Il Tesoretto (Assenzio, 1817)/VIII
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VIII.
D’avante al suo cospetto
Mi parve, ch’io vedesse,
Che gente s’accogliesse
Di tutte le nature,
Sì come le figure
Son tutte divisate,
E diversificate,
Per domandare ad essa
A ciascun fia permessa
Sua domanda compiére;
Ciò, ched ella sapea,
Che suo stato rechiede:
Così ’n tutto provede.
Et io sol per mirare
Lo suo nobile affare,
Quasi tutto smarrio.
Ma tant’era ’l disio,
Ch’io avea di sapere
Tutte le cose vere
Di ciò, ch’ella dicea,
Ch’ogn’ora mi parea
Maggior, che tutto ’l giorno:
Sì, ch’io non volsi torno;
Anzi m’inginocchiava,
E mercè le chiamava;
Per Dio, che le piacesse,
Ched ella mi compiesse
Tutta la grande storia,
Dond’ella fa memoria.
E va, diss’essa, via
Amico: ben vorria,
Che ciò, che vuoli ’ntendere,
Tu lo potessi apprendere:
E lo sottile ingegno,
E tanto buon ritegno
Avessi, che certanza
D’ogn’una sottiglianza,
Ch’io volessi ritrare,
Tu potessi apparare,
E ritenere a mente
A tutto ’l tuo vivente.
E cominciò da prima
Di ragione ’nformate
D’angelica sustanza,
Che Dio a sua sembianza
Criò a la primiera.
Di sì ritta maniera
Li fece ’n tutte guise,
Che non li furo assise
Tutte le buone cose
Valenti, e prezïose;
E tutte le virtute
Ad eterna salute.
E diede lor bellezza
Di membra, e di clarezza;
Sì, ch’ogne cosa avanza
Beltade, e beninanza.
E fece lor vantaggio
Tal, com’i’ ti diraggio,
Che non posson morire,
Nè unque mai finire.
E quando Lucifero
Si vide così clero,
Et in sì grande stato
Gradito, et onorato,
Di ciò s’insuperbìo;
E contr’al vero Dio,
Quelli, che l’avea fatto,
Pensato di mal tratto
Credendosi esser pare;
Così volle locare
Sua sedia in aquilone.
Ma la sua pensagione
Li venne sì falluta,
In sì gran malenanza;
Che s'io voglio ver dire,
Chi lo volse seguire,
O tenersi con esso,
Del regno fuor fue messo,
E piovvero 'n inferno
In fuoco sempiterno.
Appresso primamente
In luoco di serpente
Ingannò con lo ramo
Et Eva, e poi Adamo.
E chi, che nieghi, o dica
Tutta la gran fatica,
La doglia, e 'l marrimento,
Lo danno, e ’l pensamento,
E l'angoscia, e le pene,
Che la gente sostene?
Lo giorno, 'l mese, e l’anno
Venne di quello ’nganno.
E ’l laido ingenerare,
E lo grave portare,
E lo parto doglioso,
E ’l nutrir faticoso,
Che voi ci sofferete,
Tutto perciò l'avete.
E 'l lavorìo di terra,
Invidia, e astio, e guerra;
Omicidio, e peccato
Da ciò fue generato.
Che ’nnanti questo tutto
Facea la terra frutto
Sanza nulla semente,
Tocca a Divinitate.
Et io non mi trametto,
Di punto così stretto:
E non aggio talento
A sì gran fondamento
Trattar con uomo nato.
Ma quello, che m’è datto
I’ lo faccio sovente:
Che se tu poni mente,
Ben vedi gli animali,
Ch’io non li faccio iguali,
Nè d’una concordanza
In vista, ne ’n sembianza.
E d’erbe, e fiori, e frutti,
Così l’alberi tutti
Vedi, che son divisi
Le nature, e li visi;
A ciò, ch’i’ t’ho contato
Che l’uomo fue plasmato,
Poi ogne creatura:
Se ci ponesti cura,
Vedrai palesemente,
Che Dio onnipotente
Volle tutto labore
Finir ne lo migliore:
Ch’a chi bene incomenza,
Audivi per sentenza,
Che ha ben mezzo fatto.
Ma guardi poi lo tratto:
Che di reo compimento
Avvien dibbassamento
Di tutto ’l convenente.
Da la gente e lodato.
Sì come dice un mutto,
La fine loda tutto.
E tutto ciò, che face,
O pensa, o parla, o tace,
In tutte guise intende
A la fine, ch’attende.
Dunqua è più grazïosa
La fine d’ogne cosa,
Che tutto l’altro fatto.
Però ad ogne patto
Deve uomo antivedire
Ciò, che porrà seguire
Di quello, che comenza,
Che ha bell’apparenza.
Che l’uom (se Dio mi vaglia)
Creato fue san faglia
La piu nobile cosa,
E degna, e prezïosa
Di tutte creature.
Così quel, ch’è ’n alture
Li diede signorìa
D’ogne cosa, che sia,
In terra figurata.
Ver’è ch’è vizïata
Da lo primo peccato,
Donde ’l mondo è turbato.
Vedi, ch’ogn’animale
Per forza naturale
La testa, e ’l viso bassa
Verso la terra bassa,
Per far significanza
Che son sanza ragione,
E seguon lor volere
Sanza misura avere.
Ma l’uomo ad altra guisa
Sua natura divisa
Per vantaggio d’onore;
Che ’n alto a tutte l’ore
Mira per dimostrare
Lo suo nobile affare:
Ch’egli ha per conoscenza
E ragione, e scïenza.
De l’anima de l’uomo
Io ti diraggio, como
È tanta degna, e cara,
E nobile, e preclara,
Che puote a compimento
Aver conoscimento
Di ciò, che è ordinato,
Sol se non fue servato
In divina potenza.
Però sanza fallenza
Fue l’anima locata,
E messa consolata
Ne lo più degno loco,
Ancor, che paja poco,
Et è chiamato core.
Ma ’l capo n’è signore,
Che molto è degno membro:
E, s’io ben mi rimembro,
Ess’è lume, e corona
Di tutta la persona.
Ben è vero, che ’l nome
Che l’anima ’mpotenza,
Si divide, e si parte
Et avrà plusor parte.
Che, se tu poni cura,
Quando la creatura
Vedem vivificata,
È anima chiamata.
Ma la voglia, e l’ardire
Usa la gente dire,
Quest’è l’animo mio,
Questo voglio, e disio.
E l’uom savio, e saccente
Dicon, ch’ha buona mente.
E chi sa giudicare,
E per certo ritrare
Lo falso, e lo deritto
Ragione è ’n nome ditto.
E chi saputamente
Un grave punto sente
In fatto, ’n ditto, e ’n cenno,
Quell’è chiamato senno.
E quando l’uomo spira,
La lena manda, e tira;
È spirito chiamato.
Così t’aggio contato,
Che ’n queste sei partute
Si parte la virtute;
Che l’anima fue data,
E così nominata.
Nel capo son tre celle:
Et io dirò di quelle.
Davanti è lo ricetto
Quello, che puote intendere.
In mezzo è la ragione,
E la discrezïone,
Che scerne bene, e male,
E lo terno, e l’iguale.
Di retro sta con gloria
La valente memoria,
Che ricorda, e ritiene
Quello, che ’n essa viene.
Così, se tu ripensi,
Son fatti i cinque sensi;
Li qua’ ti voglio dire:
Lo vedere, e l’odire,
L’odorare, e ’l gustare,
E appresso lo toccare.
Questi hanno per offizio,
Che l’olfato, e lo vizio,
Li fatti, e le favelle
Riportano alle celle,
Ch’io v’aggio nominate,