Il guarany/Parte Seconda/Capitolo I
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CAPITOLO I.
IL CARMELITANO.
Era il mese di marzo del 1603; quindi un anno prima del giorno in cui comincia questo racconto.
In quel tempo, vicino alla strada che allora serviva alle rare spedizioni tra il Rio de Janeiro e lo Spirito Santo, vedeasi una vasta casa abitata da alcuni coloni e Indiani catecumeni.
Stava quasi in sull’annottare.
Uno di que’ temporali improvvisi, mostruosi, terribili, che di frequente prorompono alle falde delle grandi foreste, si rovesciava sopra la terra.
Il vento, muggendo, percuoteva ne’ grandi alberi, e faceva curvare i loro tronchi secolari; i tuoni rimbombavano orrendamente per lo scoscendersi dei grossi nugoli che aggiravansi per l’aere; i baleni si succedevano con tanta frequenza, che le selve, i monti e tutta la natura nuotavano in un oceano di fuoco.
Nello spazioso porticato della casa tre persone stavano contemplando con certo piacere questa lotta spaventosa degli elementi, che quantunque non insolita per loro, non lasciava di avere un certo che di sublime.
Uno di questi, tarchiato, basso di statura, giaceva disteso in un’amaca; colle gambe incrociate e le braccia sul petto usciva in un’esclamazione ad ogni nuova rovina prodotta dalla tempesta.
Il secondo era appoggiato a una delle colonne di legno brasile, che sostenevano il tetto del porticato; era un uomo un po’ bruno, intorno ai quarant’anni, con una fisonomia che molto arieggiava il tipo della razza ebrea; tenea gli occhi fissi sopra un sentiero che serpeggiava in faccia alla casa, fino a perdersi nel bosco.
Rimpetto a lui, pure appoggiato ad altra colonna, vedeasi un frate carmelitano, che accompagnava con un sorriso di intima soddisfazione il progresso della burrasca; il suo volto, bello, con lineamenti vigorosi, animavasi in quel momento d’un raggio d’intelligenza, e d’una espressione d’energia che rivelava il suo carattere.
Al veder quest’uomo sorridente in faccia alla bufera, e che affrontava collo sguardo il chiarore dei lampi, scorgeasi che la sua anima avea una forza di risoluzione, una volontà capace di tentare l’impossibile, e di lottare contro il cielo e la terra per conquistarli.
Frate Angelo trovavasi allora in quel luogo come missionario, coll’incarico di catechizzare e aver cura delle anime fra i gentili di quei dintorni; in sei mesi di apostolato era riuscito a ragunare alcune famiglie, che in breve sperava ridurre al grembo della Chiesa.
Era un anno che avea ottenuto dal priore generale dell’Ordine del Carmelo la grazia di passare dal suo convento di S. Maria transteverina in Roma, all’altro fondato dal suo Ordine nel 1S90 al Rio de Janeiro per dedicarsi ai travagli delle missioni.
Tanto il generale quanto il provinciale in Lisbona, tocchi da quell’ardente fervore apostolico, lo aveano raccomandato espressamente a frate Diego del Rosario, allora priore del convento del Carmelo al Rio de Janeiro, con invito di adoperare nel servigio del Signore e nella gloria dell’Ordine della Beatissima Vergine del Monte Carmelo, il santo zelo del loro confratello Angelo.
Ecco perchè quest’uomo, uscito in Europa da genitori di bassa condizione, trovavasi allora nei deserti del Rio de Janeiro, appoggiato a quella colonna, contemplando l’uragano che ad ogni istante raddoppiava di furore.
— Partirete ancora questa notte, Fernando Aines? disse colui che giaceva nell’amaca.
— Prima degli albori; rispose l’altro senza voltarsi.
— E il tempo che fa?
— Non è ciò che mi turba, ben lo sapete, mastro Nunes. Questa maledetta caccia!...
— Temete che la vostra gente non torni a tempo da essa?
— Temo che non si perdano tutti per questi burroni, con questo temporale.
Il frate voltossi:
— Coloro che seguono la legge del Signore, stanno bene in ogni parte, fratello; in luoghi inospiti come in questa casa: i malvagi son quelli che devono temere il fuoco del cielo, e per questi non v’è nascondiglio che li ripari.
Fernando Aines sorrise ironicamente.
— Lo credete, frate Angelo?
— Credo in Dio, fratello.
— Tuttavia io preferisco starmene qui, anzichè a questo chiaro di luna.
— Non pertanto, interruppe Nunes, quello che dice il nostro reverendo missionario...
— E lasciate dir frate Angelo: qui sono io che mi adiro contro la tempesta; e là sarebbe la tempesta che si adirerebbe contro di me.
— Fernando Aines!... esclamò Nunes.
— Maledetta questa caccia! mormorò l’altro senza badarvi.
Il silenzio si ristabilì.
Di repente si aperse un nugolo, e una corrente elettrica, attorcendosi nell’aria come un serpente di fuoco, percosse sopra un cedro che stava di fronte alla casa.
L’albero si spaccò in due da cima a fondo; una parte restò in piè scarna e mutilata; l’altra piombando sulla piazzetta della casa battè addosso a Fernando Aines, e lo buttò malconcio in fondo al portico.
Il suo compagno restò immobile per molto tempo; dipoi cominciò a tremare, come fosse assalito dal freddo della terzana: il police disteso per fare il segno della croce, i denti che battevano gli uni contro gli altri, il volto contratto, davangli un aspetto terribile e grottesco al tempo stesso.
Il frate si era fatto livido, come fosse egli la vittima della catastrofe; il terrore alterò un istante la sua fisonomia; ma ben tosto un sorriso sardonico gli sfuggì dalle labbra, ancora scolorate dalla scossa violenta che avea sofferto.
Passato il primo momento di stupore, ambedue si avvicinarono al ferito per soccorrerlo; questi fece un gran sforzo, e sollevandosi sopra un braccio, mandò fuori fra una boccata di sangue queste parole:
— Castigo del cielo!...
Accorgendosi che non ci avea più rimedio per il corpo, il moribondo pensò a quello dell’anima, e con voce fioca chiese frate Angelo che gli udisse la sua confessione.
Nunes fece entrare il suo compagno in una camera, la cui porta metteva nel portico, e lo adagiò sopra un letto di cuoio.
Già si era fatta notte; la camera conservava i nella maggior oscurità; appena di tratto in tratto i baleni gettavano un chiarore azzurrognolo sopra il confessore mezzo, chinato sul moribondo, per intenderne la voce che andava sempre più mancando.
— Ascoltale senza interrompermi, padre mio; sento che non mi restano che pochi istanti; e ancorchè non ci abbia perdono per me, voglio almeno riparare al mio delitto.
— Parlate, fratello; io v’ascolto.
— Il novembre scorso giunsi al Rio de Janeiro, e fui ospitato da un mio parente; sì egli che sua moglie mi fecero la migliore accoglienza.
«Egli che avea molto viaggiato pel deserto, e si era dato alla vita di avventuriere, mi parlò, un giorno di tentar insieme una spedizione, il cui risultato sarebbe una grande ricchezza per ambedue.
«Varie volte ci intrattenemmo sopra cotesto soggetto, finche mi aperse interamente il suo animo.
«Il padre di un Roberto Dias, colono della Baja, guidato da un Indiano avea scoperto nei deserti di quella provincia miniere d’argento tanto abbondanti, che poteansi lastricare di questo metallo le vie di Lisbona.
«Dias, padre, avea tracciato un itinerario del modo da lui tenuto in attraversare quei deserti senza strade e inospitali, colle indicazioni necessarie per poter trovare in qualsifosse tempo il luogo ov’erano situate le dette miniere.
«Questo itinerario fu involato al suo padrone senza ch’ei se n’accorgesse; e per una lunga sequela di fatti, a raccontare i quali mi mancano le forze, venne a cadere nelle mani di mio parente.
«Di quanti delitti già non fu causa quella carta; e di quanti non lo sarebbe ancora, padre mio, se Iddio non avesse finalmente punito in me l’ultimo erede di questo legato di sangue!...»
Il moribondo si arrestò un momento, estenuato; dipoi continuò con voce fievole:
«Sin d’allora, coll’arrivo del governatore don Francesco de Souza, sapeasi che Roberto avea offerito in Madrid a Filippo II la scoperta di quelle miniere; e che non avendolo il re premiato come si attendeva, ostinavasi in serbare il silenzio.
«La ragione di questo silenzio, che generalmente attribuivasi a dispetto, solo sapevala il mio parente, nelle cui mani trovavasi l’itinerario: Roberto, arrivato in Ispagna, si era accorto del furto che gli era stato fatto, e voleva almeno lucrare il premio.
«Il secreto delle miniere, la chiave di questa immensa ricchezza, che sorpassava tutti i tesori di Miramolin, stava nelle mani di mio parente, che, avendo bisogno di un uomo fidato che lo aiutasse nell’impresa, giudicò che niuno si troverebbe più adatto di me da esser messo a parte de’ suoi rischi e delle sue speranze.
«Accettai questa complicità di delitto, questo patto di latrocinio, padre mio.... Fu questo il mio primo fallo!...»
La voce dell’avventuriere si fece ancora più fioca. Il frate, chinandosi sopra di lui, sembrava divorasse colle labbra semiaperte le parole balbettate dal moribondo.
— Coraggio, figlio!
— Sì! debbo dir tutto!... Affascinato dalla descrizione di quel tesoro favoloso, mi venne una tentazione iniqua, che tosto si converse in brama ardentissima di possedere quelle ricchezze... meditai... e mandai a compimento un delitto! Assassinai mio parente e sua moglie...
— E... sclamò il frate con voce sorda.
— E involai il loro segreto!
Il frate sorrise nelle tenebre.
— Ora mi resta solo la misericordia di Dio, e la riparazione del male che feci... Roberto vive in Spagna sventurato... Voglio che questa carta gli sia restituita... Lo promettete, frate Angelo?...
— Lo prometto! La carta?...
— È... nascosta...
— Dove?
— In que... sta...
Il moribondo agonizzava.
Frate Angelo, sospeso interamente sopra di lui, coll’orecchio applicato alla sua bocca, da cui gorgogliava una spuma vermiglia, colla mano sopra il cuore per sentire se ancora palpitava, pareva che volesse ritenere quell’alito di vita, per trarne ancora una parola.
— Dove?... mormorava di tratto in tratto il frate con voce cavernosa.
L’infermo agonizzava sempre; gli estremi singhiozzi della vita che si spegne come la lampada cui manca il nutrimento, agitavano appena il suo corpo irrigidito.
Alla fine il frate lo vide alzare il braccio, che accennava alla parete, e sentì i suoi labbri gelati e convulsi che tremavano, gettar nel suo orecchio una parola che lo fece saltare sul letto.
— Croce!...
Frate Angelo rizzò il capo, e diede un’occhiata all’ingiro della camera quasi fuori di sè; alla testa del letto ci avea un Cristo di ferro sopra una gran croce di legno ruvido e mal digrossato.
Con un impeto da forsennato il frate s’impadronì della croce, e la spezzò contro il ginocchio; l’effigie del Redentore rotolò sul pavimento; fra i pezzi del legno apparve un ruotolo di pergamena schiacciato per pressione subita.
Ruppe co’ denti il suggello, e portatosi alla finestra lesse all’incerto chiarore dei lampi la prima parola di uno scritto a lettere vermiglie, che diceva così:
«Itinerario veridico ed esatto, in cui si parla della strada che fece Roberto Dias l’anno di grazia 1597 alla Giacobbina, ove col favore di Dio scoprì le più ricche miniere d’argento che mai fossero al mondo; con tutte le indicazioni dei luoghi, confini e linea equinoziale ove sono situate le dette miniere. Cominciato il 20 di gennaio, giorno del martire S. Sebastiano, e terminato la prima domenica di Pasqua; giorno del nostro arrivo per grazia della Providenza in cotesta città di San Salvatore.»
Nell’atto che il frate sforzavasi a leggere, il moribondo agonizzava nella massima afflizione, aspettando forse l’assoluzione finale e l’estrema unzione del penitente.
Ma il religioso non vedea in quel momento se non la carta che avea tra le mani; lasciossi cadere sopra una panca, e col capo sostenuto sul braccio, si abbandonò a una profonda meditazione.
A che pensava egli?...
Non pensava; delirava. Avanti a’ suoi occhi l’immaginazione esaltata rappresentavagli un mare d’argento, un oceano di metallo fuso, bianco e risplendente, che andava a perdersi nell’infinito.
Le onde di questo mare d’argento ora si accavalcavano, ora rotolavano formando fiocchi di spuma, che parevano fiori di diamanti, smeraldi e rubini scintillanti alla luce del sole.
Alle volte su quella superficie liscia e tersa disegnavansi, come in uno specchio, palagi incantati, donne belle come le Uri del profeta, vergini graziose come gli angeli di Nostra Signora del Monte Carmelo.
Scorse in tal modo mezz’ora; il silenzio era appena interrotto dal rantolo del moribondo e dal muggito dei tuoni: dipoi udissi una calma sinistra; il peccatore spirava impenitente.
Frate Angelo si levò in piedi, si strappò l’abito con un gesto disperato, e lo calcò a’ piedi; sulla sponda del letto ci avea una massa di vesti che indossò; trasse le armi dal cadavere, raccolse il cappello di feltro, e stringendo al petto il manoscritto, avviossi alla porta.
Udivansi i passi di Nunes, che passeggiava di fuori sotto il portico.
Il frate si fermò; la presenza inaspettata di quell’uomo avanti la porta gli fè venire un’ispirazione.
Prese l’abito di prima, lo sovrappose al nuovo, e ascondendo nella manica il cappello da avventuriere, si coprì col suo più largo; allora aperse la porta e andò alla volta di Nunes.
— Consumatum est, fratello! diss’egli con voce di compunzione.
— Dio raccolga l’anima sua!
— Così lo spero, se non mi mancheranno le forze per adempire al suo ultimo voto, che è una riparazione....
— Di qualche grave peccato?
— Di un delitto, fratello. Datemi un chiaro; vo a scrivere a frate Diego del Rosario, nostro priore, affinchè se per avventura io più non tornassi dal luogo ove vado, almeno si sappia che fu dì me.
Il frate scrisse al chiaro di un facella di legno alcune linee al priore del convento del Carmelo al Rio de Janeiro, e congedandosi da Nunes partì.
Quando voltava il canto della casa, il cielo si aprì, e la terra s’incendiò colla luce di un lampo tanto vivido, che ne fu abbarbagliato.
Due fulmini, descrivendo liste di fuoco, erano caduti sulla foresta, e avean diffuso all’intorno un fetore di zolfo che soffocava.
Il carmelitano fu preso da vertigine, e ricordossi della scena della sera, di quel tremendo castigo che egli stesso avea evocato nella sua ipocrisia, e che tanto prontamente si era avverato.
Ma l’abbarbagliamento passò; e ancora abbrividendo, ancora pallido di terrore, il reprobo levò il braccio come per sfidare la collera del cielo, e pronunziò una bestemmia orribile:
— Potete uccidermi; ma se mi lasciate la vita, ho da esser ricco e potente contro il volere del mondo intero!
Ci avea in queste parole un non so che dell’insania e della rabbia impotente di Satana, precipitato nell’abisso dalla sentenza irrevocabile del Creatore.
Continuando il suo cammino fra le tenebre, costeggiò la siepe, e arrivò poco distante a un insieme di capanne, ove il missionario era pervenuto a raccogliere alcune famiglie di Indiani; entrò e svegliò uno dei selvaggi, cui ordinò di prepararsi ad accompagnarlo non appena albeggiasse.
La pioggia cadeva a torrenti, e il vento infuriava contro le pareti di sapê della capanna, sibilando traverso la paglia.
Il frate passò la notte in veglia, meditando e tracciando nel suo spirito un disegno infernale, per la cui effettuazione non tremerebbe a fronte di qualsifosse ostacolo; di tratto in tratto alzavasi per vedere se l’orizzonte si rischiarava.
Finalmente spuntò il giorno; il temporale erasi dileguato durante la notte e il cielo rasserenato.
Il carmelitano, accompagnato dal selvaggio, uscì e vagò per la foresta e per la campagna in tutte le direzioni; andava in cerca di qualche cosa.
Dopo due ore di cammino s’imbattè nella macchia di cardi, ove accadde la scena che narrammo; l’esaminò da tutti i lati e sorrise di soddisfazione.
Arrampicandosi all’albero e sdrucciolando pel cipô entrarono egli e il selvaggio nell’area che già conosciamo; il sole erasi levato poco prima.
Il giorno appresso, due ore avanti sera, vedeasi uscire da cotesto luogo un solo uomo, che non era nè frate nè selvaggio.
Era un avventuriere impavido, audace, nella cui fisonomia riconoscevansi ancora i lineamenti del carmelitano frate Angelo.
Quest’avventuriere chiamavasi Loredano.
Lasciava in quel luogo, e sepolto nel seno della terra, il suo secreto; quest’era un ruotolo di pergamena, una coccola di frate e il corpo di un selvaggio.
Cinque mesi dopo il vicario dell’Ordine partecipava al generale in Roma che il frate Angelo era morto, come un martire e come un santo, nello zelo della sua fede apostolica1.
Note
- ↑ Questo carattere non ha nulla d’inverosimile. Il fatto dell’immoralità dell’Ordine del Carmelo al Rio de Janeiro in quel tempo è non solo naturale, ma reale e storico. In B. da S. Lisboa, tom. 7, pag. 102 leggesi un breve del Nunzio Apostolico, Vincenzo Ranuzio, che nomina il vescovo del Rio de Janeiro visitatore e riformatore dei Carmelitani per causa dei molti abusi invalsi in quell’Ordine.