Il bacio di Lesbia/XXVIII
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XXVIII
LA LEGGENDA DI ATTIS
Che cosa era questa storia di Cibele? Probabilmente era un Mistero.
Che cosa volevano significare gli antichi con questi misteri?
Che essi non ne sapevano niente.
Non sapendo niente, essi celebravano i misteri. Per tutto l’evo medio seguitarono i misteri: finché venne Galileo, Bacone, e altri sapienti con gran seguito di chimici, e fisici, e sperimentatori. Fu cosi che alla antica ruota del carro fu aggiunta la ruota del progresso che va, che va!
Infine venne Napoleone.
Egli di ferrovie non ne volle sapere, però sentenziò che la parola «impossibile» è senza senso.
Da allora tutto è diventato possibile.
E infatti oggi i nostri ingegneri possono ben ripetere con l’antico ingegnere Archimede: «Dammi un bottoncino, una molletta, e farò saltare il mondo».
Per quello che si sa, la onnipotente Cibele significava la palingenesi o resurrezione di tutte le creature e cose create. Perciò il poeta Pindaro aveva scritto: «Beato chi conosce questi misteri, e poi discende nella vuota terra: egli conosce il principio e il fine delle cose».
E allora perché — si domandava quell’originale di Catullo —, il marito di Cibele andava a caccia disperata del bambino Giove per divorarselo?
Pensa che ti ripensa, arriva a questa conclusione: che il marito di Cibele, che era il Dio, che era il Signore delle cose create, si era pentito della sua creazione. Perciò prima ancora che il bambinello Giove arrivasse alla età di generare, lo voleva distruggere, cioè divorare.
Chi non sa che Giove, con tutti quei suoi congiungimenti, con donne celesti e con donne terrestri, è stato il gran padre dei mortali?
Ed ecco che il mistero si complica con la stessa Dea Cibele. Essa, come madre, fa di tutto per tener lontano quel padre divoratore; ma nel tempo stesso pensa a un altro piano del mondo che fosse esente da gravidanze e da generazioni.
Se non che prima ancora di Cronos, suo marito, era apparso un altro Dio quasi invisibile che si chiamava Eros.
Questo Eros, che sarebbe come un bacillo, una spirocheta, che si annida in quasi tutte le parti del corpo, non esclusi i santi e le sante, ferì con il suo strale la stessa Dea Cibele.
Essa vide un giovinetto che era tanto bello che il suo nome stesso voleva dire «raggio di bellezza». Costui era Attis. E la gran Dea se ne invaghì perdutamente.
Cosi che Catullo che credeva di essere andato con la storia di Cibele lontano dall’Amore, era entrato nel più tremendo mistero dell’Amore.
Attis era il fiore della palestra, la gloria del ginnasio. Nudo, spalmato di verde oliva, era come un Dio. Tra gli efebi era il più prode.
Tanto la Dea Cibele lo amò, che a lui rivelò quei misteri di Cronos e del pentimento del Dio di aver procreato Giove, e con Giove le generazioni degli uomini mortali: e come lei Cibele, per pietà dei mortali, avesse salvato Giove dalla divorazione del padre. Cosi la storia del mondo è fatta di Odio che insegue Amore e di Amore che insegue Odio. Tale mistero Cibele confidò al giovinetto Attis, ma a una condizione: che lui fosse per lei solo, e non di altra donna.
Ora Attis si invaghì, a sua volta, di una ninfa che era assai vaga di sapere i misteri di Cibele. «Se non me li riveli», disse, «o Attis, tu non avrai da me cosa che ti piaccia».
E Attis parlò. Ma dopo che ebbe commesso il peccato, gli si aprirono gli occhi e vide il suo tradimento. Un furore lo prese come se un Nume malvagio lo avesse inebriato, e di sua mano fece sopra le sue carni vendetta. E poi, squassando per la selva i tintinnanti cembali, evocava i Coribanti, e questi tutti impazzirono e fecero il simigliarne, e più non erano uomini.
I giovani poeti della pleiade alessandrina avevano questo costume di prendere queste fole e leggende dei numi, e ornarle e costellarle di imagini magniloquenti.
E questa si potrebbe chiamare una falsa classicità.
Ma in questa narrazione di Catullo si sentiva qualche cosa che non era più arte soltanto: vita e morte si elevarono in contrasto come onde furibonde; follia e saviezza formavano una paurosa statua. La passione di Attis era trapassata, sia pure per un momento, nell’anima di Catullo, si che l’arte pareva vita.
La solenne lingua di Ennio si trasmutava quasi in nuovo linguaggio, e tanto più questa poesia fece impressione fra i giovani poeti di Roma in quanto Catullo era noto per quelle lepidezze brevi e amare; e qui invece era un gran canto.
Siamo in riva dell’Oceano con visione di cose infinite.
Il principio del canto di Attis, è questo:
«Sopra il tempestoso mare l’infelice Attis era con veloce nave arrivato dove, fra le nevi, il monte Ida con la sua selva si eleva. L’immensa passione trasporta il piede veloce di lui nella nera selva dove ha suo regno la Dea Cibele: pazzia e furore si lo accendono che con una affilata selce strappa da sé il peso dell’inguine. E come vide le sanguinanti sue carni a terra e sé non più uomo, trascorrendo e sanguinando il piano del suo sangue, con mani già improvvisamente da virili fatte feminee, afferra furibondo i leggeri timpani dei tuoi sacri misteri, o Cibele, madre; e canta: Tutti venite alle alte selve, o Coribanti!».
Quando fu divulgato in Roma il canto di Attis, se ne fece un gran parlare.
Quell’anima onesta di Cicerone era preso da entusiasmo e diceva per tutta Roma che la lingua di Catone e di Ennio era rinnovellata per virtù di quel cisalpino. Vinto è Euforione, vinto è Àrchia, vinto è Callimaco. Roma ha vinto la Grecia! I tuoi galliambi, o Catullo, son lanciati all’assalto del colle di Elicona con l’impeto delle nostre vittoriose legioni.
Tu sei veramente il principe dei poeti giovani, anche se non proclami: io sono giovane; tu veramente sei fiore nel giardino delle Muse, anche se non gridi: Io, totus floreo.