Il lago Fucino
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IL LAGO FUCINO.
Il magnanimo ardir del roman Prence,
Che, autore e duce, al Fucino segnava
La via d’abbandonar l’antiche rive,
Dando libero il corso all’onda chiusa,
Io canto. A te la prisca Roma invidia,
Alessandro, tanta opra, onde risuona
Per l’universo di Torlonia il nome,
E vincitrice un dì oggi a te cede.
Nel cuor d’Italia è un lago, l’alveo giace
Entro una valle ad alti gioghi in cima,10
E per miglia quaranta intorno gira;
Quivi affluisce dalle alpestri fonti
L’onda che vien da triplice torrente,
Ma, a carcere simil, natura cinge
Co’ suoi gioghi continui la palude,
E l’abbondante umor corso niuno
Da ogni parte trovando ivi si posa.
Pur talvolta de’ ceppi insofferente,
Come i flutti del mar, freme e trabocca
Sì che d’informe limo i campi asperge20
Ed al cultor l’opra dell’anno fura,
Trema il bosco d’Angizia, e a quel fragore
Di Marrubio la gente anco ne trema,
E le città ne’ Marsi monti ed Alba
E Cliterno e Cerfennia e i borghi tutti
Che guardan le campagne in preda al lago.
Di cui l’antica età con maraviglia
Guardò de l’onda la possanza, e il tenne
Qual nume, e un tempio consacrogli e un’ara.
Sovra il mondo suggetto omai posava30
Roma queta lo sguardo, ed efferata
Più non volgeva in sè l’empia sua destra,
Chè di Giano le porte con ferrate
Spranghe eran chiuse. Anco di Roma i padri
Con miglior senno rivolgean la mente
De’ campi a la coltura e sottoposte
Al proprio scettro a prosperar le genti;
Allor che leggi a l’universo domo
Claudio dettava, che dal Divo Giulio
Quarto prence scendea, desio d’imprese40
In mente benchè debil gli tenzona,
Che illustre e conto ne perpetui il nome.
I falliti disegni e i vani voti
Di Cesar ode e le dolenti note
D’Augusto al tempo ed il pregar de’ Marsi:
Da pungente desio spinto di lodi,
A sè chiama Narciso, cui qual donno
Prono è il gregge di corte, e de’ segreti
Del prence è il sol custode e sì l’incita:
Or di Pallade l’arte a noi fia d’uopo,50
O Narciso, ora usar forza d’ingegno,
Quale in me sorge per favor de’ Numi
Pensier tu ascolta; a me vuotar fia grato
Quella laguna che con l’onda infesta
È de’ Marsi il terror. Tosto lo stuolo
De’ servi fa chiamar: molti n’accoglie
Sin da l’estreme piagge dell’Impero.
Per ogni via per ogni piazza osservi
Di Roma ovunque brulicar la gente,
D’armi varie ciascun carche ha le spalle,60
E chi porta il piccone e chi la marra
Lo scalpel ed il trapano e il martello
E valide bipenni e cunei in mano.
Così, se a caso il vïator calpesti
La buca, ove pensando a la vecchiezza
Le formiche trasportano il frumento
Esse, pria sparse, in negra torma stringonsi,
E, rizzata la punta degli aculei,
Di qua di là, vanno, rivanno e subito
A la difesa da ogni parte accorrono.70
Giunsero dove un dì, siccome è fama,
Marso regnò su villereccia gente
Marso figliuol di Circe, onde il simile
Non v’ha nel risanar viperei morsi
In un balen con magica saliva.
Del gran monte a l’eccelsa meraviglia
In pria stupiscon, chè di qui lontano
L’aspra vetta sublime al ciel s’estolle,
Dominando da l’alto ogni cittade,
Perchè di corno in guisa gli astri assale,80
Bello a veder, del Gran Sasso la cima
Corno chiamâro; tanta è qui la mole
Che del padre Appennino a l’aura surge.
Di tutto il monte a le radici estreme
Si svolgono due fiumi inver l’occaso;
Quinci gli Equi traversa, e lento il piano
Reatin solca il Velino; il qual venuto
Là ’ve il pendio sovrasta al fiume Nera,
Fuor de l’alveo trabocca impetuoso;
S’infrange il gorgo ed al cader de l’acque90
Tremolando con vortici terribili
Lungi spruzza le spume infuriando,
E profondo un fragor ne va a le stelle.
Quindi si volge per Aurunca il Liri,
E va pe’ Volsci del Tirreno ai lidi,
Bagna Minturno e le paludi illustri
Perchè a Mario l’asil furo o lo scampo.
Di qua Narciso con dedalea mente
Pensa l’onda avviar della laguna,
Ma ostacol sorge a la superba impresa100
D’un gran monte la mole, cui diè nome
La salvia che vi nasce: allor Narciso
De l’arte sua ben memore, e tal vista
Non paventando: su, coraggio, esclama,
Convien del monte un varco aprir nel seno;
De’ Romani è il tentar le forti imprese.
Con lieti auspici or qui venite e il peso
Sopportar di tanta opra non vi gravi.
Così l’incuora, e quelli alacremente
Tosto dan mano all’opra, e chi col ferro110
Smuove la terra, e chi nel suol profonde
Fosse gareggia nel cavar con grande
Forza e di marra dan colpi robusti,
Altri il terren con corbe traggon fuora,
Fendon le dure pietre, e le tagliate
Querce sospingon. Le caverne ascose
Lo scarpellino esplora e un cieco varco
Dischiude, cede la percossa selce,
Mugghia lo speco al replicar de’ colpi.
E in altra banda sterminata schiera120
Forma su deschi il fango e in man lo volge,
E la cedevol massa di mattoni
Prende figura. Con orribil fiamma,
Da l’elce alimentata una fornace,
Avvampa negli ignivomi camini.
Un crepitar ne sorge e si solleva
L’atro vapore a le superne sfere.
Indi portano a schiere il cotto pondo
E ne carcan le spalle o n’empion carri;
Posa nessuna a la fatica è data,130
Scorre il sudor pel corpo a larghi rivi,
Per l’asse attrito ne geme la ruota.
Già de l’opera il mastro in arte esperto
In ordin pone que’ macigni immensi
Che entro l’aperto foro che li accoglie
Con gran lena sospingono dall’alto
Con girelle e con macchine e con funi,
L’ime basi con calce connettendo
Dell’acquedotto smisurato, e a volte
Affida de la rupe il grave incarco.140
Già nel percorso ciel, pe’ dodici astri
Scorrendo, il sol compiva il curvo giro
Per l’undecima volta, e monumento
Ergeasi di romana arte e di gloria
L’opra, che dentro al perforato monte
Per tre miglia s’allunga, con profondi
Pozzi tremendo speco apre sue fauci
Preste l’onda a ingoiar de la palude.
Un antro il credi negli inferni mani
Sospinto con titanico ardimento150
Dal proprio trono a discacciar Plutone.
È tempo omai che dall’antica stanza,
O Nettuno, divelto, estremo volga
Addio de’ Marsi al suol. Tosto che il grido
Volando udissi per l’Ausonie terre,
S’agitâr tutti, e la ridesta gente
Dagli uditi portenti ovunque a schiere,
Vuote lasciando le cittadi, il passo
Affrettano a cercar de’ Marsi i campi.
Claudio su l’onde a disparir vicine,160
Splendida gara infra due flotte pone.
Come egli appar di tirio manto adorno
Vedi tutto agitarsi, ed i propinqui
Colli echeggiar di plauso e di morore.
Tal voce alfin sovra l’altre risuona:
I disposti a morir, salve a te, Prence,
Gridano salve: ed Egli a lor: salvete.
Allor del re disprezza l’impaziente
Gioventude i comandi, e non vuol morte,
Nè la pugna ingaggiar, libera in vero170
Dal morir si credendo: onde ei sdegnoso
Di quà di là senza ritegno infuria,
E garrendo i restii, gli esorta l’armi
A prender minacciando e croce e fuoco.
A questi detti ogni pensier cangiâro,
E ad obbedir fûr presti. Ecco di fronte
Stan le navi di Rodi e di Sicilia;
Mostransi i duci sovra l’alte poppe
Folgoranti per ostro, e ripercosso
Da l’alto sol rifulge l’auro biondo,180
In ordin son sui banchi i remiganti.
Già l’argenteo Triton da l’ime uscito
Onde del lago i combattenti incita
Con la bellica tromba, l’aura echeggia
Di grida, e dan ne’ remi e l’onda ferva
Da le braccia agitata. In pria di dardi
Un nembo avventan, quindi orrenda mischia
Di spade incominciâro insiem ristretti,
De’ rostri a l’urto ne gemêr le navi.
Ahi vedi rosseggiar l’equoreo piano190
Di sangue asperso miserando; assai
È già la strage; bramosia non desta
Più la vista del sangue, e il nuovo affretta
Spettacolo la gente a suon di mani.
Già fende l’onda liquida su lieve
Legno Narciso istesso, aprir comanda
Il tenebroso varco; ivi repente
L’onda s’immette spumeggiante, e dentro
Allo stretto cammin ferve e rimbomba;
Ma troppa è l’acqua al non capace letto,200
L’acquedotto si gonfia e giù la mole
Pel folle assalto rovinando cade,
Alle fauci fan siepe arena e sassi,
Ed i ceppi sdegnando infuria il gorgo,
A torrente simil, cui verno ingrossa
Ed irrompe con onde vorticose,
E il gregge e i seminati in sua rapina
Ricoperti di fango e fin le stesse
Città travolge. Del novel portento
Maravigliando e assai dolente il Liri210
Fuori dell’alta ripa il capo estolle,
E sotto il peso smisurato geme.
Or per te canterà la Musa mia,
O Prence, onor di Roma, e tra’ magnati
Il più possente, dell’esausto lago
L’imperitura impresa e tra le stelle
Farà suonar del nome tuo le laudi.
Virtude intemerata in te s’accoglie,
In te regie dovizie e regal animo
Dispregiator dell’oro. In vil letargo220
Che languiscono, è voce, quei cui rompe
Gli aviti scrigni il censo e indolentiti
Su i mucchi d’oro ad oziar si stanno,
Ma dal mentir deh cessi il folle vulgo,
Nè porti invidia alle ricchezze altrui.
Otto secoli e dieci invan passâro
Dalla prima opra, e nel fuggir degli anni
Sperâro indarno ritrovar pur uno
Che al negletto lavor recasse aita.
Ma tu non soffri che rimangan vani230
Que’ luoghi voti e ad un oprar sì eccelso
Oggi con nuovo ardir tu sol ti accingi,
E baldo in cor non temi allor che miri
Di Roma i re dominator dell’orbe,
E per auro e per forza assai possenti,
Ratto allibire e abbandonar l’impresa.
Fosse piaciuto al Ciel che a te la vita
Or sorridesse, o Montricher, cui spento
Partenope mirò da acerba morte!
Ahi miser tosto che con arte nuova240
Mirabil opra il genio tuo compiva
Il destin ti rapì, nè a te fu dato
Quell’opra rimirar, cui la primiera
Palma il Fucino dà non la Duranza,
Che volse l’onda di Marsiglia ai lidi.
E voi che poscia l’opera forniste,
Bermont e Brisse, in arte eccelsa edotti
Non senza lode io lascerò, cui mentre
Ammiro, più non mi commuove Alcide,
Che apre di Caco la spelonca e parte250
Dell’Aventin con gran forza divelle.
Onde fia che vi nomi, o illustri eroi?
Se v’appello giganti io nulla dico.
Tanto fu in voi coraggio ed ostinata
Possa agli ostacol tutti! E a che ricordo
I luoghi al vostor cominciare avversi,
Ed i perigli e il minacciar de l’onda
E le fatiche gravi della terra,
E gli stivati sassi per tanti anni
Con fango e pali, che del Sole a’ rai260
Chiudeano ognor l’inaccessibil varco,
Ed i torrenti che per vene occulte
Scorrean precipitosi in ogni banda?
Pur non s’infranse in voi coraggio e lena,
Nè per gli affanni sbalordì la mente.
Come prima fu dato al vostro sguardo
Mirar la cava rupe e a mezzo il calle
L’acquedotto diviso, allora fûr note
Le cause ascorse de l’antico danno,
E di ruderi e pali ingombro apparve270
L’antro, e per dubbio e tema, di consiglio
Bisognosa la mente trepidò.
Perchè l’arte incapace a estrar dal suolo
Tenebroso l’umor che v’è racchiuso
Baleno e si confonde. Ma nel core
Pensier vi sorge al gran frangente uguale,
Forar la terra e nelle interne viscere
De la rupe avviar l’acque stagnanti.
Il minator s’affretta e le caverne
Affida ad archi il fabbro, e già la tromba280
Mossa da cento braccia l’onda accoglie
E poi per cento bocche la riversa.
Nè di Nettuno il minacciar fa sosta
Per lo fradicio suol sempre filtrando,
Come la paürosa Idra di Lerna
Chè dalle tronche teste ognor rinasce.
Sorge il pensier di far di sassi al lago
Di sopra una gran diga che allontani
Dalla bocca il flottar, perchè di limo
Il Fucino crescendo aveala piena290
Ed alto vi giacea. Di qui gl’indugi
E mille rischi. Indi si fora il suolo
Per l’onda devïar che è sopra il capo
Dell’emissario, e aprir fosse profonde.
Alfine per sentier torbidi errando
D’acqua cospersi per la terra màdida
Carpon s’avvia la balda gioventude,
Che non cura il morir e con le mani
Grappa il fangoso mucchio. A che non spinge
Amor di lode e che non puote un’alma300
Mente e consiglio a variar non usa?
Errar li estimi per le stigie sedi,
Regni chiusi ai viventi, e non mortali
Li diresti, ma vere ombre di morti.
Ardir si danno ed i profondi lati
Taglian de l’antro con robusti colpi,
Chè del Prence il voler l’antica mole
A diroccare e a sveller li sospinge.
Allor, voi duci, artefici solerti
Lavor novello a costruir si danno,310
E giungono a matton pietre da taglio,
Onde maggior tre volte dell’antica
Vorago s’apre con immensa bocca.
Lieto sen venne il dì: de l’opra illustre
La fama annunziatrice intorno vola
Del Lazio le città tutte destando,
E la vicina gente e tuttaquanta
L’Enotria terra, e cui desio sospinge
A veder s’adunâro in denso stuolo;
E traggon pur del popolo gli eletti,320
Baldi per or de la milizia i duci,
In bianca veste i sacerdoti e il Sacro
Pastor di mitra folgorante adorno.
Già suoi dardi scagliava il sol fulgendo
Ne l’etereo cammin, volto ad occaso,
Ed al tacer de’ venti si raccheta
L’onda qual piano immenso, e folgoreggia
Al chiaror de le tremole scintille
Che vagano sovr’essa. Al Ciel sì tosto
Ebbe le palme il pio Pastor levate,330
E sciolto il labbro a fauste preci, e Iddio
Invocato propizio, e i flutti aspersi
De la stilla lustral, pel varco aperto
Impetuosa l’onda si rovescia,
E ferva entro le tenebre sospinta;
Risuonâr le voragini profonde,
E a l’aura di vapor lanciato un nembo
I trepitanti involve, ed allo sguardo
Toglie del cielo in un balen la vista;
Ma torna presto la quiete, e l’etra,340
Che tutta echeggia d’addoppiati plausi,
Si rasserena, e per letizia folli
Tre volte e quattro a voi gridano evviva,
A voi Mastri de l’opra, a te che fosti
L’Autor, siccome della patria a’ padri.
Molta è già l’acqua che è scomparsa, e il Liri
Tra le capaci sponde avvezzo omai,
D’onda non sua facil consente al mare
Portar tributo; nè rinfarcia il lago
Co’ rii risorti la perenna vena.350
Come i pesci da l’onda abbandonato,
Già lor sede, sentir stretto lo stagno,
Oh vista miseranda! errar li vedi
Quà e là guizzando d’una ansante al pari
E accòr l’onda in le fauci e rigettarla,
Ed ogni speme di salvezza spenta,
Saltan dal guado al ciel l’acqua spruzzando.
Ahi! con pietose strida su pel piano
Fan rombo, in traccia de l’antico nido
Anitre ed aghiron, folaghe e smerghi360
Desiosi del lido e del padule,
E le sorti cangiate lamentando
E la tolta per sempre amata preda,
Dove or l’industre agricoltor le zolle
Smuove e il frumento al fertil solco affida.
Ora i campi veder bello ritorna,
Ove pria la palude i legni accolse,
Del tuo favor ricolmi, o diva Cerere.
Campo non v’ha di rigogliosa gleba
Che più fertile sia, nè la convalle370
Che di linfa perenne il Peneo irriga
Con lui gareggerà, nè da’ poeti
Le celebrate piagge. Ivi il legume,
Che del terreno il grato umor desia,
Si propaga nel limo e di baccelli
Con verdeggiante stel più ricco appare,
E quella che dal suol d’India ne viene
Lussureggiante messe ivi s’estolle
Di canne in guisa con felici spighe,
O del ceruleo fior del lino il campo380
Ride ne’ mesi suoi, e la pianura
Di cotone bianchegga, e sorger vedi
Dovunque i grani tenerelli, e messi
Biondeggianti increspare, e in ordin retto
Poste le piante, e il rustico abituro
Del villanello, e l’onda irrigua il corso
Affrettar tra il canal che la governa
Del pioppo al grato rezzo, e spaziosi
Granai da accôrre le mature messi.
E che dell’opra dir che al ciel sublime,390
S’estolle? In pario marmo, o Vergin pura,
Sculta ti stai ed al colùbro il capo
Schiacci premendo col virgineo piede,
Con le braccia conserte e i rai fissando
Al ciel, ne impetri a’ rustici l’aita,
E il fertil campo e il gregge non permetti
Che rio malor di suo veneno asperga.
Di valorosa prole genitrice
Coltiva Olanda tali campi, dove
D’Harlem la terra al biondo Reno accanto400
Per lo sparso Oceàn giacque sommersa,
Quivi, fiera procella infuriando,
Come narra la fama, il mare irruppe
Violentemente e si fermaron l’onde
Nel sottoposto suol per largo spazio,
Onde, qual mar, la batava pianura
Lungo tempo contenne in ampio tratto
Un salso stagno. Ma la gente avvezza
Da ben lunga stagion far guerra ai flutti
Con dighe e schermi, al suo confin respinse410
Il nemico Nettun, benchè domino
Del mare egli abbia e nel tridente fidi;
E non soffrì che infruttuosi i campi
Languissero e secura una palude
Si distendesse a far le terre grame,
E a ricercar la strinse il nido antico,
Sì che l’opra fornì con lieti auspici.
Onde per l’erba verdeggianti prati
E ricche messi ed alberi con frutti,
Di svariati fior gli orti olezzanti,420
E de’ roseti la gentil coltura.
Il genio inver dell’uom tutto soggioga!
Fra l’arene d’Egitto al mar dà il corso
E solcan l’onda i legni ove deserti
Erano campi un dì, per che dischiuso
Più brieve è il tragittar de l’Asia ai lidi.
Esso con ferri aguzzi a l’Alpi in seno,
La via s’aperse, onde possibil fia
Stringer le destre ai popoli. Con frode
Novella a Giove i fulmini involando430
A metallici fili i sensi arcani
Di trasmettere impose, e a te nettuno
E a te Vulcan sospingere le ruote
Leggiere su per le ferrate spranghe.
Non t’ammirar perchè de l’uom la mente
È scintilla di Dio che in lui trasfonde
Il suo proprio poter. L’occulte forze
Di natura ei però farà soggette
Al suo domino, il mar, gli astri, la terra,
E donno fia de l’universo vinto.440