Il guarany/Parte Prima/Capitolo I
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CAPITOLO I.
SCENARIO.
Da una delle estremità della foresta degli Orgaos scaturisce un filo d’acqua, che s’incammina verso il nord, e ingrossando co’ borratelli ricevuti nel suo corso di dieci leghe si converte in un fiume assai rumoroso. È il Paqucquer, che saltando di cascata in cascata, attorcendosi come un serpente, va poscia a riposare tranquillo nel piano e a perdersi nel Parahyba, che scorre maestosamente nel suo vasto letto.
Direbbesi che vassallo e tributario di questo re delle acque, il piccolo fiume, altiero e orgoglioso contro le roccie, si curva umilmente ai piè del suo sovrano.
Perde allora tutta la sua bellezza selvaggia; le sue onde diventano calme e serene come quelle d’un lago, e non ribellansi alle barchette e alle piroghe, che strisciano sul suo dorso: schiavo sommesso obbedisce alla sferza del suo signore.
Non è questo il luogo, in cui dev’essere veduto; ma a tre o quattro leghe dalla sua foce, ov’è ancor libero, come il figlio indomito di questa terra di libertà:
Quivi il Paquequer lanciasi rapido sopra il suo letto, e attraversa le foreste come un tapir, spumando e gettando sprazzi sulle punte delle roccie, ed empiendo la solitudine del rumore del suo corso.
Di repente lo spazio gli manca, il terreno gli sfugge; il superbo fiume retrocede un istante per concentrare le sue forze, e d’un balzo si precipita come la tigre sulla sua preda.
Dipoi, affaticato da cotesto sforzo supremo, si stende sopra la terra e si addormenta in un vago bacino formato dalla natura, ricevuto come in un letto nuziale, sotto cortine di campanelle e di fiori agresti.
La vegetazione in questi luoghi fa pompa di tutto il suo rigoglio; foreste vergini stendonsi lungo i margini del fiume, che scorre in mezzo ad arcate di verzura e capitelli formati dai ventagli delle palme.
Tutto è grande e pomposo in cotesto scenario, che la natura, artefice sublime, decorò dei maestosi drammi degli elementi, ove l’uomo non fa che l’ufficio di semplice comparsa.
Nell’anno 1604, il luogo che abbiamo descritto, ora quasi deserto e incolto; la città del Rio de Janeiro non contava ancora mezzo secolo, da che era stata fondata, e l’incivilimento non avea per anco avuto tempo di penetrare nell’interno del paese.
Ma fin d’allora vedeasi sulla sponda destra del fiume una casa larga e spaziosa, costrutta sopra un’altura e proletta d’ogni lato da una muraglia di roccia tagliata a picco.
Lo spianato, su cui posava l’edifizio, avea la forma d’un semicerchio irregolare, che occupava, a dir molto, settanta braccia quadrate: dalla parte di tramontana eravi una specie di scala di vivo sasso, fatta per metà dalla natura e per metà dall’arte.
Scendendo due o tre dei larghi gradini di questa scala, incontravasi un ponte di legno, saldamente costrutto sopra una spaccatura larga o profonda, che si apriva nella roccia.
Continuando a discendere, giungevasi in riva al fiume, che si curvava in un seno grazioso, ombreggiato dalle grandi gameleire e dagli angelini crescenti lungo le sponde.
Anche qui l’industria dell’uomo si era giovata abilmente della natura per crear mezzi di sicurezza e di difesa.
Dall’uno e dall’altro lato della scala partivano due filari di alberi, che allargandosi gradatamente andavano a chiudere quasi fra due bracci il seno del fiume; tra i fusti degli alberi cresceva un’alta siepe di piante spinose, che rendea quella piccola valle impenetrabile.
La casa era edificata in quella architettura semplice e grossolana, che ancora si può vedere nelle prime nostre abitazioni; avea di fronte cinque finestre basse, larghe, quasi quadrate.
Nel lato destro eravi la porta principale, che mettea sopra una piazzetta circondata da uno steccato, coperto di meloni agresti.
Dal lato sinistro stendevasi fino all’orlo dello spianato un’ala dell’edifizio, che apriva due finestre sopra il dirupato della roccia, tagliata quasi a perpendicolo.
Nell’angolo formato da cotesta ala col rimanente della casa eravi un certo spazio, che chiameremo giardino, e che in fatti era un’imitazione graziosa di tutta quella natura ricca, vigorosa e splendida, che la vista abbracciava dall’alto di quell’eminenza.
Fiori agresti delle nostre selve, piccoli alberi chiomati, un tappeto d’erba, un filo d’acqua, che simulava un torrente e formava una piccola cascata; tutto ciò era stato creato dall’uomo in questo piccolo spazio con un’arte e una grazia ammirabile.
A prima giunta, guardando quella piccola roccia dell’altezza di due braccia, d’onde precipitavasi un rivoletto grosso quanto un bicchiere d’acqua; quel monticello erboso, che avea al più lo spazio di un sofà, parea che la natura si fosse fatta bambina, e dilettata a creare per bizzarria una miniatura.
Il fondo della casa, diviso per intiero dal rimanente dell’abitazione, era formato di due stanzoni o magazzini, che servivano di ricovero agli avventurieri e ai famigliari.
Finalmente, all’estremità del giardinetto, sull’orlo del precipizio, vedeasi una capanna di sapè, sorretta, in luogo di pali, da due palme, unite insieme da un trave; da’ cui lati protendeasi fino a terra la parete in forma di triangolo: un lieve solco impediva alle acque di entrare in questa silvestre abitazione.
Ora che abbiam descritto l’aspetto del luogo, possiamo aprire la ponderosa porta di legno santo, che serve di entrata, e penetrare nell’interno dell’edifizio.
La sala principale, che chiamiamo ordinariamente sala di ricevimento, palesava un certo lusso, che parea impossibile a que’ tempi in un deserto, quale era allora il luogo di cui parliamo. Le pareti e la volta erano bianche, ma all’ingiro del solaio vedevasi una pittura a fresco disegnata a fiori; nell’intervallo delle finestre pendeano due ritratti, che rappresentavano un vecchio fidalgo ed una dama anch’essa attempata.
Sopra la porta del centro era disegnato un blasone in campo di cinque conchiglie d’oro e nere, disposte in croce fra quattro rose d’argento sopra liste. Nello scudo d’argento, orlato di vermiglio, vedeasi un elmo pure d’argento con pennacchio orazzurro, e per insegna un mezzo leone azzurro con una conchiglia d’oro sul capo.
Un ampio tendone di damasco vermiglio, su cui era riprodotto lo stesso blasone, ascondeva questa porta, che raramente si apriva e metteva in un oratorio.
Di fronte, tra le due finestre del mezzo, ci avea un gran seggiolone con sopracielo, chiuso da cortine bianche con panneggiamenti azzurri.
Sedie di cuoio con schienale molto rilevato, un tavolino di legno santo con piedi torniti, una lampada d’argento sospesa al tetto per una catenella, costituivano i mobili di questa sala, che presentava un aspetto severo e tristo.
Le stanze interne erano sullo stesso gusto, solo mancavano le decorazioni araldiche; ma nell’ala dell’edifizio quest’aspetto mutava di repente, e facea luogo a un certo che di capriccioso e dilicato, che rivelava la presenza di una donna.
Infatti nulla di più grazioso che la messa di un’alcova, ove i broccati di seta si confondevano colle vaghe penne dei nostri uccelli, intrecciate in ghirlande e festoni all’ingiro del solaio, e al sommo del cortinaggio di un letto collocato sopra un tappeto di pelli d’animali selvatici.
Da un canto pendeva dalla parete un crocifisso di alabastro, a cui piè ci avea uno sgabello di legno dorato.
A poca distanza, sopra un cumò, vedeasi una di quelle chitarre spagnuole, che i zingari introdussero nel Brasile quando furono espulsi dal Portogallo, e una collezione di minerali strani a vaghi colori, e di forme bizzarre.
Presso alla finestra eravi un mobile, che a prima vista non si potea definire; era una specie di letto o di sofà, formato di paglia variopinta e intessuto di penne nere e scarlatte.
Un cigno reale sopra una colonnetta in procinto di spiccare il volo, assicurava col becco la cortina di tafetà azzurro, e l’apriva colla punta delle sue candide ali; la quale, cadendo sopra la porta, velava quel nido d’innocenza agli occhi profani.
L’arte moderna, con tutta la sua splendida immaginazione, non sarebbe capace di creare un ornamento tanto elegante e grazioso, quanto questa semplice invenzione di una fanciulla inspirata dalla natura della nostra terra.
Il tutto esalava un soave aroma di belzuino, che usciva da ogni oggetto come un profumo naturale, come l’atmosfera della fata che abitava quel paradiso.
Dall’alcova apriasi una porticcina, che metteva sopra il giardino.