vibrato, non permettevano che i grumi di lava si arrestassero
altrove che all’ingiro. L’orifizio risultante deve dunque essere
vuoto nel mezzo. Mano mano che il getto scemava d’intensità
spingendosi in alto, i grumi di lava potevano ricadere e arrestarsi
più presso al centro. Il vuoto interno doveva quindi risultare
largo al basso, e stretto in alto, prendere cioè la forma di
un fiasco. I coni nati in questa guisa si indicano infatti dai geologi
come aventi la forma di un fiasco o di una bottiglia, e si
formano precisamente nel punto ove un getto di lava esce all’esterno
con un getto di vapore. Quello dei coni del 1868 che io
esaminai più attentamente, e che appariva, se ben mi ricordo,
come il più prossimo al centro del Vesuvio, presentava meravigliosamente
questa forma di cono a bottiglia, e si sarebbe creduto
veramente un gran fiasco vuoto a cui avessero troncato il
collo. Dalla parte dell’Atrio, rimontando la corrente solidificata,
si riusciva a una porticina d’ingresso nel cono, tenuta aperta
dalla lava che di là era sgorgata a mo’ di fiumicello. Entrando
per quella porticina mi trovai nel mezzo del fiasco, ossia sotto
una specie di campana di vetro opaco, composta di scorie e di
grumi appiccicati l’uno all’altro. Si sarebbe detto che alcuno si
fosse divertito a fabbricare quella campana, lasciando cadere
l’una sull’altra un gran numero di gocce di vetro nero. In alto,
nel mezzo, in corrispondenza colla troncatura del fiasco, ossia
del cono, esisteva un ’ apertura circolare, come una piccola lanterna,
la quale rischiarava quell’antro misterioso. Grazie alla
luce che pioveva abbondante, vidi quel chiostro essere come una
caverna coperta di vaghe stallattiti di lava nera. Evidentemente
i grumi più pastosi, male appiccicati alla volta, scendevano giù
stirandosi, e prendendo esattamente la forma delle stallattiti calcaree.
Quelle stallattiti e poi tutto l’interno del cono erano ingemmati
da un numero infinito di particelle finissime di ferro
oligisto. Quel ferro era stato prodotto da una sublimazione, che
aveva avuto luogo sulla fine dell’eruzione, e aveva quindi coperto
di cristalli di ferro le parti interne più superficiali di quell’antro,
e anche le scorie superficiali a fianco della corrente. Quando
il vento all’esterno soffiava nelle trite scorie, sollevavasi una
polvere d’argento maravigliosa a vedersi. Essa era tutta composta
di particelle di splendido ferro oligisto. Pigliando un pezzetto
qualunque di quelle lave così incrostate e movendolo al
sole, brillava tanto che si sarebbe detto coperto di una moltitudine
infinita di piccoli diamanti. Più superficialmente ancora le