Il Quadriregio/Libro terzo/IX

IX. Del vizio dell’accidia e delli suoi descendenti rami

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
IX. Del vizio dell’accidia e delli suoi descendenti rami
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CAPITOLO IX

Del vizio dell'accidia e delli suoi descendenti rami.

     Giá er’io gionto in su la piaggia quarta,
ove l’Accidia sta ad impedire
l’andar alla vertú per la via arta,
     quando la dea mi cominciò a dire:
5— Accidia è tedio ed un increscimento
di far il bene ovvero a Dio servire;
     ché sempre a quella cosa si sta attento,
che dá diletto ovver piacere al cuore,
ed ogni altra è con pena e con istento;
     10e tanto ogni vertú ha piú valore,
quanto è prodotta con piú allegrezza
e con maggior fervor di buon amore,
     ché amor ogni virtú pone in altezza,
e tanto piace a Dio ed ègli accetto,
15che ’l ben, quanto ha d’amor, tanto l’apprezza;
     e come amor il ben fa piú perfetto,
cosí l’accidia, ch’all’amor s’oppone,
el fa essere vile e fallo infetto.
     E sappi che di questo è la cagione
20la sensualitá, che sempre è prona
a ciò che contradice alla ragione;
     e se al ben far la volontá la sprona,
vi va con tedio, se vertú assueta
non l’ha domata pria e fatta buona.
     25Ma, se corre a virtú gioconda e lieta,
e spiace a lei ciò ch’a ragion dispiace,
segno è ch’è buona, domata e quieta.—

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     Coll’occhio, poi, che meglio e piú vivace
prende certezza e piú il ver conferma,
30vidi l’Accidia ed ogni suo sequace.
     Ell’era vecchia, magra, trista e ’nferma,
e posta tra le spine e campi incolti,
debile sí, che ’n piè non stava ferma.
     E mostri intorno intorno ell’avea molti,
35ch’avean orribil forma ed apparenza,
e tutti malanconici ne’ volti.
     — La prima sua figliola è Sonnolenza,
che si distende ovver dorme o sbaviglia,
quando di Dio si parla o di scienza;
     40e, se di risi o giochi si bisbiglia,
sta colle orecchie e sta cogli occhi attenta
e vigilante e colle liete ciglia.
     L’altra è la Tepidezza pigra e lenta,
in cui caldo d’amor sí poco serve,
45ch’adopra come fiamma quasi spenta;
     noiosa a chi l’aspetta ed a chi serve,
non cura il tempo che veloce vola,
né fa che, operando, si conserve.
     La Negligenza è la terza figliuola,
50che sempre indugia nel tempo veloce,
gravata ancor d’accidiosa stola.
     Per lei gridò giá Curio ad alta voce
al grande imperator che sempremai
a cosa apparecchiata indugio nòce.
     55Mentre lo ’ndugio va di crai in crai,
il tempo manca e crescono gli affanni,
e li novelli aggravan li primai.
     E, mentre Negligenza tra li panni
e tra la spen del «ben farem» si siede,
60il tempo corre in sua ruina e danni.
     Il quarto mostro, che ’n giú move il piede,
Mollizia è, nemica del costante,
che alquanto sale e poscia addietro riede.

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     E, benché alla ’nsú mova le piante,
65quando egli avvien che trovi cosa dura,
per debilezza torna e non va innante,
     e perde il palio, che sta su l’altura,
che sol si dá a chi ben persevéra
insino al fine e ’nsin che ’l cammin dura.
     70E, perché ben conoschi questa fiera,
de’ suoi figliol dirò la radice anco,
ond’ha origin questa brutta schiera.
     E sol perché in loro è scemo e manco
il vigor dell’amor, e però avviene
75ch’ognun di loro è tristo, lento e stanco.
     Non è che mai da sé sia grave il bene,
ma è la voglia ch’estima se stessa
di non poter, e però nol sostiene.
     E l’altra figlia, ch’a lei piú s’appressa,
80Malizia ha nome, il mostro piú rubesto,
che di pensar malfar giammai non cessa.
     E, perché questo a te sia manifesto,
sappi che Accidia in la virtú ha tedio,
e ciò ch’a ragion piace, a lei è molesto.
     85E, perché a lei nel ben non piace sedio,
anco su vi s’attrista ed ègli amaro,
da lui si parte per trovar rimedio;
     e, per aver all’angoscia riparo,
fugge dalla virtú, ch’a lei è noiosa,
90inverso il vizio, alla virtú contraro.
     Lasciato il bene, su nel mal si posa;
ivi si pasce e diletta e s’impregna
di questa figlia rea e maliziosa.—
     Dicendo questo a me la dea benegna,
95io vidi mover con veloci passi
la vecchia pigra e trista, che lí regna.
     E li suoi mostri, che pria parean lassi,
si mosson dietro a lei gagliardi e presti
sí come giovin, che correndo spassi.
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     E non parean pigri, tristi e mesti,
ma ratti e tosti e con facce gioconde,
non sonnolenti, ma attenti e dèsti.
     Ed io, che non sapea la cagion onde
questo avvenisse, dissi:— O dea, al fatto
105quel, che tu giá m’hai ditto, non risponde.
     Io veggio che costor van tutti ratto:
adunque non è ver quel che si dice,
ch’ognun di lor sia infermo, lento e sfatto.—
     Ed ella a me:— Questo non contradice
110a quel che ho detto, se ben tu riguardi,
ch’amor d’ogni atto umano è la radice.
     Ora costor solleciti e gagliardi
corron cogli appetiti inverso il male,
e quando vanno al ben, van pigri e tardi;
     115ché, come sai, la parte sensuale,
se non si doma, al mal ratto si move
e verso il ben par ch’abbia fiacche l’ale.—
     Poscia Minerva mi condusse dove,
nel mezzo del cammin, trovai due vie;
120maravigliar mi fên le cose nòve,
     ché su nell’una dolci melodie
gli angeli cantan, sí dolci canzone,
ch’io me n’innamorai quando l’odíe.
     E come a Roma nel campo d’Agone
125il premio si mostrava ai forti atleti,
d’ingrillandarli di belle corone;
     cosí quegli angiol colli volti lieti
prometteano a chi sal, con dolce invito,
di coronarli e di farli quieti.
     130— Venite su— diceano— al gran convito
del nostro Re e del celeste Agnello,
che sol contentar può ’l vostro appetito.
     Su pel viaggio tutto onesto e bello
venite al gran Signor, che su v’aspetta,
135e noi ognun di voi come fratello.

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     Su troverete ciò ch’all’uom diletta,
su senza morte è sempiterna vita,
su sta la securtá non mai suspetta.—
     Io mi credea che tutti a tanta invita
140salisseno correndo insú devoti,
bench’assai dura fusse la salita.
     Ed io ne vidi pochi tardi e pioti
e gravi andar sí come Idropisia
e come infermi e d’ogni fervor vòti.
     145Quando poi rimirai all’altra via,
benché fusse lotosa e pien di spine,
per quella quasi ognun ratto corría.
     E, perché su per quella ognun cammine,
stavan demòni con coron d’ortiche,
150che conduceano altrui a mortal fine.
     Tra le punture e tra le gran fatiche
andava ognun sollicito e giocondo
e con gran festa alle cose impudiche.
     E, quand’io vidi i servitor del mondo
155servir senza gravezza e con disio
e li serventi a Dio con tanto pondo:
     — Di questo il tipo— dissi nel cor mio—
fu quando Iuda andò ratto e festíno
a tradir quel che fu ver uomo e dio,
     160e vigilante andò fin al mattino;
e Pier nel ben non vegliò solo un’ora,
ma stava dormiglioso a viso chino,
     quando Cristo gli disse:— Sta’ su ed òra:
non vedi Iuda tu, il qual non dorme,
165ma ratto corre al mal e non dimora?—
     E questo esemplo al ver tutto è conforme.—