Il Sogno di una notte d'estate/Atto primo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
◄ | Interlocutori | Atto secondo | ► |
IL SOGNO
DI UNA NOTTE D’ESTATE
ATTO PRIMO
SCENA I.
Atene. — Una stanza nel palazzo di Teseo.
Entrano Tesso, Ipolita, Filostrato e seguaci.
Tes. Bella Ipolita, l’ora del nostro imeneo si avvicina rapidamente: quattro fortunati giorni condurranno una luna novella; ma quanto l’antica, oimè! mi sembra lenta a decrescere! Ella ritarda l’oggetto de’ miei desiderii, come una madrigna o una vedova perversa che consuma i redditi del giovine erede.
Ip. Quattro giorni saran bentosto inghiottiti dalle notti, e quattro notti avranno in breve fatto scorrere il tempo come un sogno: allora la luna, come un nuovo arco d’argento teso nei cieli schiarirà le tenebre e la festa dei nostri amori.
Tes. Andate, Filostrato, invitate la gioventù ateniese ai sollazzi nostri; risvegliate gli spiriti vivi e leggieri della gioia; mandate ai funerali la malinconia, perocchè sì trista e pallida compagna non deve far parte del nostro banchetto. (Fil. esce) Ipolita, è colla mia spada ch’io vi ho fatto la corte, ed è oltraggiandovi che ho ottenuto il vostro amore; ma vi sposerò sotto più dolci auspicii; e le nostre nozze saran celebrate fra la pompa, i trionfi e l’allegrezza. (entrano Egeo, Ermia, Lisandro e Demetrio)
Eg. Salute al nobile Teseo, nostro illustre duca.
Tes. Grazie, buon Egeo: quali novelle rechi?
Eg. Vengo col cuore pieno d’angoscia a lagnarmi della figlia mia, della mia Ermia. — Fatevi oltre, Demetrio! — Mio nobile principe, questo giovine ha il mio assenso per disposarla. — Innanzi, Lisandro. E questo, mio grazioso duca, ha ammaliato il cuore della figlia mia. Sei tu; sì, sei tu, Lisandro, che le hai dato rime funeste, e che hai ricambiati con mia figlia pegni d’amore. Tu hai, al chiaror della luna, cantato sotto le sue finestre con voce perfida versi ingannatori; hai sorpresa e sedotta la sua immaginativa con armille intessute de’ tuoi capelli, con anelli, mazzi di fiori, ed altre frasche, presaghe sempre di sventure alla credula gioventù! Tu hai bandita la saviezza dal cuore di mia figlia, e mutata l’obbedienza, ch’ella deve a suo padre, in temerità ribelle. E, nobile duca, supposto ch’ella osi rifiutare qui dinanzi a Vostra Altezza di divenire sposa di Demetrio, io invoco l’antico privilegio di Atene. Siccome ella è mia, così io posso disporre di lei; e voglio ch’ella si unisca a questo cavaliere o alla morte; in virtù della nostra legge, che ha provveduto espressamente ad un tal caso.
Tes. Che rispondete voi, Ermia? giovine bellezza, pensateci. Vostro padre dovrebb’essere un Dio per voi; è egli che ha dato essere e forma a tutte le vostre attrattive; voi non siete dinanzi a lui che un’imagine di cera che da lui ripete l’impronta; ed è in suo potere di lasciar sussistere la figura o di annientirla. — Demetrio è un amabile e degno cavaliere.
Er. Tale è ancora Lisandro.
Tes. Sì, egli è per se stesso pieno di merito: ma non avendo il voto e l’assentimento di vostro padre, è l’altro che deve ottenere la preferenza ai vostri occhi.
Er. Vorrei che mio padre volesse vederlo co’ miei.
Tes. Tocca più ai vostri vedere assecondando il giudizio del genitore.
Er. Supplico vostra Altezza di perdonarmi. Io non so da qual forza segreta sono animata, nè a qual segno il mio pudore può essere compromesso, dichiarando qui i miei veri sentimenti dinanzi a questa augusta assemblea. Ma io scongiuro Vostra Altezza di farmi conoscere quello che di più funesto mi può avvenire, ov’io rifiuti di sposar Demetrio.
Tes. Vi toccherà o di subire la morte, o di rinunciare per sempre al consorzio degli uomini. Perciò, bella Ermia, interrogate il vostro cuore; esaminate la vostra giovine anima; scrutate addentro nelle vostre inclinazioni, e vedete se, qualora rifiutaste di cedere alla voce di vostro padre, vi sentireste atta a sostenere l’assisa delle vestali, ad esser per sempre chiusa nell’ombra di una solitudine per vivervi sterilmente la vita, cantando pallidi inni all’insensibile e fredda Diana. Fortunate quelle che possono vincere tanto i loro appetiti da sostenere quel solitario pellegrinaggio! ma più fortunata è ancora sulla terra la rosa raccolta, che l’altra che appassendosi sulla sua vergine spina, cresce, vegeta e muore isolata in una trista e gelida tranquillità!
Er. Così voglio io crescere, così viver e così morire, mio principe, prima che assoggettarmi all’impero di un uomo, di cui abborro portare il giogo, e di cui il mio cuore non acconsente a riconoscere la sovranità.
Tes. Prendete tempo per riflettere; e alla prossima luna, giorno fermato fra la mia amante e me per un vincolo perpetuo, in quel giorno stesso preparatevi a morire per la vostra disobbedienza, od a sposare Demetrio, come vostro padre desidera, o a pronunciare sull’altare di Diana il voto che vi consacra ad una vita austera, e ad una solitudine che non avrà fine.
Dem. Piegatevi, tenera Ermia. E voi, Lisandro, cedete l’impotente vostro titolo ai miei sicuri diritti.
Lis. Demetrio, voi possedete l’amor di suo padre: sposatelo; ma lasciatemi l’amore di Ermia.
Eg. Beffardo, è vero, egli possiede il mio amore, e il mio amore gli farà dono di tutto ciò che gli appartiene: ella è mia, ed io a lui trasmetto tutti i miei diritti.
Lis. Mio principe, io sono di una nascita onorevole come la sua; le mie ricchezze son pari alle sue, e il mio amore è maggiore di quello ch’egli sente: le mie masserizie sono in bel ordine, e vincono quelle di Demetrio; ciò poi che mi fa superiore a lui è l’essere amato dalla bella Ermia. Perchè dunque rimetterei de’ miei diritti? Demetrio, lo proverò con danno della sua testa, ha amoreggiata la figlia di Nedar, Elena, e ne ha sedotto il cuore; la povera tapina è invasa da una passione estrema, e adora e idolatra quest’uomo incostante e perverso.
Tes. Debbo consentire che una tal voce pervenne anche a me, e ch’io aveva intenzione di parlarne a Demetrio. Pieno de’ miei troppi negozi, una tale idea mi uscì dalla mente. Ma venite ora, Demetrio, e voi anche, Egeo: seguitemi. Ho alcune istruzioni particolari a darvi. — Rispetto a voi, bella Ermia, cercate di fare uno sforzo sopra voi medesima onde conformarvi ai voleri di vostro padre, altrimenti la legge d’Atene, che non possiamo addolcire, vi costringe a scegliere fra la morte e una vita solitaria. — Venite, mia cara Ipolita. Come vi sentite, amica mia? Demetrio e voi, Egeo, seguiteci. Debbo affidarvi un ufficio riguardante il nostro matrimonio, e conferire con voi sopra un soggetto che al pari di me v’interessa.
Eg. Con piacere e rispetto noi vi seguitiamo. (Escono Tes., Ip., Eg., Dem. e seguaci)
Lis. Ebbene, mio amore? Perchè siete sì pallida? Qual cagione ha sì tosto appassite le rose del vostro volto?
Er. Facilmente la mancanza di rugiada, che pur potrei prodigare, giovandomi delle nubi de’ miei occhi.
Lis. Oimè! per tutto quello che ho potuto leggere nelle istorie, e che ho inteso narrare, il corso degli amori sinceri non fu mai senza torbidi e tempeste. Ma ora gli ostacoli procedono dalla differenza delle condizioni...
Er. Gran sorgente di mali è la disuguaglianza nell’amore.
Lis. Una diversità di anni...
Er. Peggio è ancora che l’autunno sia unito alla primavera.
Lis. Ora una scelta forzata dalle cieche brame d’amici imprudenti...
Er. Infernal cosa scegliere l’oggetto dei proprii amori cogli occhi altrui.
Lis. O se si trova dolcezza nella scelta, la guerra, la morte o i mali vengono ad annullarla; la felicità dell’amore passa come un suono, scompare come un’ombra, non dura che l’istante di un sogno, svanisce come il lampo in una notte tenebrosa, che in un volger d’occhi rischiara il cielo e la terra; e prima che alcuno abbia avuto il tempo di dire, mirate! le tenebre l’hanno inghiottito; tanto tutto ciò che è splendido e glorioso cade rapidamente nel desolante caos!
Er. Se i veri amanti son sempre stati attraversati, ed è legge stabilita dal destino, apprendete dunque a subirla con pazienza, poichè è una sciagura ordinaria e così inevitabile, come i pensieri, i sogni, i sospiri, i desiderii e le lagrime sono inseparabili da un cuore tocco dal mal d’amore.
Lis. Prudente e savio consiglio! Ascoltami dunque, Ermia: ho una zia che è vedova, ricca e senza figliuoli. La sua casa è lontana da Atene sette leghe; ed ella me riguarda ed ama come unico erede suo. Colà, Ermia, posso sposarti, senza che la dura legge d’Atene me lo divieti. Se mi ami, fuggi dalla casa di tuo padre, dimani durante la notte; e in quel bosco a una lega dalla città, dove ti trovai una volta con Elena, mentre andavate a porgere il vostro culto annuale alla prima aurora di maggio, ti prometto di aspettarti.
Er. Mio buon Lisandro, io ti giuro per l’arco più forte di Cupido, per la più sicura delle sue quadrelle dorate, pel dolce candore delle colombe di Venere, pei nodi secreti che incatenano le anime, e fanno prosperare gli amori; pei fuochi di cui arse la regina di Cartagine, allorchè vide il perfido Troiano fuggente a piene vele; per tutti i giuramenti che gli uomini han violati, giuramenti più numerosi che noi sian mai stati i voti delle femmine; ti giuro che nel luogo che mi hai indicato dimani certamente ti raggiungerò.
Lis. Mantieni la tua promessa, mio amore. — Ecco Elena che si avanza. (entra Elena)
Er. Gli Dei vi accompagnino, vaga Elena! Dove andate?
El. Mi chiamate voi vaga? Ah! ritiratevi e separate questa parola dal mio nome. Demetrio ama la vostra bellezza; oh bellezza fortunata! I vostri occhi son l’astro degli amanti; e la dolce melodia della vostra voce lusinga più l’orecchio del pastore che il canto della lodola, allorchè le messi verdeggiano e le rose sbucciano dalle spine. Hannovi malattie contagiose: oh perchè non lo è del pari la beltà! Io vi rapirei la vostra prima di lasciarvi. Il mio orecchio si insignorirebbe della vostra voce, i miei occhi dei vostri sguardi, e la mia lingua del dolce vostro accento. Se l’universo fosse mio, tutto, eccetto Demetrio, io vel darei per adornarmi dei vostri vezzi! Ah! insegnatemi la magia dei vostri occhi, e con qual’arte voi governate i moti del cuor di Demetrio.
Er. Non vibro mai su di lui che uno sguardo di cruccio, e nondimeno ei mi ama sempre.
El. Oh! se il mio sorriso potesse far la fortunata impressione che produce il vostro occhio minaccioso!
Er. Io lo maledico, ed ei mi rende amore per maledizione.
El. Oh! se le mie preghiere potessero svegliare in lui egual tenerezza!
Er. Più io l’odio, e più ei mi segue.
El. Più io l’amo, e più ei mi odia.
Er. La sua folle passione, Elena, non è colpa mia.
El. No, è colpa della vostra beltà. Così fosse mio un tal fallo.
Er. Consolatevi, ei non vedrà più il mio volto. Lisandro ed io vogliamo fuggir da questa città. Atene, prima che io mirassi Lisandro, mi sembrava un paradiso: qual sortilegio vi è dunque nel mio amante per aver così mutato il mio cielo in inferno!
Lis. Elena, noi vogliamo aprirvi le nostre anime. Dimani, durante la notte, allorchè Febea specchierà l’argenteo suo volto nelle onde, e adornerà di liquidi diamanti i rigogliosi cespugli, ora propizia che cela le colpe degli amanti, noi abbiamo risoluto di fuggire passando furtivamente i ponti di Atene.
Er. E nel bosco in cui spesso voi ed io solevamo riposarci sopra un letto di giovani e molli giunchi, versando nel seno l’una dell’altra i segreti di cui i nostri cuori erano pieni, andremo dimani il mio Lisandro ed io, e di là partiremo distogliendo per sempre i nostri occhi da Atene, per correre in traccia di nuovi amici e di una nuova società. Addio, cara compagna della mia infanzia e de’ miei giuochi, innalzate voti per noi, e la sorte favorevole vi conceda infine il vostro Demetrio! Lisandro, mantenete la vostra parola: convien che asteniamo i nostri occhi dal cibo degli amatori fino a dimani nella notte profonda. (esce)
Lis. Così farò, mia Ernia. — Elena, addio; possa Demetrio adorarvi come voi lo amate. (esce)
El. Quanta differenza nella felicità dei diversi mortali! Io sono reputata in Atene bella quanto essa: ma che vale? Demetrio non pensa come gli altri, e non giudicherà mai come tutti, eccetto lui, giudicano. Ciechi sono i suoi occhi, struggendosi per gli occhi di Ermia: ciechi i miei, compresi tanto essendo del merito suo. Gli oggetti più vili possono dall’amore essere trasformati in cose di gran prezzo. L’amore non vede cogli occhi del corpo, ma con quelli dell’anima, ed ecco perchè l’alato Cupido è dipinto cieco; e perchè il suo spirito non è dotato di alcun discernimento: ali e non occhi sono l’emblema di una foga inconsiderata: l’amore è un fanciullo che spesso fallisce nelle sue elezioni. Come i sollazzevoli garzoncelli mentiscono nei loro puerili diporti, così il fanciullo Amore mente sempre e con indifferenza. Prima che Demetrio avesse veduto gli occhi di Ermia, esciva dalla sua bocca un’onda di giuramenti ch’ei non era che di me sola; ma tosto che il suo cuore ha sentita l’impressione dei vezzi di lei, i suoi giuramenti si sono disciolti e svaniti, come neve ai raggi del sole. Vuo’ andargli ad annunziare la fuga della bella Ermia; onde dimani ei la insegua nel bosco; e se ottengo alcuni ringraziamenti per tale rivelazione, comecchè a caro prezzo, saranno per me un gran sollievo ai miei mali. (esce)
SCENA II.
Una capanna.
Entarono Snug, Bottom, Flute, Snout, Quinzio e Starveling.
Quin. È qui tutta la brigata?
Bot. Fareste meglio a chiamarli ad uno ad uno, come sta scritto.
Quin. Ecco la pergamena dei nomi di coloro che son creduti idonei da tutta Atene a recitare nel nostro intermedio, dinanzi al duca e alla duchessa, nel giorno delle loro nozze.
Bot. Prima di tutto, buon Pietro Quinzio, diteci il soggetto della rappresentazione; quindi leggete il nome degli attori; poi distribuite le parti.
Quin. In verità la nostra rappresentazione è la dolorosissima e crudelissima morte di Piramo e Tisbe.
Bot. Un capo-lavoro, ve ne fo fede, e ben allegro. — Ora, buon Pietro Quinzio, chiamate gli attori per ordine. Messeri, in fila.
Quin. Rispondete com’io chiamo. Nick Bottom, tessitore.
Bot. Presente; dite qual parte ho da compiere, e procedete.
Quin. Voi, Nick, dovete far da Piramo.
Bot. Chi è questo Piramo? Un amante o un tiranno?
Quin. Un amante che si uccide da sè molto nobilmente per amore.
Bot. Tal parte richiederà lagrime nell’esecuzione. Se son io che la fo, l’uditorio badi a’ suoi occhi; susciterò tempeste cogli alti miei gemiti. — Nondimeno le mie parti forti sono quelle dei tiranni; e l’Ercole furibondo, allorchè sbrana un gatto, è quella che meglio mista:
«Treman gli scogli, |
Sublime! sublime! — Nominate ora gli altri attori. — Quell’era la possa d’Ercole, la possa di un tiranno: il tuono di un amante dev’essere più flebile.
Quin. Francesco Flute, racconciatore.
Flu. Presente, Pietro Quinzio.
Quin. Convien vi assumiate la parte di Tisbe.
Flu. Chi è Tisbe? Un cavaliere errante?
Quin. È la donna che Piramo ama.
Flu. No, non vuo’ parti da donna; la barba già mi cresce.
Quin. È tuttuno; la reciterete colla maschera, e potrete parlare come vorrete.
Bot. Se posso nascondere il mio viso sotto la maschera, lasciatemi recitare anche la parte di Tisbe: vedrete come saprò aguzzare la voce femminilmente: Tisbe, Tisbe..... ah Piramo mio amatore! la tua diletta Tisbe, la tua donna cara!
Quin. No, no, dovete far da Piramo, e voi, Flute, da Tisbe.
Bot. Bene, continuate.
Quin. Robin Starveling, sartore.
Star. Presente, Pietro Quinzio.
Quin. Voi, Robin Starveling, rappresenterete la madre di Tisbe. — Tom Snout, calderaio.
Snout. Presente, Pietro Quinzio.
Quin. Voi farete da padre di Piramo; ed io da padre di Tisbe; a voi, Snug, falegname, tocca la parte del Leone; ed ecco, io spero le cose ben ordinate.
Snug. L’avete scritta la parte del Leone? Se questo è, datemela, ve ne prego, perchè io son tardo d’intendimento.
Quin. Potete improvvisarla, perchè non vi è che da ruggire.
Bot. Lasciatemi fare allora anche il Leone: io ruggirò in guisa da far dire al duca: ruggisca di nuovo, oh ruggisca di nuovo.
Quin. Se compieste la vostra parte in modo troppo terribile, spaventereste la duchessa e le signore tanto da farle gridare; lo che basterebbe perchè fossimo tutti appiccati.
Tutti. Ciò basterebbe per far appiccare tutti i figli delle nostre madri.
Bot. Vi concedo, miei amici, che se spaventaste le signore tanto da far perdere loro lo spirito, esse non avrebbero alcun ritegno per farci appiccare: ma io aggraverò la mia voce in modo da ruggire come una tenera colomba; ruggirò in guisa che crederete di udire un rosignuolo.
Quin. Voi non potete far che la parte di Piramo, perocchè Piramo è un uomo d’un bel volto, un uomo de’ più ben fatti che veder si possano in un bel giorno d’estate; un uomo amabile e vezzoso: vedete dunque che è necessario che recitiate da Piramo.
Bot. Ebbene, lo farò. Qual barba mi anderà meglio?
Quin. Quella che vorrete.
Bot. Declamerò o colla vostra barba color di paglia, o con quella color d’arancio, o con quella color di porpora, o con quella colore delle teste di Francia, cioè perfettamente gialla.
Quin. Alcune delle vostre teste francesi non hanno capelli, e quindi voi declamereste a testa nuda. — Ma animo, signori; ecco le vostre parti; ed io debbo pregarvi e supplicarvi di ben apprenderle. Dimani venite a trovarmi nel bosco vicino al palazzo, a un miglio dalla città, al chiaro di luna; là faremo la nostra prova; perchè se ci radunassimo in Atene avremmo dietro una folla di curiosi, e il nostro intento diverrìa manifesto. Frattanto andrò a notar gli apparecchi, di cui il nostro dramma abbisogna. Vi prego di non mancare al ritrovo.
Bot. Verremo; e là potremo far la prova con maggior coraggio e libertà. Pensate ad essere esatti; addio.
Quin. Alla quercia del duca ci incontreremo.
Bot. A meraviglia; colà ci rivedrete immancabilmente. (escono)