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stato d’Europa, gli davano la speranza che la crisi scoppierebbe subito. Allora, nè il ministro nè il re non sarebbero più temibili.

Da lungo tempo egli aveva accomodato il suo avvenire e carezzava il fantasma che aveva costrutto. Egli gitterebbe la sua guaina di prete come lo avevano fatto Sièyes, Fouché, Talleyrand, Chabot e tanti altri in Francia: egli si addirebbe alla politica, tuonerebbe in un giornale ed alla Camera, — perocchè egli aveva penna e parola di fuoco, — egli s’imporrebbe. Il trono episcopale era un gradino. Egli vagheggiava in questa novella vita, — la vita politica, — tutte le voluttà dell’orgoglio soddisfatto, della potenza esercitata. Egli si sentiva la tempera di rompere gli ostacoli, — perfino le reticelle invisibili che tendono i mediocri intorno alle nature superiori. Ritornò dunque in casa, deciso a recarsi nella sua diocesi il più presto possibile, onde esservi libero e sottrarsi alle vessazioni officiali.

La sua grande preoccupazione nondimanco non era nè il ministro nè il re. Che fare di Concettella? Egli l’amava. Egli l’amava tanto più adesso che la disparizione di sua sorella gli lasciava lo scorruccio e la solitudine nel cuore, il rimorso nell’anima, e che Concettella, maturata dall’amore, sviluppata dall’opulenza, illuminata dalla gioia interna, sicura dell’avvenire, elevata in una regione più siderale dello spirito e più accurata del corpo, era divenuta quasi bella ed appetitosa come il peccato. Lasciarla? giammai. Piuttosto rinunziare all’episcopato. Condurla con lui nella sua diocesi?