Prefazione

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José de Alencar - Il guarany (1857)
Traduzione dal portoghese di Giovanni Fico (1864)
Prefazione
Parte Prima

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PREFAZIONE





Eccovi, lettori e lettrici galanti, un bel romanzetto, che non vien nè dalla zona fredda, nè dalla temperata, come accade ordinariamente, ma fin dalla torrida, al di là dall’equatore; cioè poco meno che da un altro mondo. Sebbene le passioni degl’individui della nostra specie sieno per tutto in fondo le stesse; chè ovunque l’amore, la rivalità, lo sdegno, l’orgoglio, la vendetta agitano il petto dei figliuoli di Adamo, vi troverete, non ne dubito, qualche nuova forma, di cui esse si vestono sotto un sole ardentissimo, che feconda una terra in molta parte ancor vergine, ripiena delle cose più vaghe e deliziose, ma eziandio più brutte ed orribili, come il [p. vi modifica]deserto, gli uragani, le secolari foreste, con tutte quelle famiglie di animali mortiferi, che dal più piccolo insetto insidiano di continuo alla vita de’ suoi abitanti.

Il protagonista del romanzo è un selvaggio, Pery, intrepido, valoroso, sagacissimo, e tanto pieno di devozione per la sua Senhora, che unicamente per farla sorridere e vederla contenta immolerebbe non solo se stesso, ma il mondo intero, se fosse possibile. Per soddisfare a questa sua passione fa una quantità di prodezze, che in più luoghi toccano fino al sublime ed al maraviglioso, e farebbero invidia a quelle di Ercole e di Teseo, se invece di esser finte fossero reali.

L’autore dice di aver composto il carattere di questo eroe colle più singolari qualità d’animo e di corpo, che incontransi nei vari individui delle tribù selvaggie, che abitano le regioni tropicali d’America; togliendo, verbigrazia, da uno la forza muscolare, da un altro l’agilità, da un terzo la destrezza in trar d’arco, da un quarto l’intrepidità, l’astuzia e così di seguito; e facendone all’uso dei poeti una persona sola, e in quel modo che fu praticato da Zeusi nel ritrarre la sua Venere. Se come il greco pittore sia riuscito a formare un perfetto modello, [p. vii modifica]lasceremo che il lettore lo giudichi da sè medesimo; solo non taceremo che al Rio de Janerio, ove vide per la prima volta la luce, il libro fu accolto con molto favore, e formò la delizia di ogni classe di persone, specialmente delle donne, forse per la devozione e fedeltà veramente cavalleresca di quest’eroe selvaggio.

Il che sarà stato di non lieve conforto all’autore, perchè nel tessere queste sue leggiadre fantasie, oltre al diletto, pare che abbia avuto di mira anche uno scopo di umanità; quello cioè di nobilitare nel concetto de’ suoi concittadini l’indole di quelle infelici tribù indigene, che dalla stirpe bianca sono avute in conto poco più che di una razza di quadrumani; e se non furono in ogni tempo perseguitate, vennero per lo meno contrariate e travagliate in varie guise, talchè l’estendersi degli Europei in quelle regioni fu per loro un vero flagello.

Io non so veramente, se sia fattibile guadagnare all’incivilimento quelle genti povere d’industrie e scadute di troppo nelle facoltà dell’intelligenza; da che veggiamo gl’Indiani e i Cinesi, popoli nobilissimi, pel solo fatto delle loro istituzioni civili e religiose (e fors’anco perchè non si ebbe pel passato [p. viii modifica]il debito riguardo alle parti buone della loro cultura), mostrar tanta ripugnanza a entrare nel consorzio delle nazioni cristiane, portate ad espandersi, e forse provocare tosto o tardi un urto spaventevole dell’Occidente contro l’Oriente; tuttavia il nobile tentativo dell’autore non rimarrà al tutto infruttuoso, e gioverà senza dubbio a rendere meno misera la condizione degli indigeni del tropico, disponendo gli animi dei Bianchi a sensi di benevolenza verso di loro.

Gli altri personaggi del romanzo sono tratti dal seno della civile società, ed hanno abiti e costumi poco differenti dai nostri. Volendo dir qualcosa di alcun di loro, noteremo che il carattere di don Antonio de Mariz ci sembra condotto con gran perfezione dal principio alla fine, e che questo è forse il più bel modello che si poteva dare di un vero fidalgo portoghese1; cotanto egli si mostra, anche nelle minime cose, grande, generoso, magnanimo, e sempre uguale a [p. ix modifica]sè stesso tanto nella prospera, che nell’avversa fortuna; giusto estimatore delle opere e dei meriti altrui, nella sua austerità capace dei più delicati sentimenti del cuore, talchè si palesa ad un tempo e marito affettuoso e padre tenerissimo e benefattore zelantissimo de’ suoi soggetti. L’animo commosso al mite e savio impero di quest’uomo ci porta involontariamente a cercare dal mondo della fantasia in quello della realtà alcun modello che lo pareggi, o per lo meno gli s’accosti da presso; ma ohimè, che ben presto ci accorgiamo che queste altro non sono che fantasticherie di poeti!

Cecilia poi, quest’ingenua, gaia e leggiadra fanciulla, è una creatura tanto gentile, tanto graziosa, che par formata di quelle materie sottili, eteree, trasparenti, che per la loro leggerezza stanno sempre librate nell’aria, quasi paventino di venir macchiate dai vapori densi e foschi, che s’innalzano dalle limacciose valli. L’autore ha fatto bene di congedar dalla terra quest’apparizione celeste, mettendola sul dorso di un furioso elemento, che par voglia occupare le sedi dell’infinito.

Che direm d’Isabella, l’infelice e sventurata amante, se non che la sua passione, non ostante l’ardentissimo fuoco ond’è ripiena, [p. x modifica]si mostra pur sempre tanto casta e pura, che non ci avrebbe che ridire la più schiva e ascetica monachella d’un chiostro?

Questo romanzo, che ci sembra pregevolissimo non tanto nelle singole parti, quanto nel suo insieme; cioè nell’orditura della favola varia ad un tempo e naturale, nello svolgersi delle passioni semplice e a gradi, nel loro contrasto sempre vivo e pieno d’interesse, nella risoluzione degli avvenimenti inaspettata e assai verosimile e via discorrendo; ci sembra anche un buon antidoto contro quei tanti romanzi forestieri, che fanno parlare, sentenziare e operare i loro personaggi secondo le norme di una società, che potrà forse chiamarsi oltremontana, ma non certamente italiana. Qui da noi coloro che volessero trarre da quei numerosi romanzi documenti al loro vivere giornaliero, ci riuscirebbero altrettanti Donchisciotti, che vanno in busca di mulini a vento, di elmi incantati e di castellane alla Maritornes. E poichè il vezzo di corrompere in questo modo il retto senso delle moltitudini, e crear speranze, desiderii e bisogni senza obbietto corrispondente, ha vista di non voler cessare sì presto, ed è pur forza lasciar correre le acque per la loro china, altro non resta che di fare come quelle [p. xi modifica]buone genti di campagna, che alle fiumane troppo grosse e troppo torbe alzano qua e là un argine o una palafitta, per impedire che la corrente se ne porti via i loro campi colle case e i seminati che vi sono sopra. E questo può fare in alcuna parte il libro che abbiamo alle mani. Ivi l’uomo non è preso in astratto, secondo il vezzo corrente di molti romanzieri, ma con tutte quelle qualità acquisite, che sono il risultato dell’educazione, dell’esperienza e del costante conato dello spirito, onde poi scaturisce la sua personalità, e il grado corrispondente nella gerarchia dell’ordine sociale; e tra il vizio e la virtù, tra gl’istinti buoni e malvagi, tra lo strano ed il giudizioso, l’inverosimile ed il naturale è fatta una distinzione sì chiara e precisa, che i suoi personaggi potrebbero di netto essere portati ad operare nella vita pratica senza il minimo turbamento od inconveniente.

Tutto all’opposto di tanti eroi dei moderni romanzi, che se si vestissero un tratto di polpe e d’ossa, e fossero abilitati a fare al loro modo le loro faccende in società, ci apparirebbero, per gli strani modi che hanno in uso, più presto gente di un altro mondo, che del nostro; e darebbero di sè spettacolo non altrimenti che quelle bestie selvatiche, e di [p. xii modifica]vario pelo, forma e natura, che si conducono in giro nelle gabbie per diletto dei curiosi. Certo io non ho alcuna ripugnanza a immaginare un onesto operaio sul fare di Renzo, una fanciulla discreta e modesta come Lucia, un benefattore come Federico, un prepotente come don Rodrigo o Luchino, ed anzi non pochi riscontri mi occorrono tuttodì di simili persone nel vivere ordinario; ma una copia di quei tanti tipi fantastici, onde s’illustrano specialmente molti romanzi francesi, io non saprei a vero dire dove pescarla nelle nostre società; e quando ci fosse è agevole il dire la bella figura che ci farebbe.

Un altro dei pregi di quest’autore è quella profonda conoscenza ch’egli ha dell’uomo interno, o come altri direbbe, dell’uom metafisico. Un’infinità di sentimenti e di affetti, un mondo di moti quasi impercettibili della mente nostra, e d’idee poco meno che occulte a quelli stessi che le concepiscono, e di voglie talora ombreggiate appena nel nostro cuore, sono da lui stati espressi con una stupenda lucidezza, e spesso involti nel velo di immagini così dilicate e graziose, che ben dimostrano di quanta gentilezza sia capace la Musa brasiliana. Chi volesse conoscere il secreto dell’arte, onde egli seppe dare una [p. xiii modifica]veste tanto gaia e leggiadra a’ suoi pensieri, non avrebbe che a badare a quanto scrive egli stesso nella seconda parte del suo libro.

“Chi conosce la vegetazione della nostra terra dalla parassita sensitiva fino al cedro gigante; chi nel regno animale scende dalla tigre e dal tapir, simboli della ferocia e della forza, fino al leggiadro baciafiore (colibrì) e all’insetto dorato; chi guarda il nostro cielo, che passa dal più puro azzurro a quei riflessi bronzati che annunziano i grandi uragani; chi sa che sotto la verde lanugine dell’erba o lo smalto dei fiori, che coprono le nostre campagne, strisciano migliaia di rettili che recano la morte in un atomo di veleno; chi vede quel medesimo suolo, che produce l’oro e l’argento al pari del ferro, dello zinco e del rame; il diamante, lo smeraldo ed il zaffiro al pari del salnitro, dello zolfo e del carbon minerale; deve comprenderci.

Infatti che cosa esprime quella catena, che lega i due estremi di tutto ciò che costituisce la vita? Che vuol dire la forza nel colmo della sua potenza, alleata alla fragilità in tutta la sua delicatezza; la bellezza nella sua grazia, che succede ai drammi terribili degli elementi e ai mostri che spaventano; la [p. xiv modifica]ricchezza e lo splendore congiunti alla fortezza e all’energia; la morte orribile com’è gioconda la vita?

Non è ciò la poesia? L’uomo che nacque, si dondolò e crebbe in questa culla profumata; nel mezzo di scene tanto diverse, fra il contrasto eterno del sorriso e del pianto, del fiore e dello spino, del miele e del veleno, non è un poeta?

Poeta primitivo conta la natura nello stesso linguaggio della natura; ignaro di ciò che avviene in lui, va a procacciarsi nelle immagini che ha dinanzi agli occhi, l’espressione di quel sentimento vago e indeterminato, onde la sua anima è agitata.

La sua parola è quella che Dio scrisse con quelle lettere, che formano il libro della creazione; è il fiore, il cielo, la luce, il tuono, l’aria, il sole; sublimi dissillabi che le labbra pronunciano sorridendo.

La sua frase scorre come il ruscello che serpeggia tra l’erbe, o slanciasi come il fiume che si precipita dalla cascata; talvolta s’innalza fino alle vette dei monti; tal’altra discende e guizza, come l’insetto, sottile, dilicata e graziosa.”

Di sì bel dire, che mai non vien meno in tutto il corso del libro, io mi studiai di dare [p. xv modifica]in italiano la più fedele espressione; nel che mi fu di non lieve aiuto una colta signora italiana, Donna G. Nicolini, che per parecchi anni dimorò nella capitale del Brasile, e fu così in grado di apprezzar vie meglio le intrinseche proprietà del bell’idioma portoghese, specialmente in ciò che riguarda le vive grazie del parlare moderno. Se non pertanto la traduzione non seppe tenersi ovunque all’altezza dell’originale e ritrarne tutte le bellezze interiori, il lettore non dimenticherà che ogni lingua ha sue virtù incomunicabili, e che qui più che altrove cade a proposito l’antico proverbio:

“La forza del delfino è nel suo lido.„

Il traduttore.






Note

  1. Fidalgo, in lingua portoghese, vuol dir nobile, senza alcuna mistura di sangue ebreo o moro. Non avendo l’italiano una parola corrispondente, la riportiamo com’ella sta, sicuri di non contravvenire alle regole d’uso.