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212 la potenza malefica


loro si movessero in un giardino pieno di fiori rossi, di farfalle d’oro, io battevo i denti contro il vetro col desiderio di morderlo, pensando che se la serva fosse stata sana mi avrebbe portato giù di nascosto, avvolta nella sua gonna, protetta dal suo fianco, giù, a godere un poco della festa notturna.

La colpa era tutta del malvagio «maestro di scarpe». Lo rivedevo, con la bocca chiusa, la testa sul petto, i pugni stretti a tirare la corda del male. Sentivo di odiarlo, come si odia l’inverno, come si odia la morte. Ma possibile che non si potesse vincerlo? Se era così debole che gli pesava un paio di scarpette e lo ubbriacava una goccia di acquavite? D’un tratto gli desiderai la morte. Sì, che egli morisse, quella notte, e così la donna si salvasse. Fu come un’allucinazione. Mi pareva che egli avesse gettato il suo laccio malefico sulla nostra casa: l’avevo colto io, però, e tiravo, com’egli aveva detto di fare per vincere il nemico. Potenza contro potenza: finchè l’altra serva, entrata nella camera, non chiuse gli scuri spingendomi per farmi tornare a letto. E subito, come dopo una grande fatica, mi addormentai.