Il bacio di Lesbia/XXIX
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XXIX
UNA LETTERA DELLA SIGNORA
di Attis. Se una spada tragica non vi avesse folgorato la fantasia, voi avreste scritto un ben esornato carmen, come fanno gli altri. Niente di più. Voi siete morto per me? io sono morta per voi? Bene, bene, caro Catullo. Ragioniamone allora come due persone dei dialoghi dei morti di Luciano. Lasciamo da parte i filosofi che vissero prima di quel buon uomo di Socrate: non vanno d’accordo come è fatto il mondo, se tutto d’un pezzo, se a pezzettini molecolari, se creato per caso, se per ragione veduta, se di quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco, oppure anche di più elementi. Un giorno forse verrà che queste cose si conosceranno. Siccome per ora non si conoscono e i sapienti vanno d’accordo nel non andar d’accordo, cosi anche una ignorante di filosofia quale io mi sono può arrischiare una supposizione: che il mistero della vita consiste in quella parte dove Attis si operò da sé, e nella parte che voi avete con poca gentilezza oltraggiata in me. Sia anche giustificato il vostro oltraggio! Che colpa ne ho io? Che colpa ne avete voi, Catullo? Ci pensi Cibele e suo figlio. E se Cicerone non fosse inferocito contro di me, ecco un tema da offrire alle sue elucubrazioni, benché l’uomo non mi sembri troppo adatto per questi misteri cosi intimi. Ma lasciamo da parte gli scherzi. Io vi dico che il lamento, al sveglio del giovinetto Attis, ha commosso anche me. E la commozione patetica non è il mio forte! Donna però sempre io sono, e perciò credete che non Saffo di Lesbo avrebbe potuto scrivere quei versi: ci voleva un uomo! Intendetemi bene: un vir! Non il povero Attis, autolesionato. Attis fiore del gumnasio! Nella palestra pur delle Muse l’uomo nulla vale, se altrove non vale. Il cinedo lussurioso e decadente, che non è né femina né vir, voi a ragione lo disprezzate perché le Muse stesse lo disprezzano. Io vi trascrivo questi vostri versi affinché voi li leggiate come se non fossero di voi. E se questi versi arriveranno agli immortali Iddii, potrebbe davvero avvenire che essi meditassero un po’ su la loro vita spensierata e sopra la sorte dei mortali: come fa mio fratello Clodio, furibondo fin che volete, ma che si è presa la missione di suonare la tromba del risveglio ai beati nel triclinio della vita. Aprite questa cassetta di cedro: vi troverete i versi che ho di mia mano trapunti su bisso e con filo d’oro».
E i versi trascritti da Clodia erano questi che qui seguono: «Ma quando il sole dalla faccia d’oro col raggio delle sue pupille percorse l’etra albeggiante, e la. terra che immobile sta, e il mare che ondeggia in tempesta, e gli scalpitanti piedi dei cavalli ardenti del Sole fugarono le tenebre notturne, allora il sonno si dileguò come nebbia dall’impazzito Attis. Con i lagrimanti occhi si affissa sul vasto mare. Con terrore s’accorge di quello che egli è: non è più il fiero Attis, è la delicata Attis! Allora con miserabile voce cosi piange e si compiange: O patria che mi hai creato, o patria mia genitrice, perché ti ho abbandonato come servo infedele, e venni a queste orrende di neve gelide selve? Vivrò dunque io sempre fra le belve in queste selve? lontano starò sempre dal padre e dalla madre mia? lontano dalla palestra, dallo stadio, dal gumnasio? Sarò io pure una furente Menade? io vir sterile sarò? Non io qui venni; una furia mi trasportò. Ora povera femina io sono, e prima io ero adolescente, e prima io ero efebo, e prima io ero dolce fanciullo. Io fui il fiore del gumnasio, io, spalmato di oliva, ero la forza della palestra. Mia bella casa, mia tepida casa, o padre, o madre, o fiori, o corone! E la gran Dea Cibele apparve e vide la delicata Attis presso il marmoreo mare. Che hai fatto di te? E gli si appressava. Folle di terrore, Attis nella selva rintana».
La lettera poi della Signora terminava per suo conto cosi: «Mio caro Catullo, voi fuggite da me come Attis all’apparizione di Cibele. Sia con vostra pace. La forza del vostro canto mi fa credere che voi non avete, se non in fantasia, lasciata per via alcuna parte di voi. Ah, si, o gran Dea, Dea Cibele, principessa dei monti di Frigia, risparmia a Catullo di far commettere simili sciocchezze. Gli uomini eunuchi non piacciono a nessuno. La stessa Cibele non ci potè metter rimedio, e si accontentò di mutare Attis in un pino. Voi sapete che io vi voglio bene, ma non vi sacrificherei la mia chioma, come fece Berenice: nemmeno per farvi dispetto. Ma ecco la ragione vera della mia lettera: ve la potevo dire in principio e ve la dico in fine. L’operazione di Attis pure a qualcosa può essere utile: non volete più essere mio amante? A piacer vostro. Ma morta io non sono, né voi siete morto. Or dunque, prima che la notte eterna ci addormenti, come avete detto voi nella canzonetta sul passerotto, possiamo diventare buoni amici. E io vi offro la mia pura amicizia. Fra i vostri lepidi bigliettini, se ben vi ricorda, ce ne deve essere uno concepito in questo senso. Se vi degnate passare da me, ve lo farò vedere. Il sistema che vi propongo credo vi sarà utile, anche per la vostra salute, specie se lo osserverete negli altri vostri vagabondaggi. E i Numi concedendo a noi di vivere, avverrà che il nostro amore si incontrerà naturalmente con la Dea Castitade come avvenne a Filèmone e Bauci.
«Anche questa di Filèmone e Bauci, o caro Catullo, è una piacevole storia! Per la loro vita virtuosa ottennero da Giove una ben beata vecchiaia, e poi morire tutti e due insieme. E un giorno mentre pregavano nel tempio, Filèmone s’accorge che la sua Bauci si trasformava in un tiglio. Ha appena tempo di dire: che fai, moglie mia? che lui si trasforma in una quercia. Due piante di lunga vita, ed è questo un modo con cui gli Iddii concedono immortalità ai mortali».
Cosi terminava la lettera della Signora.