XXVII. Il vescovo del diavolo

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XXVI


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XXVII ed ultimo.

Il vescovo del diavolo.


Il suicidio di Bambina passò inavveduto. Non vi era a Napoli, a quell’epoca, medico del municipio della polizia per constatare il decesso, ed il parroco trovava sempre buone, naturali ed opportune le morti ove eranvi dei funerali da celebrare.

Quando Don Diego mise il piede in casa sua, Bambina si decomponeva, dopo quattro giorni in una specie di nicchia, cui lady Keith le aveva comperata, in una cappella di Confraternita al cimitero.

Bambina aveva letto in qualche libro, od aveva udito raccontare da suo fratello, gli effetti dell’avvelenamento per mezzo della morfina, a proposito della singolarità di questo tossico, il quale uccide l’uomo e non uccide il coniglio, neppure ad alte dosi. Il coniglio l’elimina per la secrezione urinaria. Ella aveva calcolato sur una morte relativamente dolce, lenta, senza sofferenze atroci, senza le convulsioni che deformano, dopo aver [p. 429 modifica]concesso due o tre ore di delizie e lasciato al suo amante una di quelle memorie, cui nella vita nulla cancella, nulla attenua.

Il P. Piombini non venne.

L’agonia della povera creatura fu atroce. Non pertanto ella non si pentì, non invocò soccorso. Al contrario, spiegando il ritardo del P. Piombini per un disastro sopravvenuto, il suo desiderio di morte aumentò.

All’alba dell’indomani, Concettella entrando nella camera, trovò Bambina morta sul letto di suo fratello, i lineamenti composti, il viso calmo, come se ella si fosse addormentata dopo una insonnia tempestosa. Concettella si spaventò, ma non sospettò neppure del suicidio della fanciulla. Ella si disse:

— Ahimè! ci lamentiamo del dolore? ma no, è la gioia che uccide!

Don Gabriele, non curò cavarla di errore.

Il parroco che intravide forse la verità, si guardò bene dal farne motto. Imperocchè, denunziare la faccenda alla polizia gli era un consegnarle il cadavere; e non più cadavere, non più funerale, non più guadagni. Il santo uomo si tacque.

Bambina disparve come una visione angelica: al risveglio nella realtà della vita! Ella era passata senza strepito, come i nobili e grandi sacrifizi. Forse, quando la sua agonia solitaria cominciò, quando il morsicare del tossico la contorse, ella agognò di avere al suo capezzale una figura amica, degli sguardi in lagrime, delle labbra che con il magnetismo della parola e del bacio [p. 430 modifica]l’avessero calmata. Morire prima dei venti anni l’anima assetata dell’incognito infinito dell’amore, in mezzo agli apparecchi della gioia che manca all’appello, morire sola, di sua mano, per distornare la folgore da un capo venerato, sotto le mine di tutti i disinganni, vedendo la felicità, come dal fondo della valle immersa di già nella notte si vedono gli ultimi raggi del sole arroventare i picchi delle montagne, morir così è spaventevole! gli è un morire del corpo, dell’anima, nel passato, nell’avvenire. Bambina sentì forse nel suo interno questo grido della vita che implorava grazia, intravedendo il vago immenso della speranza che si gonfiava e sollevava in lontananza. Ella non cedè, non fece appello alla mano che avrebbe potuto salvarla. Si ripeteva invece con terrore: Me vivente, egli sarebbe a me ed essi l’ucciderebbero! Spirò su questo pensiero, ed il sorriso, all’idea ch’ella lo avesse salvo, fiorì sul suo sembiante.

Don Diego, trovando la sua casa vedova del raggio che la illuminava, si sentì fulminato. Vi sono dei dolori che esasperano, dei dolori che schiacciano, dei dolori che lacerano i nervi e colpiscono il cervello. Don Diego ascoltò il racconto che gli fece Concettella in lagrime, come un uomo le cui facoltà intellettuali sono annientate. Di un pallore livido, gli occhi fissi, le pupille devaricate e senza sguardi come colpite da amaurosi, le sopracciglia arruffate, immobile, insensibile, la bocca semichiusa e senza respiro, l’orecchio teso come qualcuno che crede udire un rumore che pur non ri[p. 431 modifica]suona, accasciato sur una seggiola, come un cubo di carne disossata, egli lasciò parlare la donna senza interromperla nè con un gesto, nè con un grido, non mostrando alcun interesse, alcuna curiosità, non facendo la minima osservazione, nè manifestando il minimo rimpianto. Un medico che gli avesse tastati i polsi, non li avrebbe sentiti. Concettella gli offrì da mangiare, prodigando le consolazioni. Don Diego mangiò tutto, bevve tutto, senza la più piccola coscienza di ciò ch’e’ faceva, non accorgendosi nè del giorno nè della notte, non dormendo, perocchè tutto dentro a lui era agghiacciato. Lo si sarebbe detto la moglie di Lot cangiata in statua di sale!

Questa specie di catalessia durò cinque giorni. Concettella non cessò di parlare, di narrargli i più minuti particolari della catastrofe. Ma Don Diego non aveva udito che un motto: ella è morta! E le ultime parole di sua sorella, la lettera di addio che ella gli aveva lasciato, erano cadute sul suo spirito come la pietra del sepolcro. Concettella che si sentiva tuffata in un mistero, non osava consultare i vicini, nè chiamare un medico, paventando di rischiarare un delitto. Don Gabriele l’aveva atterrita; poi essendo ritornato per visitare Don Diego, le aveva consigliato di tenersi cheta e di lasciare agir la natura.

Occorse però una circostanza in cui Concettella fu costretta a rompere il riserbo. Don Domenico Taffa si presentò per parlare a Don Diego, da parte del ministro dei culti, ed insistè per vederlo, malato o no. Egli portava un ordine al re. Gli era [p. 432 modifica]giusto il quinto giorno dopo l’arrivo del vescovo. Concettella istruì allora l’inviato ministeriale della catastrofe che era avvenuta, del gran dolore di questo povero fratello, dello stato in cui era caduto, e lo introdusse con precauzione nel salotto.

Don Domenico restò egli stesso colpito alla vista di quella ruina opaca, che si sarebbe detto il cenotaffio vivente di un’anima. Si sarebbe ritirato, se non avesse avuto un dovere da compiere, un messaggio reale da comunicare. E’ non poteva retrocedere. Si avvicinò dunque dolcemente e restò in piedi nel raggio visuale del vescovo.

Don Diego cominciò a guardarlo senza vederlo. Poi le sue pupille, sempre enormemente dilatate, quasi avesse preso della belladonna, si contrassero, si restrinsero, si animarono, s’infiammarono per gradi. L’iride scintillò e dardeggiò l’odio. Don Diego riconobbe il satana, che aveva il primo contaminato sua sorella col pensiero ed aveva ordito progetti infami su di lei. Un rossore subito salì al suo viso. Le labbra scialbe fremettero e si colorarono.

Don Domenico comprese la reazione ch’egli provocava in quell’anima assiderata, e fu sinceramente contento del disgelo che si operava. Per determinarne la rottura completa, e’ si tacque e squadrò il vescovo. Infatti questi principiò dal dimenarsi sulla sua sedia con impazienza, poi si alzò come di soprassalto e gridò:

— Che cosa venite voi a fare qui, signore?

Il sortilegio era rotto. Don Domenico s’inclinò dunque con rispetto e s’affrettò a rispondere: [p. 433 modifica]

— Vengo a pregare V. E. Rev. dalla parte di S. E. il ministro del culto di presentarsi domani al Palazzo Reale, il re desiderando intrattenersi con lei. S. M. fissa la vostra udienza alle nove del mattino. Uscendo dal colloquio del re, se V. E. Rev. volesse venir pure a parlare col ministro, questi ne sarebbe lietissimo.

Don Diego era divenuto il vescovo.

Il vescovo ecclissò ed annullò con un colpo magico il fratello.

E’ si riassise lentamente e rispose:

— Andrò.

Fece poscia un saluto freddissimo all’impiegato e lo congedò con un gesto. Don Domenico non rispose che fra sè stesso e col pensiero:

— Ecco un mariuolo finito che ci ha tutti burlati e battuti! Ci ritroveremo più tardi, non dubiti, e gli faremo espettorare il capitale con gl’interessi composti.

Concettella completò la guarigione.

Il dì seguente, alle otto del mattino, una vettura si fermò alla porta di Don Diego. Alle nove meno un quarto, egli era a Palazzo per la sua udienza.

Alle nove il re lo riceveva.

Una circostanza colpì da prima Don Diego. Re Ferdinando che discendeva di carrozza per baciar la mano al più umile prete e frate cui incontrava per istrada in campagna, non baciò l’anello episcopale del nuovo unto.

— Come? sclamò subito il re con agro umore, è stato mestieri farvi ricordare il vostro dovere [p. 434 modifica]di venirmi ad informare, non appena di ritorno da Roma, del colloquio che avete avuto col papa?

— Supplico V. M. di scusarmi, rispose Don Diego con calma e dignità. Mettendo il piede in casa mia, vi ho trovato un disastro che mi ha annientato.

— Che disastro?

— Mia sorella si era suicidata.

Il re ebbe una scossa. Poi susurrò come si parlasse da solo:

— Ella diceva dunque il vero!

Seguì un silenzio di qualche minuto, durante il quale Don Diego credè avvedersi dal movimento delle labbra del re ch’ei recitasse una qualche preghiera. Poscia soggiunse:

— Quale è stata dunque l’ultima conversazione che avete avuto con Sua Santità? Pio IX n’è stato forte offeso e me n’ha fatte presentare delle rimostranze.

Don Diego raccontò la verità nei suoi minimi particolari. Il re ascoltò, contorcendosi sulla sua sedia. Don Diego vedeva spuntare un’esplosione formidabile.

E’ s’ingannava.

— Io vedo, sclamò Ferdinando, che se noi fossimo ancora ai tempi del marchese Tanucci e ch’e’ bisognasse avere ancora delle lotte di supremazia con la Santa Sede, per la sua superiorità sul Regno, noi potremmo contare su voi. Grazie. Io amo i lottatori.

— Vostra Maestà può contare sulla mia indipendenza, rispose Don Diego con modestia. Io era [p. 435 modifica]napolitano ed italiano innanzi essere prete e vescovo.

— Io non gradisco quel gergo, monsignore. Indipendenza! Italiano!.... cosa è codesto? Voi siete suddito: ecco tutto.

— Sire, replicò Don Diego, ecco precisamente ciò che il pontefice mi ha detto: Voi siete suddito del capo della Chiesa avanti tutto: ricordatevi di ciò! Ebbene, come vescovo, io non sono suddito di alcuno. Io non dipendo che dalla mia coscienza.

Il re lo squadrò da capo ai piedi con uno sguardo freddo e scosse la cenere del suo sigaro. Egli aspettava forse un’attenuazione alla professione di fede del vescovo.

Questi si tacque e si restrinse ad ascoltare l’interrogatorio reale. Ferdinando dimandò:

— Avete detto la messa, monsignore?

— No, sire.

— Siete ancora digiuno?

— Maestà, sì.

— Siete preparato?

— Io lo sono sempre, osservò Don Diego contraendo un pochino gli angoli della bocca.

— Voi andrete dunque a celebrare nella mia cappella. Io non ho ancora udita la messa.

— Ai vostri ordini, sire.

Il re diede l’ordine ad un maggiordomo e Don Diego fu condotto nella cappella del Palazzo. Un quarto d’ora dopo, il vescovo del diavolo era all’altare, ed il re, la regina e tutta la loro nidiata erano nella tribuna.

La messa andò per treno express. Quando S. M. [p. 436 modifica]si alzò, al vangelo, i suoi sguardi caddero sul conte di Altamura inginocchiato alla porta della tribuna reale. Ferdinando gli fece un piccolo segno cogli occhi.

Altra osservazione di Don Diego. Il re non si comunicò, come faceva ogni giorno.

— Quel don Chisciotte mi odia decisamente, si diceva Don Diego sbrigando la sua bisogna per tornare al più presto in casa sua.

Quando la messa fu finita, il conte di Altamura si tirò da banda per lasciar passare il re. Il re non uscì e lo chiamò.

— Che c’è? dimandò egli.

— Ho degli ordini a prendere da V. M.

— Dopo la messa, rispose il re.

— Ma....

— Ma che? Tu credi dunque che la sia una messa quella che quel vescovo di Satana ha divorata al galoppo?

— Gli è tutto ciò che io voleva dimandare alla M. V., rispose il conte umilmente. Quel bellimbusto è sempre il vescovo del diavolo per V. M.

— Sicuramente, sicuramente.... più che mai, replicò il re.

— Allora?....

— Idiota, triplice idiota! scoppiò il re volgendogli le spalle e rimettendosi in ginocchio.

Il suo cappellano ordinario usciva dalla sacristia per dire la messa ortodossa.

Il conte di Altamura andò ad appostarsi alla porta del palazzo.

Due signori, l’uno, un vegliardo curvato ed af[p. 437 modifica]franto, l’altro, un giovane dagli occhiali turchini, gironzavano sulla piazza. Appena queste due persone scôrsero il conte, si avvicinarono noncurantemente al padiglione ove tenevasi il portinaio. Il conte uscì nel tempo stesso che la carrozza di Don Diego. E’ fece un segno. Il vecchio ed il giovane sorrisero.

Don Diego si recò dal ministro, il quale credendolo in gran favore presso del re e fortemente appoggiato, si mostrò verso di lui molto carezzevole e quasi ossequioso. La circostanza della messa rappresentata davanti a S. M. confermò il ministro nella sua credenza. Di guisa che, uscendo, S. E. l’accompagnò fino all’anticamera, cosa inaudita!

Per un caso bizzarro, monsignor Laudisio aspettava nel salone l’udienza del ministro. Gli sguardi dei due vescovi s’incrociarono.

Monsignor Laudisio, che conosceva di già la nomina di Don Diego e la designazione spontanea del re, impallidì. Si fece violenza nonpertanto, sorrise, ed andò incontro al suo antico prete scomunicato ed interdetto. Don Diego gli tagliò il passo; lo salutò del cappello e passò oltre dicendo con un sorriso di scherno:

— Grazie, monsignore!

Don Diego non si faceva la minima illusione su i sentimenti ostili del re e sul cangiamento che subirebbero presto quelli del ministro. Ma egli non se ne preoccupava più. Ciò che aveva visto a Roma, ciò che aveva saputo sulla situazione del regno e dell’Italia, ciò che aveva appreso sullo [p. 438 modifica]stato d’Europa, gli davano la speranza che la crisi scoppierebbe subito. Allora, nè il ministro nè il re non sarebbero più temibili.

Da lungo tempo egli aveva accomodato il suo avvenire e carezzava il fantasma che aveva costrutto. Egli gitterebbe la sua guaina di prete come lo avevano fatto Sièyes, Fouché, Talleyrand, Chabot e tanti altri in Francia: egli si addirebbe alla politica, tuonerebbe in un giornale ed alla Camera, — perocchè egli aveva penna e parola di fuoco, — egli s’imporrebbe. Il trono episcopale era un gradino. Egli vagheggiava in questa novella vita, — la vita politica, — tutte le voluttà dell’orgoglio soddisfatto, della potenza esercitata. Egli si sentiva la tempera di rompere gli ostacoli, — perfino le reticelle invisibili che tendono i mediocri intorno alle nature superiori. Ritornò dunque in casa, deciso a recarsi nella sua diocesi il più presto possibile, onde esservi libero e sottrarsi alle vessazioni officiali.

La sua grande preoccupazione nondimanco non era nè il ministro nè il re. Che fare di Concettella? Egli l’amava. Egli l’amava tanto più adesso che la disparizione di sua sorella gli lasciava lo scorruccio e la solitudine nel cuore, il rimorso nell’anima, e che Concettella, maturata dall’amore, sviluppata dall’opulenza, illuminata dalla gioia interna, sicura dell’avvenire, elevata in una regione più siderale dello spirito e più accurata del corpo, era divenuta quasi bella ed appetitosa come il peccato. Lasciarla? giammai. Piuttosto rinunziare all’episcopato. Condurla con lui nella sua diocesi? [p. 439 modifica]quale scandalo! Quanti reclami di pinzoccheri, di invidiosi, di malcontenti! Eppur bisogna condurla. Maritarla al suo cameriere e prenderla in partibus? lasciarla affatto valeva meglio. E’ tagliò le gomene. Abbandonò l’appartamento al vico Campanile, prese a fitto un alloggio a San Giuseppe dei Nudi, svestì Concettella della bernia disgraziata di monaca di casa e la presentò come sua sorella. Fra quindici giorni partirebbero per la Sicilia.

Tutto ciò, con l’aiuto di don Gabriele, fu sbrigato in due giorni. Il dì dopo e’ dovevano recarsi ad occupare la nuova dimora, più pulita, più appropriata alla sua dignità. A Roma, egli aveva terminato il suo lavoro per il canonico Pappasugna ed aveva saldato il suo debito.

Quel canonico parve morire di gioia leggendo le splendide prediche che Don Diego aveva composte per lui.

La sera giunse. Concettella folleggiava come un pesce rosso in una vasca d’acqua limpida. La sua veste di seta le dava la vertigine. Essere chiamata donna Concettella! passare per sorella di monsignore! avere le apparenze dell’onestà, la considerazione, il rispetto! rendere felice un uomo amato! essere felice senza sollevar gelosie!.... tutto ciò ed altri mille nonnulla la rendevano quasi folle. Ella abbracciò don Gabriele: avrebbe abbracciato il mendicante del cantone. Obbliava tutto, tutto, persino, cosa strana! la sentenza che l’areopago del bagno aveva pronunziata contro Don Diego! Il bagno era così lontano! Gabriele.... era stato ingiusto verso di lei. In fine si andava ben presto [p. 440 modifica]a volgere le spalle a questa Napoli infame ove ella aveva tanto patito, tanto pianto, questa Napoli che l’aveva vista nuda, ove ella non aveva neppure trovato il covo ed un tozzo di pane.... Ma ella amava Don Diego adesso. Quella casa scura, sporca, attristata, fredda, ove ella era arrivata in cenci, che l’aveva veduta umiliata, ove tante lagrime bagnavano ancora il solaio, ove la morte libravasi ancora, questa casa, domani, sarebbe per lei un ricordo orribile, e null’altro che questo.

Concettella faceva dunque i fagotti e sollecitava le ore della notte che dovevano condurle un domani sì raggiante.

Don Diego, al contrario, era ricaduto nella sua nera tristezza, pieno di presentimenti sinistri. Sua sorella regnava più che mai nel suo cuore e riempiva quella desolata dimora. Ogni mattone, ogni angolo, ogni gobba o squarcio del soffitto e della carta, ogni cencio rimosso, dovunque egli arrestava lo sguardo, tutto gli richiamava alla memoria Bambina, angelo dell’abnegazione. Egli non poteva decidersi ad abbandonare quello spazio ove fluivano le fibre dell’anima dell’amata creatura. Egli arrossiva di accoppiare nel suo cuore la memoria di quel cherubino di purezza con l’amore per Concettella. Ne aveva rimorso, e si trovava infame. Laonde e’ voleva impregnarsi e saturarsi quel più che poteva di quest’aria ove l’anima di sua sorella aleggiava forse ancora, raccogliersi nella meditazione e nel silenzio, abbeverarsi di lagrime e vegliare quest’ultima notte nella solitudine e nella preghiera. [p. 441 modifica]

Dio mio! sì, la preghiera. Il dolore è un rimpicciolimento dello spirito: il matematico diviene superstizioso, il chimico spiritualista, il poeta si fa cappuccino o cade nell’idiotismo!

Le nove della sera suonavano alla chiesa dei Mannesi.

Concettella si disponeva ad andare a letto. Don Diego passeggiava nel salotto a passi lenti, evocando nel suo spirito le mille ricordanze degli anni passati a Lauria con sua sorella, — quegli anni di pace, di studio, di miseria e di rassegnazione, quando il campanello gemette sotto due colpi netti e decisi.

— Cosa è ciò! si domandarono al tempo stesso Don Diego e Concettella. A quest’ora. A quest’ora!

Concettella entrò nel salotto e dimandò al suo padrone:

— Bisogna aprire?

Don Diego riflettè un istante, poi rispose:

— Dimanda da prima attraverso la porta.

Concettella obbedì.

— Siamo due gendarmi e portiamo un dispaccio premuroso del ministro della polizia, — risposero di fuori.

Don Diego che aveva seguito la sua ganza, udendo la risposta, le fece segno di aprire e si ritirò nel salone.

Due gendarmi, infatti, presentarono a Concettella un grosso plico cui ella portò a Don Diego. Mentre Concettella si allontanava, uno dei gendarmi chiuse la porta e se ne cacciò in tasca la chiave. Poi entrambi entrarono nel salone. [p. 442 modifica]

Don Diego leggeva la lettera ministeriale.

Concettella usciva. I due gendarmi la respinsero nell’appartamento. Ella tremò. Sotto l’uniforme e i falsi mustacchi, ella aveva riconosciuto i due uomini. Don Diego stava assiso. Essi vennero a collocarsi l’uno a destra l’altro a stanca della sua seggiola.

— Io sono Filippo Rotunno, disse il gendarme di destra mettendo la sua mano sulla spalla del vescovo. Io amava quella donna che tu hai disonorata. Noi ti abbiamo giudicato: noi ti abbiamo condannato. Tu stai per morire.

— Io sono Gabriele Esposito, disse il gendarme di sinistra poggiando egualmente la sua mano sulla spalla di Don Diego. Io era fidanzato per tutta la vita a quella donna che tu hai corrotta e prostituita. Essi ti hanno giudicato: essi ti hanno condannato. Tu stai per morire.

Concettella cadde faccia a terra, gittò un grido e svenne. Don Diego comprese in un lampo che la sua sorte era decisa, ch’egli non aveva alcun mezzo, alcuna speranza di sfuggir loro. Gridare, provar di resistere, piegar quei carnefici, vincerli, lottare con loro... gli era insensato. E’ non rispose nulla. Impallidì un poco e restò assiso.

— Hai nulla a dire in tua difesa, tu! dimandò Gabriele.

Don Diego si tacque.

— Hai tu una preghiera da volgere a Dio? dimandò Filippo.

Don Diego restò impassibile.

I due uomini scambiarono uno sguardo che corse [p. 443 modifica]da Don Diego a Concettella e da questa alla porta.

Ciò fu tutto.

Subito come l’assalto di un serpente, Filippo allacciò il vescovo alla vita per impedirgli di muovere le braccia, Gabriele gli passò al collo una corda a nodo scorsoio e la tirò a sè con violenza.

Don Diego traballò e provò di alzarsi. Il nodo si restrinse. Poi, come la vittima si accasciava, Gabriele la trascinò presso di Concettella.

In questo frattempo, Filippo chiudeva a chiave la porta della camera del vescovo e ribadiva due o tre viti alle imposte della finestra onde non la si potesse aprire. Ritornò quindi vicino a Gabriele.

Concettella, tornata in sensi, la faccia sempre contro il solaio, guardando di soppiatto, sentendosi morire a sua volta, brontolava sottovoce:

— Madonna del Carmine! madonna del Carmine! santa vergine dei sette dolori.... pietà di me....

Don Diego non dava più segno di vita. Il suo viso era divenuto colore di piombo: la sua bocca, aperta e schiumosa, lasciava pendere una lingua arida e nera; i suoi occhi, stralunati e spalancati, schizzavano fuori dalle orbite. Filippo mise la mano sul cuore dello strangolato. L’orologio non oscillava più.

Tre quarti d’ora erano passati. Non una parola. Un colpo d’occhio tra i due manigoldi diceva tutto. Quando furono sicuri della morte del prete, lo lasciarono. Filippo si volse allora a Concettella. [p. 444 modifica]

— Tu ci hai riconosciuti, tu hai visto come la nostra giustizia procede. Se tu fiati un motto, se tu dai un indizio, se tu fai un semplice segno per denunziarci, tu morrai della stessa morte.... avanti otto giorni!

Concettella sembrava più spezzata, più agghiadata che il cadavere.

— Pietà! susurrò essa volgendosi a Filippo. Filippo ghignò.

— Pietà! sospirò a voce più fioca volgendosi a Gabriele.

Gabriele aggrottò le ciglia.

— Non mi fate almeno soffrire, supplicò la sventurata.

Essi le legarono le mani alla schiena, poi l’attaccarono ad un mobile, lungi dal cadavere che giaceva steso lungo lungo sul suolo, coricato sulle spalle, di guisa che Concettella potesse contemplarne la faccia deformata.

— Sovvengati! disse Filippo.

— Sii maledetta! sclamò Gabriele.

Poi chiusero la porta della camera ed uscirono, chiudendosi dietro tutti gli altri uscì. Concettella dinoccolò sillabando ancora le parole:

— Misericordia di me!

A quell’ora stessa, il re pregava nel suo piccolo oratorio. Il conte d’Altamura aveva detto:

— Questa sera, alle nove precise, il diavolo chiama il suo vescovo appo di sè perchè canti compieta.

E il re recitò un requiem per l’anima del trapassato. Poi cavò di tasca venti soldi, e dandoli al conte disse con voce contrita: [p. 445 modifica]

— Fa dire una messa. Se risparmi, portami il resto.

Il re continuò a pregare....

Pochi giorni dopo, scoppiava la rivoluzione a Palermo.

Venti giorni dopo, re Ferdinando accordava al suo amatissimo popolo, in nome della Santissima Trinità, una Costituzione paterna, cui lacerava nel sangue due mesi più tardi....

Qualche anno più tardi, il figlio innocente e la madrigna abbominata di questo Borbone divoto erano cacciati dal regno.

Erudimini reges! Dio obblia e perdona qualche volta. Il popolo.... giammai!


Parigi, aprile 1870.


FINE.