Il fanciullo nascosto/Fiaba
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Fiaba.
La principessina, seduta presso la vetrata dell’abside del suo salone, guardava le nuvole salire dal mare lontano e si domandava perchè viveva.
La principessina aveva venti anni, ma ne dimostrava di più e di meno, coi capelli nerissimi già qua e là sfumati in argento e il viso fresco ma d’un pallore d’avorio. Il padre e i fratelli le erano morti in guerra e il fidanzato, un principe di Spagna, l’aveva abbandonata perchè il tesoro da lei ereditato non era grande come si sperava. Lei dunque, ritirata in un castello verso il mare, si domandava perchè viveva. Non soffriva più, ma a volte rimpiangeva il tempo in cui almeno soffriva, quando il dolore le irrompeva dentro con rombi e schianti di uragano, ma anche con bagliori di fulmine. Il suo orgoglio allora si moveva in mezzo al turbine come un leone incatenato; ruggiva, cercava di azzannare il dolore; a volte vinceva. Il tempo poi, buon medico non richiesto, aveva levato a brani dal petto della principessina il cuore malato: adesso tutto taceva e tutto era vuoto, dentro di lei, ed ella rimpiangeva i giorni in cui almeno soffriva. Adesso i giorni passavano così, nè belli nè brutti, lunghi sebbene fosse d’inverno. Ma era un inverno mite, riscaldato dall’alito del mare; le querce del bosco sotto il castello conservavano tutte le foglie secche dorate, e quando passava il vento si vedeva attraverso gli alberi l’erba scintillare come un’acqua verde. E di sera il cielo era così limpido che pure attraverso la vetrata chiusa alla principessina pareva di distinguere il roteare delle stelle nello spazio. Quella sera però le nuvole salivano dietro il bosco, su dal mare; erano già nuvole primaverili, gialline e rosee soffuse d’azzurro, e per la prima volta dopo tanti mesi, la principessina, nel domandarsi perchè viveva, sentiva voglia di piangere. Perchè, per chi piangere? Questa domanda le teneva le lagrime sospese sulle palpebre come stanno le goccie della rugiada sui fili dei ragni; ma d’un tratto una gliene cadde sul petto e dal petto le balzò sul grembo: intese allora che piangeva su sè stessa perchè aveva pietà di sè stessa, e mille altre lagrime le caddero dagli occhi, sul petto, sul grembo, fino ai piedi.
Allora le parve di ricordarsi di qualcuno che aspettava il suo aiuto; cessò di piangere e ricordò che era lei stessa che aspettava il suo aiuto. Si alzò e decise di sposarsi, di avere dei bambini ai quali mettere il nome dei fratelli morti in guerra: dei bambini che diventati grandi andrebbero anch’essi a morire in guerra. Lo sposo però questa volta lo voleva povero, in modo che il tesoro di lei gli sembrasse più grande di quello del Re di Spagna; e voleva conoscerlo bene, prima, questo sposo, e non fare come l’altra volta col principe che non s’erano mai veduti.
Chiamò il Capo delle Guardie.
— Voglio sposarmi; sono stanca di passare le sere solitaria, adesso che si potrà aprire il balcone e comincerà a cantare l’usignuolo. Ma lo voglio povero; che però sia pulito e non dica bestemmie.
— È difficile, — disse il Capo delle Guardie, che aveva girato il mondo. Tuttavia quella notte stessa mandò a cercare lo sposo povero, pulito e bene faveddau.1
Gira gira dopo sette settimane gli uomini tornarono. Il Capo delle Guardie entrò dalla principessina. La vetrata era aperta e l’aria odorava di fiori di sambuco.
— Gira gira, il giovane povero, pulito e gentile nel parlare si è trovato qui sotto il castello in riva al mare: è un pescatore, venuto non si sa di dove; vive in una capanna di giunchi circondata di un roseto, ha una barca con la vela gialla con Cristo dipinto; è bello.
— E va bene, — disse la principessina.
— Ma non vuole sposarsi.
La principessina non disse nulla. Pensò che il pescatore povero forse si vergognava a salire da lei e decise di scendere da lui.
Allora si vestì da paesana, con un velo sulla testa: e pensava alla gioia del povero quando avrebbe saputo che doveva sposare una donna ricca. Cammina cammina, aveva i piccoli piedi così abituati ai pavimenti lisci che mise molto tempo per arrivare. Eppure il posto era così vicino che si sentivano le serve cantare pulendo la farina nel castello per fare il pane alle guardie.
La capanna era lì, di giunchi verdi ancora; era lì, come un grande cestino dimenticato in mezzo ai roseti selvatici: e i roseti selvatici erano pieni di bocciuoli che cominciavano ad aprirsi, ma piano piano per non lasciar vedere tutta in una volta la loro bellezza.
Il mare era azzurro, e sulla vela dorata ondeggiante della barca il Cristo dipinto pareva si volgesse benedicendo di qua e di là.
Il pescatore era appena tornato e scaricava un cestino pieno di pesci d’argento. Si volse, sulla riva, e i suoi occhi erano così azzurri che facevano impallidire il cielo e il mare là dietro la sua testa. Vedendo la paesana la salutò e la invitò nella sua capanna.
— Ti aspettavo, — le disse.
Lei cominciò a tremare.
— Dunque mi vuoi?
— Sicuro che ti voglio. Adesso che il mare è calmo e il canto dell’usignuolo fra le tamerici sembrerà quello della sirena, sarà triste star solo. Ma tu sei venuta.
Lei non osava guardarlo, tanto le piaceva. Davanti a lui si sentiva umile come una paesana vera. Disse dunque umilmente:
— Dicevano che non volevi sposarti.
— Sì, — disse lui, curvo a raccogliere i pesci che ancor vivi guizzavano fuori dal cestino e si agitavano per terra; — mi avevano proposto una principessa qui vicina, ma quella non la voglio. Io sono un principe, — disse, sollevando il bel viso fra i capelli che gli spiovevano sulle guance come grappoli d’uva matura; — dovevo sposare una principessa che amavo; ma il mio ministro non volle lasciarmela sposare perchè alla morte del padre di lei il suo tesoro non risultò grande come si credeva. Allora io per dispetto me ne andai e feci voto di vivere povero e di sposare una donna nata povera.
— Io sono quella principessa che tu dovevi sposare; e ti voglio povero così.
— Ma io non posso sposarti, per quel voto. Mi dispiace.
Lei si alzò e se ne andò: l’orgoglio la faceva camminare in fretta, sebbene i suoi piccoli piedi fossero abituati ai pavimenti lisci. E per vendetta, ordinò al Capo delle Guardie che mai nessuna ragazza nata povera potesse attraversare il bosco e arrivare alle tamerici della spiaggia.
Così si rimise a sedere davanti alla vetrata aperta dell’abside del suo salone e a domandarsi perchè viveva.
Tutto il bosco era in fiore e nei roseti le rose aperte si mostravano al sole come l’amante si mostra all’amato, in tutta la loro bellezza. Si udiva il mormorio del mare, e il canto delle serve era languido: poi un bel momento mormorio e canto cessarono.
Tutto sembrava morto, morto d’amore. Il principe povero sedeva presso il mare immobile, davanti alla barca sulla cui vela il Cristo dipinto reclinava la testa, morto anche lui: sedeva, il principe povero, coi gomiti sulle ginocchia e le mani che spremevano i grappoli dei suoi capelli. La ragazza nata povera non passava, ed egli per forza pensava alla principessina, fermo però nel suo voto di non volerla.
E anche lei, lassù, pensava a lui perchè era l’unico giovine povero pulito e gentile nel parlare che si trovasse in tanto giro di mondo: ma poichè lui non la voleva ella si domandava perchè viveva e rimpiangeva i giorni d’inverno in cui, almeno, la vetrata era chiusa. Adesso la vetrata era aperta e si sentiva cantare l’usignuolo. E il suo canto riempiva la notte di tutte le cose che quei due seduti silenziosi lontani non dicevano.
- ↑ Gentile nel parlare.