile e se la fece spiegare. La spiegazione fu data all’orecchio e piacque tanto che il giovane diè in uno sguaiato scoppio di risa. Allora anche l’altro giovane reclamò la sua porzione, e le due ciantose la diedero in toscano: — Schifosino, schifosetto, schifosone!

Ma quando le due ciantose dissero:

— Imboscato, imboscatissimo! — i due giovani mostrarono di non gradire molto.

— Ma se non c’è nessuno! — disse una delle due ciantose.

Il giovane ammiccò a Beatus.

Le ciantose volsero verso quella parte l’occhio protervo, videro l’omiciattolo e [p. 39 modifica]alzarono le spalle, come a dire: «quello lì non conta».

E proprio non doveva contare, perchè quando furono portate le fragole, una delle ciantose si metteva una fragola fra le labbra e se la faceva togliere da uno dei due. Assaporava costui e diceva: — Mo è condita più meglio che con la cugnac. Prova anche tu, compà. Questa sta la moda de Pariggi.

Et ultra! parve assentire la compagna.

Beatus credette opportuno togliersi di lì.

Egli, l’illustre pedagogista, aveva assistito ad una lezione delle più squisite grazie francesi.

— Sono gentiluomini anche quei due? — domandò Beatus a Pasquà.

Ih, che dicite! Quello biondo, prima della guerra, faceva o scarpariello, e mo fa il negoziante di scarpe de cartone pei soldati; quello più anziano ha fatto un sacco di danari coi fichi secchi pe’ Governo. Non sono gentiluomini come me e come vui: sono plebbe, ma tengono alte amicizie. Ma stateve [p. 40 modifica]buono, signorì; per questa sera v’aggio stipato due fragole.

Veramente le fragole erano diventate odiose a Beatus.

«Dicono, — rispondeva Beatus mentalmente a Pasquà — che la sociologia sia una scienza moderna; ma Esiodo, benchè vissuto tanti secoli fa, ne sapeva almeno quanto Vilfredo Pareto».

Pasquà ora serviva caffè e rosoli. Ma tornò indietro subito col vassoio:

Vogliono il caffè in to giardino, sotto il bersò.

— Caro Pasquà, — gli disse Beatus — l’aristocrazia non prende mai il caffè dove ha pranzato.

Ma Beatus sul tavolo di Pasquà vide una lettera e disse: — Questa è per me.

E se è vostra, pigliatevella.

— Ma quando è arrivata?

Ma che saccio io quando è arrivata! Domandate al portalettere. Vui volete sapè tutte cose. Ringraziate Iddio che è arrivata.

Era il caso di osservare a Pasquà che lui era poco gentiluomo; ma era così arrabbiato per quei signori là, sotto il bersò.