Il fanciullo nascosto/La potenza malefica
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La potenza malefica.
Quando ero ragazzina io, ricordo, a me ed a tutti i bambini «signori» del vicinato ci ricuciva e risolava le scarpette, — primitive scarpette a lacci, con doppio arco di bullette lucenti come stelle, — un vecchio ciabattino misterioso che abitava una stamberga poco distante da case mia. Donde fosse venuto, di che paese era, il misterioso «maestro di scarpe» io non l’ho mai saputo. So che mi dava soggezione. Altissimo, curvo senza essere storto, — a volte si drizzava e pareva allungarsi per volontà propria.
Sempre vestito, d’inverno e d’estate, d’un abito grigio verdastro non suo, abbottonato sul petto nudo, senza il grembiule di cuoio che indossava solo nelle ore di lavoro, aveva un’aria quasi distinta di signore decaduto.
Sotto il cappelluccio molle, il lungo viso, nero fra due bande di capelli bianchi, immobile e jeratico, ricordava quello di certi santi di legno delle chiesette dei villaggi sardi; ma la bocca si torceva spesso con disgusto, e gli occhi grandi a mandorla brillavano ancora giovanili e tristi, spesso anche minacciosi.
Veniva a riportare le scarpette accomodate, un paio in una mano un paio nell’altra; e pareva ch’esse, pure così piccole e lievi, tenessero in equilibrio come i pesi di una bilancia quel lungo corpo oscillante. Veniva e discuteva a bassa voce il prezzo con la serva anziana: non si accordavano mai, ed egli sedeva nel cortile aspettando oltre la mercede un bicchiere o magari due di vino. Preferiva l’acquavite, e vuotava il calice senza vederlo, con avidità tremula; poi subito si inteneriva, ubbriacato dal liquore, e non riusciva più ad alzarsi per andarsene.
Con le grandi mani sulle ginocchia, la testa sempre china, cominciava a raccontare cose strane alle donne raccolte a lavorare nel cortile.
A volte sollevava d’un tratto il viso, guardava intorno un po’ furtivo per assicurarsi che c’era gente abbastanza per ascoltarlo, e parlava d’una cosa straordinaria che formava la sua specialità. La prima ad accorrere per sentire le cose terribili che diceva, ero io: anche le donne s’avvicinavano, con l’ago o la scopa in mano, e ridevano ma con un’ombra di paura superstiziosa negli occhi. Perchè il vecchio «maestro di scarpe» si vantava di avere la potenza di fare del male a chiunque volesse, col solo fortemente desiderarglielo.
— Bisogna però che mi abbia fatto o minacciato del male, intendete bene, tarantole, voi che vorreste fare e se potete fate del male solo per il gusto di farlo. No, per me è, come una corda tesa fra me e il mio nemico; lui vuole soffocare me, io soffoco lui. Tira tira vinco sempre io. Così, crepa, lucifero.
E sollevava le mani e stringeva con forza i pugni; come tirando davvero la corda che soffocava il nemico vinto ai suoi piedi.
— Adesso vi conterò....
Erano storie e storie, una più impressionante dell’altra. Non sempre, anzi quasi mai, egli voleva la morte del suo nemico: no, uccidere tocca solo a Dio; ma le disgrazie più gravi colpivano le malaugurate persone che avevano la sventura di offenderlo o causargli del male.
E d’improvviso tornava a sollevare il viso scuro di Santo vendicatore guardando in giro gli astanti con occhi minacciosi, per accertarsi che nessuno gli augurava del male, nessuno si burlava di lui o metteva in dubbio la sua infernale potenza: e stringeva ancora i pugni, pronto a gettare il laccio maledetto.
Le donne davano un passo indietro; e qualcuna tornava a spazzare, qualche altra a battere la lana, ma il loro allontanarsi aveva tutta l’aria d’una prudente ritirata. Solo la serva anziana teneva fronte al vecchio fanfarone.
— Vuol dire che siete stato sempre un uomo potente. Si vede dalla carriera che avete fatto!
— La mia carriera è libera, — egli rispondeva con disprezzo. — Non sono servo, io, e lavoro perchè ne ho voglia, ma alla notte sono come un signore e se voglio dormire dormo; se no me ne vado in giro, mi diverto; se voglio vado a ballare, se voglio vado a cantare, se voglio vado dalle donne, se voglio monto a cavallo e vado in un ovile e dico ai pastori: ohè, baracchiamo! E loro ammazzano il più bell’agnello e lo fanno arrostire, e si mangia, si beve, si ride fino all’alba.
Parlava sul serio; s’inteneriva di nuovo, chiuso nella sua illusione di felicità; ma la donna lo richiamava alla realtà con le sue parole pungenti.
— Questo vi accadrà quando vi ubbriacate: allora tutto è facile, e anche i mendicanti hanno cavalli e ovili....
Una volta egli si alzò, minaccioso, appoggiando le mani indietro al muro.
Gli occhi gli brillarono d’ira. Io ebbi paura; paura che egli desiderasse male alla serva, alla quale volevo molto bene: era in casa nostra da venti anni, e piangeva e ci nascondeva sul suo fianco avvolte nella sua gonna se il castigo materno ci minacciava.
Ed ecco che quell’anno, al principio dell’inverno, lei si ammalò. Era una semplice bronchite; ma io pensavo al terribile «maestro di scarpe» chiuso nella sua stamberga come un mago nella grotta, intento alle sue opere malefiche. Era lui, per la mia fantasia, a far morire la donna. Ultimamente aveva picchiato alla nostra porta, una notte, quando tutti si era già a letto, per domandare del fuoco: e lei dalla finestra lo aveva irriso, domandandogli se era a cavallo, se andava a far ribotta coi suoi amici signori. Immediatamente s’era sentita male; forse aveva preso freddo alla finestra. Era un inverno rigidissimo; da quattordici giorni nevicava, e se qualche notte smetteva, il gelo era tale che l’indomani gli uomini andavano su e giù a cavallo per le strade per calpestare la neve e farla sciogliere. Nelle campagne il bestiame moriva per il freddo e la mancanza d’alimento; e la gente in paese era tutta malata. Questo non m’impediva di pensare ai malefizi del «maestro di scarpe». Anzi, a volte, in quei giorni freddi, bianchi, d’una melanconia continua, ferma, infinita, col viso sui vetri che l’alito appannava dando alla visione esterna del paesaggio un’apparenza ancora più fantastica, avevo l’impressione che ogni cosa fosse «incantata» d’un malefico incanto, e che lui non fosse estraneo all’opera triste.
Una sera un prete venne a confessare la malata. Dopo, sedette con noi intorno al fuoco. Tutti erano tristi: la sua figura nera rappresentava la morte venuta a sedersi al nostro focolare. Io non mi addormentai presto, quella sera: ricordo, era il diciassette gennaio, la notte di Sant’Antonio. In fondo alla strada, sebbene al solito la notte fosse glaciale, agitata dal vento di tramontana, una famiglia di contadini aveva acceso un grande fuoco, per voto, in omaggio al Santo, alla cui intercessione si doveva se una bambina gravemente ustionata era guarita senza alcun danno. Altri fuochi accesi nelle strade del paese mandavano sopra le case bianche e nere un chiarore fosco che arrossava la neve; il fumo saliva fino a intrecciarsi con le nubi correnti; e pareva che il popolo tentasse un incendio per sciogliere il gelo e liberarsi finalmente dal crudele incantesimo dell’inverno. Ma il vento infuriava sempre più, portandosi via ogni cosa, nuvole, fumo, brandelli di fiamma, le grida dei bambini, le risate delle donne, il suono della fisarmonica, in una corsa fantastica.
E in casa mia c’era la morte. Io guardavo, a piedi scalzi, dalla finestra chiusa, invidiando i ragazzi che si divertivano e si scaldavano danzando col vento; e mentre mi pareva che loro si movessero in un giardino pieno di fiori rossi, di farfalle d’oro, io battevo i denti contro il vetro col desiderio di morderlo, pensando che se la serva fosse stata sana mi avrebbe portato giù di nascosto, avvolta nella sua gonna, protetta dal suo fianco, giù, a godere un poco della festa notturna.
La colpa era tutta del malvagio «maestro di scarpe». Lo rivedevo, con la bocca chiusa, la testa sul petto, i pugni stretti a tirare la corda del male. Sentivo di odiarlo, come si odia l’inverno, come si odia la morte. Ma possibile che non si potesse vincerlo? Se era così debole che gli pesava un paio di scarpette e lo ubbriacava una goccia di acquavite? D’un tratto gli desiderai la morte. Sì, che egli morisse, quella notte, e così la donna si salvasse. Fu come un’allucinazione. Mi pareva che egli avesse gettato il suo laccio malefico sulla nostra casa: l’avevo colto io, però, e tiravo, com’egli aveva detto di fare per vincere il nemico. Potenza contro potenza: finchè l’altra serva, entrata nella camera, non chiuse gli scuri spingendomi per farmi tornare a letto. E subito, come dopo una grande fatica, mi addormentai.
*
La notte stessa la malata migliorò e il vecchio fu trovato morto nella sua stamberga. Non lo si vedeva da qualche giorno; e i giovani usciti per divertirsi intorno ai fuochi, com’egli non rispondeva alla loro chiamata, avevano buttato giù la sua porticina.
Io non mi spaventai molto: solo mi pareva d’essere andata troppo oltre. Ricordavo le parole di lui: «uccidere tocca solo a Dio». Ma oramai la cosa era fatta; e mentre avevo paura della mia terribile responsabilità, in fondo, mi compiacevo a pensare che il laccio del vecchio era rimasto in mani mie. Potevo servirmene io, d’ora in avanti....
*
Ma verso sera il dottore venne a visitare la malata e disse che la morte del vecchio risaliva a tre giorni prima.