Il libro del Cortegiano/Varianti

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Libro quarto Annotazioni

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ALCUNI PASSI DEL CORTEGIANO

diversi dallo stampato,

TRATTI DAI MANOSCRITTI ORIGINALI DALL’ABBATE PIER ANTONIO SERASSI.


PROEMIO DEL CORTEGIANO

a messer alfonso ariosto

Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual di due cose più difficil mi fosse; o il negarvi quello che con tanta instanza e per parte di un tanto Re più volte mi avete richiesto1, o il farlo. Perchè da un canto parevami durissimo negare alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona che io amo sommamente, e da chi sommamente mi conosco essere amato; aggiungendosi il desiderio e comandamento di così alto e virtuoso principe: dall’altro ancor pigliare impresa, la quale io conoscessi non poter perfettamente condurre a fine, non mi pareva convenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si devono. Al fine dopo molti pensieri ho eletto più presto esser tenuto poco prudente ed amorevole per compiacervi, che savio e poco amorevole per non compiacervi.

Voi adunque mi ricercate che io scriva, qual sia al parer mio quella forma perfetta e carattere di Cortegianía, che più si convenga a gentiluomo che viva in corte di principi, e che possa e sappia perfettamente servirli con dignità in ogni cosa laudevole, acquistandone grazia da essi e da tutti gli altri; in somma, di che sorte debba essere quello che meriti chiamarsi perfetto Cortegiano, tanto che cosa alcuna non vi manchi. Il che veramente difficilissima cosa è tra tante varietà di costumi, che si usano nelle corti di Cristianità, eleggere la più perfetta forma e quasi il fior di questa Cortegianía; perchè la consuetudine fa a noi spesso le medesime [p. 308 modifica] cose piacere e dispiacere; onde talor procede che li costumi, gli abiti, riti e modi che un tempo sono stati in prezzo, divengono vili; per contrario li vili divengono pregjati. Però si vede chiaramente, che l’uso più che la ragione ha forza d’introdurre cose nuove tra noi, e cancellare l’antiche, delle quali chi cerca giudicare la perfezione, spesso s’inganna. Conoscendo io adunque questa e molt’altre difficultati nella materia propostami a scrivere, sono sforzato a fare un poco di escusazione, e render testimonio, ch’io a tal impresa posto mi sono per non poter disdire, e più presto con volontà di esperimentare, che con speranza di condurla a fine: il che se non mi verrà fatto, voglio che ognuno intenda, questo errore essermi commune con voi, acciò che ’l biasimo che avvenire me n’ha sia anco diviso con voi; perchè non minor colpa si dee estimare la vostra, l’avermi imposto carico alle mie forze disuguale, che a me lo averlo accettato. Ma penso che l’errore del giudicio mio debba esser compensato con la laude d’avere obedito alle vertuose voglie del Re Cristianissimo, al quale non obedire saria grave fallo; attesoché felici chiamar si possono tutti quelli, a’ quali esso comanda. E se a Sua Maestà è parso ch’io a tal’opra sia sofficiente, troppo prosonzione sarebbe la mia, volere col negarlo correggere e quasi condennare il giudicio suo, il quale potria, quando io mai non fossi, farmi bastante ad ogni difficile impresa; tanto sarebbe lo stimolo di ben fare e tanta la confidenzia di me stesso che io pigliarei, sapendo tale opinione di me essere nell’alto core del maggior Re, che già gran tempo sia stato tra Cristiani. Però siccome molta laude mi serà il verificare questa credenza, molto maggior biasimo mi saria lo ingannarla, per la ingiuria ch’io al mondo farei, essendo causa che errasse colui il quale pare che errar non possa, per essere dotato di quelle divine condizioni, che così rade volte in terra tra’ mortali si ritrovano. Io adunque assai felice mi chiamo, essendo nato a tempo che lecito mi sia vedere un così chiaro Principe, che d’ogni virtute e di famosa grandezza possi non solamente agguagliare gli più celebrati che mai siano vissi al mondo, ma ancor superarli. [p. 309 modifica]

E piaccia a Dio, che questo animo eccelso e glorioso rivolga gli alti suoi pensieri a danni degli perfidi avversarii di Cristo; chè in vero un tanto Principe ragionevolmente sdegnar si deve di vincere minor nemico che un re di Asia e tutto l’Oriente, e far minor effetto che rimover dal mondo una così inveterata e potente setta, com’è la Maumettana. Nè ad altro più si conviene vendicare le ingiurie fatte alla fede di Cristo, che al Re Cristianissimo; e se questo nome meritamente si hanno acquistalo i suoi maggiori con le gloriose opere, e con tante vittorie che sempre saranno celebratissime, esso deve chiaramente mostrare a tutto il mondo di essere degno successore non solamente dello stato e del nome, ma ancora delle vertuti. E certo niente di più hanno avuto di grandezza, di regno, di tesoro, di uomini, li altri regi di Francia, che s’abbia questo; forse molto meno di valor d’animo e di buona fortuna, sotto l’ale della quale sempre felicemente combatteranno tutti quelli che seguir lo vogliono: e pur tante volte hanno portate le lor vittoriose insegne in Oriente, con gravissimo danno degl’Infideli. Chè, lasciando li maravigliosi fatti di Carlo Magno, molti altri principi della nazione franzese, come Gottifredo, Balduino, Ugo, passorno in Asia, e per forza d’arme soggiogorno dal Bosforo e Propontide fino allo Egitto, e nella santa città di Jerusalem posero la sede del suo regno. Ragione è adunque, che questo magnanimo principe s’indirizzi a tanta gloria non per esempii alieni, ma domestici, e segua gli onorati vestigi de’ suoi maggiori: dalli quali se l’Asia è stata con l’arme acquistata, e molti anni posseduta, non so come esso essendo vero crede, possa restar di non recuperarla dalle mani di chi con tanta ignominia, del nome cristiano la tiene occupata. E se lo acceso desiderio di gloria dentro nel magnanimo cuor del Cristianissimo così si nutrisce, come a tutto il mondo pare, debbesi sforzar di provedere, che una tal occasione di farsi immortale non gli sia di mano tolta: perchè niuna espedizione al mondo ha in sè tanto di laude e di onore, e così poco di fatica. Nè dirò quanto più vaglia la nostra milizia che la loro, e come in quella regione siano pochissimi lochi forti, e che tutta la Grecia e la maggior [p. 310 modifica] parte dell’Asia sia piena di Cristiani, li quali non aspettano altro nè altro con tante lacrime giorno e notte pregano Dio, che levarsi dal collo il giogo gravissimo di così misera servitute. Potria adunque, per questi e per altri rispetti, una così onorala preda movere l’animo di qualch’altro potente Principe; come già videro i padri nostri Mattia Corvino di Ungaria, il quale con dodici mila Ungari ruppe e disfece sessantamila Turchi, ed entrato nel lor paese con foco e ferro in gran parte lo rovinò, e con essi sempre mantenne mortal guerra, e così spesso li vinse e con tanta uccisione, che non osavano pur accostarsi al Danubio. Ma oltre gli altri stimoli che punger devono il cor del Cristianissimo, non è ancor asciutto il sangue di quelli poveri Franzesi, che all’età nostra così crudelmente e con tanti inganni furono morti a Metelin da questi perfidi cani; nè conviene a Sua Maestà lasciar quelle anime senza vendetta, e massimamente contra tali e così universali inimici. E se ’l re d’Aragona, che ancor vive, così lungamente ha avuta guerra con Infideli, e per forza subjugato il reame di Granata, e ridottolo alla fede di Cristo; dipoi, mandato esercito di là dal mare, con tanto onor della nazion spagnuola e danno de’ Mori, ha preso per forza porti e nobilissime città d’Africa: che pensiam noi che debba fare il Cristianissimo, giovane magnanimo, potentissimo, sull’arme, avendo inanzi agli occhi una molto più gloriosa impresa, cioè tutta l’Asia, e la recuperazione del Sepolcro di Cristo, della quale tante volte dagli suoi maggiori gli è stato mostrato il cammino? Seguasi dunque ormai dove chiama il cielo e la fortuna, e le meschine voci degli afflitti popoli cristiani di Grecia ed Asia, li quali tosto che il nome solo di Franza giunga tra loro, levarannosi in arme, ed apriranno il cammino a quella benavventurala vittoria, che agli vincitori darà fama immortale, ed agli vinti eterna salute: di modo che al Cristianissimo più presto incontra si verrà con feste, pompe, doni ed infinite ricchezze, delle quali più ch’altra parte del mondo quella regione è piena, che con armi.

E certamente già parmi vedere quel tanto desiderato giorno, che ’l Cristianissimo, dopo l’aver traversato tanti paesi, [p. 311 modifica] tanti mari, e vinto tante barbare e strane nazioni, e dilatato lo imperio e il nome suo per tutto il mondo, giungerà agli confini di Jerusalem. Qual felicità sarà che si possa agguagliare a quella, che Sua Maestà nell’animo tra sè dentro sentirà? Dopoi, quando cominciaranno da lontano apparire le alte torri della Santa Città, che pensieri, che voglie, che devoti affetti saranno quelli, che fioriranno nel suo magnanimo core! Che allegrezza in tutto lo esercito, il quale già inginocchiato parmi vedere con alta voce e pietose lacrime salutare ed adorare le benedette mura e la Santa Terra, nella quale con tanti divini misterii fu il principio della salute nostra! Quando poi in mezzo di tanti principi in abito regale a cavallo ornato accosterassi a quelle porte, e con le sue proprie mani onoratamente dentro vi riporterà come da lungo esilio quella Croce, che già tanto tempo li è stata vilipesa e in obbrobrio; appresso con la medesima pompa ed ordine armato, e senza pur levarsi di dosso la polvere o il sudor del cammino, se n’andrà al sacratissimo Sepolcro di Cristo, ed ivi prostrato in terra con tanta riverenza umilmente adorerà quel loco, ove giacque morto Colui che a tutto ’l mondo diede la vita: qual cor umano allor sarà, che in sè possa capere tanta allegrezza? qual animo che non desideri finir la vita, per non corrompere mai più questa dolcezza di qualche amaritudine? che fiumi vedransi di devotissime lacrime! che gusto d’immortale consolazione si sentirà! come parranno leggeri e dolci le passate fatiche del lungo cammino e della guerra! Questa è la vera gloria e vero trionfo, conveniente all’altezza di così nobil animo; questa è la scala per salire alla immortalitate in terra e in cielo. Ben desiderare si debbono li regni, i tesori, le grandezze, per poterne trar così onesti e gloriosi frutti.

O felicissimo ciascuno che potrà aver grazia, se non di vedere ed essere presente a così divino spettacolo, almen sentirne li ragionamenti da chi veduto l’arà! E certo niun altro desiderio mai sarammi tanto stabilito nel core, nè con maggior instanza dimanderò grazia a Dio, che di potere a tale impresa servire il Cristianissimo, vedendo con gli occhi proprii e forse scrivendo una parte di così gloriosi fatti, e [p. 312 modifica] compagnando con l’arme l’alta persona, per servigio della quale molta gloria e grazia mi serà spendere questa vita, che più nobil fine aver non potria. E benché io sia certissimo nè con la penna nè con l’arme poter mai accrescer laude a tanta laude, come nè ancor i picciol rivi accrescono acqua al mare: pur penso che ’l buon volere mio debba meritar commendazione; perchè Dio così ha grato un denaro offertoli di buon core da un povero mendico, come un gran tesoro da un ricco signore.

Frattanto se per sorte, messer Alfonso mio, vi parrà mai trovare il Cristianissimo disposto a rilassar l’animo dalli maggiori pensieri, e quasi ad abbassar la mente e rivolgere gli occhi alle cose terrene: allor non v’incresca pigliar pena di fargli fede, come io, per quanto mi hanno concesso le debil forze mie, sonomi sforzato di obedirlo, scrivendo questi libri del Cortegiano; li quali quando io saprò essere pur solamente giunti al suo cospetto, crederommi di questa fatica avere conseguito grandissimo premio.


ALTRO PROEMIO DEL CORTEGIANO

tratto dalla prima bozza dell’Autore.


Non senza molta maraviglia può l’uomo considerare, quanto la natura, così nelle cose grandi come nelle piccole, di varietà si diletti. E cominciando da questa machina del mondo, la quale contiene tutte le cose create, veggiamo nel suo infinito corso sempre volgere il cielo; e benchè con perpetuo ordine par che giri, pure in quell’ordine ha tante mutazioni, che prima passano molte e molte migliaja d’anni, ch’esso in quel proprio sito si ritrovi, ove una volta è stato. Veggiamo poi li continui successi della notte al giorno, della estate alla primavera, dello inverno allo autunno, e le stagioni varie degli tempi, pioggie, sereni, freddi, caldi, appresso la permistione degli quattro principii, che noi chiamiamo elementi; il flusso de’ quali fa che la corruzione di una [p. 313 modifica] cosa sia generazione di un’altra, onde procede il nascimento ed incremento di tante erbe, piante, arbori, e di tanti varii animali in terra ed in mare, e ancor la destruzione di essi.

Queste medesime varietà veggiamo nel piccol mondo che è l’uomo; chè tra tanto numero d’uomini, li quali tutti sono di una medesima forma, non si possano trovare due, che totalmente siano tra sé simili nè di volto nè di voce, e molto manco di animo. In noi è ancora il continovo successo della notte al giorno, se non altrimenti, almen negli pensieri; benché nello spazio del nostro corso spesso le notti lunghissime e tenebrose senza lume di stella alcuno proviamo, e molto più torbidi e nubilosi giorni che sereni. Così in noi avemo tutte le varietadi delle stagioni dell’anno: chè nella tenera età puerile veggiamo quasi fiorire una lieta primavera, piena di fiori e di speranza, debole però e bisognosa di soccorso altrui, e spesso fallace; sentimo poi lo ardente fervore estivo della gioventù, la quale già gagliarda ci mostra frutti, ma non maturi, e le tenere raccolte in erba; appresso succede lo intepidito autunno della quieta virilità, il quale di noi porge quegli più mézzi frutti, che in vita nostra sperare si possino; vien poi il nivoso inverno della gelida vecchiezza, il quale in tutto di forza e vigore, e di quegli beni che tanto al mondo si desiderano, ci spoglia, non meno che si faccia Corea ed Ostro le conquassate e nude cime degli alberi nel più eminente giogo dell’Apennino. Ma oltre a queste ordinarie e note varietà, che la natura per suo consueto corso produce, veggiamo li siti de’ paesi per lunghezza di tempo mutarsi, e pigliare nuove forme; onde lo Egitto, che già fu mare, ora è terra fertilissima; Sicilia, già congiunta con Italia, ora è dal mare divisa; medesimamente Cipro con Soria, Euboea con Beozia; e mollti lochi che già furono insule, or sono terra continente; e molti fiumi, che ’l suo antico corso hanno mutato. Non veggiamo noi il ghiaccio per ispazio di tempo divenire cristallo? e negli altissimi monti spesso trovarsi granchi e conche marine già sassificate; la qual cosa è assai fermo argomento, in quella parte essere altre volte stato il mare? Che direm noi, che mi raccorda aver veduto un legno, una parte del quale era pietra, e dove l’uno con [p. 314 modifica] l’altro si congiungeva era una mistura, che nè legno nè pietra dir si poteva, e pur era l’uno e l’altro! Vediamo tante nobilissime città distrutte, Troja, Sparta, Micene, Atene; e molt’altre, che già fur vili, ora essere fiorentissime. Roma, che già fu regina del mondo per la virtù dell’arme, e temuta fin negli estremi confini della terra da tante barbare e strane nazioni, ora solo si nomina per la religione, ed è abitata da gente in tutto alienissima dall’arme. Lo emporio quasi di tutto il mondo, che un tempo fu in Oriente, ora è trasferito alle parti di Occidente e Settentrione. E non solamente nelle città, siti, e paesi si veggono queste mutazioni, ma negli costumi ancora della vita umana; chè, oltra li diversi modi che ora si tengono da quelli che soleano tenere gli antichi circa il governo delle republiche, e delle cose dell’arte militare, dello espugnare e difendere le città, degli abiti e vestimenti, di riti, leggi e instituti d’ogni sorte, grandissima diversità si conosce nel modo del conversare; e molti sono ora degli costumi antichi, che fur già pregiati assai, che a noi pajono inetti e mal composti: e ciò procede dall’uso, il quale la natura come ministro adopra in introdurre cose nuove tra noi e scancellare le antiche, e con l’usare e disusare fa le medesime a noi piacere e dispiacere, approbandole e riprobandole non con altro testimonio, che con la consuetudine.

Però tra l’altre cose, che nate sono a’ tempi oltre li quali noi abbiam notizia, e non molto da’ nostri secoli lontani, veggiamo essere invalsa questa sorte d’uomini che noi chiamiamo Cortegiani, della qual cosa quasi per tutta cristianità si fa molta professione: chè, comechè da ogni tempo siano stati gli principi e gran signori da molti servitori obediti, e sempre n’abbiano avuti dei più cari e meno cari, ingeniosi alcuni, alcuni sciocchi, chi grati per il valore dell’arme, chi nelle lettere, chi per la bellezza del corpo, molti per niuna di queste cause, ma solo per una certa occulta conformità di natura; non è però forsi mai per lo addietro, se non da non molto tempo in qua, fattasi tra gli uomini professione di questa Cortegianía, per dire così, e ridottasi quasi in arte e disciplina come ora si vede; talmente che come d’ogn’altra scienza, così ancor di questa si potrebbono dare [p. 315 modifica] alcuni precetti, e mostrare le vie per conseguirne il fine, quale noi estimiamo che sia il sapere e potere perfettamente servire e con dignità ogni gran principe in ogni cosa laudabile, acquistandone grazia e laude da esso e da tutti gli altri.

E perch’io ormai, vinto dalle continue preghiere vostre, penso di scrivere, secondo il mio debole giudizio, quello che con tanta instanza e lungamente m’avete richiesto, cioè quale sia quella perfetta forma e carattere di Cortegianía, e di che sorte debba essere quello che meriti chiamarsi perfetto Cortegiano, tanto che nulla non vi manchi: sono sforzato fare un poco di escusazione del mio forsi temerario proponimento, acciò che ognuno intenda, me aver accettata questa impresa più presto con volontà di esperimentare, che con isperanza di condurla a fine; ma voglio fare questo piccolo testimonio, che io da voi sono stato sforzato a scrivere, acciò che sendomi questo errore commune con voi, se io non potrò escusarmene a bastanza, minor biasimo sarà il mio così diviso, che non seria se tutto sopra di me fosse; essendo non minor colpa la vostra d’avermi imposto carico alle mie forze diseguale, che a me lo averlo accettato.

Temo ancora, s’io esprimo quello che voi mi imponete, cioè questa perfetta forma di Corlegiano, la quale io più presto spero poter dire che veder mai in alcuno, ritrarrò molti, i quali, diffidandosi di poter giungere a questa perfezione, non si cureranno averne parte alcuna; la qual cosa io non vorrei che accadesse, perchè in ogni arte sono molti lochi oltre il primo laudevoli, e chi tende alla sommità rade volte interviene che non passi la metà. Oltre che io non dico chi sia questo Cortegiano, ma quale dovria essere quello perfetto; il quale io non ho mai veduto, e credo che mai non sia stato, e forsi mai non serà: pur potria essere. La idea dunque di questo perfetto Cortegiano formaremo al meglio che si potrà, acciò che chi in questa mirerà, come buono arciero si sforzi d’accostarsi al segno, quanto l’occhio e il braccio suo gli comporterà: il che molto meglio potrà fare proponendosi un objetto, che se non avesse la fantasia indrizzata ad alcuno terminato fine. Ma difficilissimo è in ogni cosa esprimere [p. 316 modifica] quella più perfetta forma; e questo, per la varietà de’ giudicii, come nell’altre cose, così ancor in questa nostra materia: chè sono molti a cui serà grato un uomo che parli assai, e quello chiameranno per piacevole; alcuni si dilettaranno più della modestia; alcuni altri di un uomo più attivo; e già sonosi trovati di quelli che hanno avuti grati soli quelli che dicono mal d’altri: e così ciascun lauda e vitupera secondo il parere suo, sempre coprendo il vizio col nome della propinqua vertù, e la vertù col nome del propinquo vizio; come un prosontuoso chiamarlo libero, un modesto arido, un nescio buono, un scelerato prudente, e così nel resto. Pur io estimo in ogni cosa esser la sua perfezione, avvegnaché nascosta, e questa potersi conoscere da chi di tal cosa s’intende. Ma, per venire a quello ch’è nostra intenzione, ho pensato, rinovando la grata memoria d’un felice tempo, recitare certi ragionamenti atti a quello che noi intendemo di scrivere; li quali sforzaròmmi a puntino, per quanto la memoria mi comporta, ricordare, acciò che conosciate quello che abbiano giudicato e credulo di questa materia singolarissimi uomini, i quali io tra gli altri ho conosciuti d’ogni egregia laude meritevoli.


MOTTO DI BERNARDO BIBIENA.

(Lib. II, cap. LXIII, pag. 135, lin. 55, dopo le parole
Passi la Signoria Vostra. — )

Andando io ancor da Firenze a Siena, ed essendo già l’ora tarda, dimandai un contadinello, s’ei credeva ch’io potessi entrare dentro della porta; ed esso subito, con volto meraviglioso e sopra di sè, mi rispose: — E come dubitate voi di non potervi entrare? v’entrarebbono due carri di fieno insieme. —

DI PAPA GIULIO II.

(Lib. II, cap. LXIII, pag. 136, lin. 18, dopo le parole in Bologna.)

Quando ancor il Papa a questi di andò a Bologna, giunto in Perugia, ad uno de’ suoi antichi servitori morì una mula, [p. 317 modifica] qual sola avea. Gli altri compagni, desiderosi che il Papa gli rifacesse questo danno col donargliene un’altra, subito gli lo dissero. 11 Papa allora fecesi chiamar questo servitore, e dimandogli come così gli era morta la mula, e di che male. Esso rispose: — Padre Santo, credo sia stata la crudezza di queste acque di Perugia, che le hanno generati dolori, onde ella si è morta. — Allor il Papa, mostrando che molto gl’increscesse, e quasi che rimediare volesse, fatto chiamare il suo maestro di stalla, in presenza di quello e di tutti gli altri, che aspettavano certissimo che volesse comandare che se gli desse una mula, disse: — Noi intendemo, che queste acque sono molto crude e nocive alle bestie; però volemo che tu abbi rispetto alle nostre; e perchè non patiscano, fa che bevino l’acqua cotta. —

DEL CONTE LUDOVICO DA CANOSSA.

(Lib.II, cap. LXXVIII, pag. 148, lin 5, dopo le parole abito da savio. — )

Disse ancora ad un altro, che dicea che non osava andare a Napoli, perchè sapeva certo che quelle Regine non lo lascieriano di poi partire, e fariano guardare li passi: — Tu le potrai gabbare benissimo; perchè esse hanno concesso per una sua patente licenza a Monsignore di Aragona di cacciare buon numero di cavalli del reame: e però tu ancor potrai metterti in frotta con quell’altre bestie, e passerai sicuramente. —

LODI DI FRANCESCO MARIA DELLA ROVERE.

(Lib.IV, cap.II, pag. 241, lin. 27-35, invece delle parole il Signor Francesco
Maria Rovere fino a lodevoli costumi.
)

Fu ancora il signor Prefetto Francesco Maria della Rovere fatto duca d’Urbino; benché molTo maggior laude attribuire si possa alla casa dove nutrito fu, che in essa sia riuscito così raro ed eccellente signore in ogni qualità di virtù, come or si vede, che dello essere pervenuto al ducato d’Urbino. Nè credo che di ciò picciol causa sia stata la nobile e rara compagnia, dove in continua conversazione sempre ha veduto ed udito lodevoli costumi; chè in vero senza altro ajuTo che di natura non pare che credere si possa, che [p. 318 modifica] in un giovane sia congiunto con la grandezza dell’animo un tanto maturo e prudente consiglio, così nell’arme come nel governo de’ stati, e in tutti li discorsi umani: chè, oltre la deliberata volontà ed inviolabile proponimento verso la giustizia, e mill’altre meravigliose condizioni, chi vide mai in signore di età di ventitré anni2 tanta continenza, che non solamente da ogni atto lascivo e disonesto si astenga, ma dalle parole e da ogni cosa che generar ne potesse sospizione sia alienissimo? Nè però questo è proceduto perch’egli abbia l’animo tanto austero, che aborrisca quello che naturalmente ognuno desidera; anzi di teneri e dolcissimi costumi insieme con la modestia è tutto pieno. E già più ch’una volta raccordomi averlo veduto fieramente d’amore acceso, od in questa passione aver fatto quello che così rare volte e con tanta difficoltà si fa, che per impossibile da ognuno è giudicato: e questo è, lo essere inamorato e savio, e metter legge e misura a quelli desiderii che patire non la possono; e non solamente negli gran signori, aflli quali la libera commodità e la vita deliziosa danno gran licenza e causa di peccare, ma spesso traporta e sforza gli animi de’ poveri e bassissimi uomini ad incorrere in gravi errori. Chi adunque può tanto di sé stesso, che domini e governi con ragione gli proprii appetiti, e massimamente quando hanno più forza, è ancor conveniente credere, che possi e sappia con la medesima ragione molto meglio governare gli popoli, come ben se ne vede nel signor Duca esperienza. —

LODI DI Federico GONZAGA, MARCHESE DI MANTOVA.

(Lib. IV, cap. XLII, pag. 276, lin. 7-29, invece della parole Rispose
il Signor Ottaviano fino a questa vostra speranza. — )

Rispose il signor Ottaviano: Se il signor Prefetto non fosse qui presente, io direi pur arditamente, che esso di sè stesso promette ciò che desiderar si può di degno principe; ma per fuggir ogni sospetto di adulazione, non voglio laudarlo in presenza. Dico bene, che se ’l conte Ludovico nostro è così veridico come suole, un altro ne avemo ancora, del quale con ragione sperar si deve tutto quello ch’io ho detto convenirsi a quel supremo grado di eccellenza: e questo non [p. 319 modifica] solamente è nato, ma comincia già a mostrare della vertute e valor suo verissimi argomenti. — E qual è questo felice signore? — rispose il Frisio. Disse il signor Ottaviano: Il Federico Gonzaga, primogenito del Marchese di Mantua, nepote della signora Duchessa qui. — Allor il conte Lupovico, Io, disse, confesso, non aver mai veduto fanciullo, che in così tenera etate mostri maggior indole di questo, nè più certa speranza di pervenire al colmo di quella virtute eroica che ha nominata il signor Ottaviano: onde penso che non solamente nel dominio suo, ma in tutta Italia, abbia da rinovare il secol d’oro, del quale già tanto tempo fra gli uomini non si vede più reliquia. Ed io essendo a questi dì passati ito a Mantua, feci quel giudicio di lui che si scrive che già fecero di Alessandro certi ambasciatori del re di Persia; li quali, venuti alla corte di Filippo essendo esso absente, furono da Alessandro suo figliolo, che ancor era fanciullo, ricevuti onoratissimamente; ed intertenendoli esso domesticamente, come si suole, non gli adimandò mai cosa alcuna puerile, come degli orti o giardini, nè delle altre delizie del loro re, che in quei tempi erano celebratissime; ma solamente, quanta gente a piedi e quanta a cavallo potesse mettere alla campagna il re di Persia, e che ordinanza e modo teneano nel combattere, e in qual parte dello esercito stava la persona del re, e chi stavano con lui, e come aveano modo di levar le vettovaglie alli nemici che venissero in Persia da una banda, e come dall’altra, e come dì fare che a sè non mancassero, ed altre tai cose; di modo che quelli ambasciatori maravigliati dissero: Il nostro si può chiamare meritamente ricco re, ma questo fanciullo gran re; — e infino allora giudicorno, che avesse da essere quello che fu. Così io non senza chiaro indizio presi di questo fanciullo suprema speranza; chè, vedendolo ed udendolo ragionare, restai stupido, e parvemi comprender che la natura l’avesse prodotto attissimo ad ogni virtuosa grandezza. — Allor il Frisio, Or non più, disse; pregarem Dio di vedere adempita questa vostra speranza; ma date oggimai loco agli altri di parlare. —


  1. [p. 362 modifica]Da questo Proemio si vede, che il Conte s’era indotto a scrivere il suo libro per compiacere al re di Francia, e però [p. 363 modifica]si stende alquanto nelle sue lodi; ma essendosi poi dato interamente al partito degl’Imperiali, non solo perchè così portava l’interesse de’ suoi Principi, ma ancora per secondare il proprio genio, come si vede in più luoghi delle sue lettere: così gli convenne levar via tutto questo pezzo che apparteneva al re Francesco, tanto più che al finissimo suo giudizio dovea questa digressione parer troppo lunga, e alquanto fuor di proposito, massime sul principio del libro. Serassi.
  2. [p. 363 modifica]Pag. 318, lin. 6. — Da ciò si comprende, che il Castiglione avea già stesa gran parte del suo Libro nel 1514, in cui il duca Francesco compiva appunto il ventitreesimo suo anno, essendo nato li 24 marzo del 1491. Serassi. Più sopra, dal Proemio, dove si parla di Ferdinando il Cattolico come tuttora vivente, appare che fu scritto prima del gennajo 1516.