Il Quadriregio/Libro terzo/VIII

VIII. Dove si ragiona del vizio dell’avarizia

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
VIII. Dove si ragiona del vizio dell’avarizia
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CAPITOLO VIII

Dove si ragiona del vizio dell'avarizia

     Un gran torrente, poi, polito e chiaro
trovammo in quella via, che gira in tondo,
ove pena sostien chiunque fu avaro.
     E presso al fiume, ov’egli è piú profondo,
5vidi del miser Cadmo le figliuole
con brocche in mano; e nessuna avea fondo.
     E, quando alcuna empire l’idria vòle,
perché ’l lor vaso è sfondato di sotto,
quanto sú metton, giú convien che scóle.
     10E sempre stan con l’appetito ghiotto,
affaticate, che credono empire,
quando che sia, ognuna il vaso rotto.
     Migliaia vidi posti a tal martíre,
che di quel fiume stanno su la rupe,
15ed un di loro a me cominciò a dire:
     — Sí come noi le voglie rotte e cupe
nel mondo avemmo e sempremai bramose
piú che mai cagne ovver che magre lupe,
     cosí iustizia qui ’n pena ne pose,
20che sitibondi stiamo appresso all’onda
dell’acque sí abbondanti e copiose.—
     Poscia una donna vidi in sulla sponda
come un gigante e col vestire adorno,
con bella faccia e con la treccia bionda.
     25Dinanti a lei ed anche intorno intorno
stavano molti, ch’eran piú assititi
che Orlando, quando alfin sonò ’l corno.

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     E, benché siano al fiume in sulli liti,
non mai però verun dell’acque toglie,
30ché dal voler di Dio sonno impediti.
     La bella donna di quell’acqua coglie
con diligenza, con una gran brocca,
per saziar le lor bramose voglie,
     ed a quell’alme la trasfonde in bocca;
35ma la lor sete tanto piú s’accende,
quanto piú acqua in gola lor trabocca.
     Ella mi disse:— O tu, che vivo ascende
e contemplando vai questo reame,
la pena di costoro alquanto attende.
     40Benché ’l poeta Copia mi chiame,
nientemen mia acqua mai fa spenta
la sete a questi e loro ardenti brame.
     Or pensa la lor pena se tormenta,
da che l’arsura lor mai non s’estingue,
45né, quantunque acqua beva, si contenta.
     Però qui stanno ianti colle lingue,
come sta il can che ha corso, e con gran folla
corrono a me, che la lor sete impingue.
     — O voglia ingorda e cupa mai satolla,
50a cui la sete maladetta cresce,
quanta piú acqua del mio fiume ingolla,
     qual tutta l’acqua, che nutríca pesce,
non saziaría e non faría dir:— Basta,—
né quanta n’entra in mare ovver che n’esce:
     55nel mondo, onde mi mena la dea casta
— risposi a Copia,— non è questa sete,
al mio parer, cotanto ingrata e vasta.—
     La donna a me:— Lassú non conoscete,
rispetto a quell’arsura che martíra,
60quant’è poca quell’acqua, che bevete.
     La millesima parte, chi ben mira,
quando:— Vorrei— si dice, o:— Se avesse!
non si chiede del ben, che l’uomo disira.

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     Sí come ’l ricco chiese che daesse
65un gocciol d’acqua Lazzaro col dito,
che la sua lingua tanto non ardesse,
     tal chiede l’uom rispetto all’appetito;
colui ch’empirsi d’un gocciol si fida,
di tutto il fiume mio non sería empíto.
     70Qui sta Pigmalion, e qui sta Mida,
che di far oro col tatto a Dio chiese,
e per tal don di sé fu omicida.
     Ancora chiedon con le voglie accese:
a lor, né ad altri mai potei dar tanto,
75ch’elli dicesson ch’io fussi cortese.—
     Rispose a questo un ch’era quivi accanto:
— Pensa se io, a cui non dái niente,
mi debbo lamentar e far gran pianto.—
     E mentre che per questo io posi mente,
80egli mi disse:— Io son preite Antióco,
e son dannato qui tra questa gente.
     Idropico giammai, fabbro, né cuoco
non ebbon sí gran sete; e sempre chiedo
che questa donna mi dia bere un poco.
     85Maggior dolor non è, sí com’io credo,
che di eccellenza aver gran desidèro
o di ricchezza o d’ira o d’atto fedo;
     ché, se quel ch’uom disia non viene invero,
l’animo affligge, e, se inver venisse,
90ha sempre mancamento e non è intero.—
     Risponder gli volea, quand’esto disse;
ma per la folla e per la grande stretta
convenne ch’io sospinto addietro gisse,
     però che quella gente maladetta
95fanno gran calca, ed insieme s’oppreme
ciascun, che l’acqua in prima a lui si metta.
     Per questo poi turbar li vidi inseme,
sí come quei fratelli fên la guerra,
in Tebe nati dal serpentin seme,

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     100e come nel teatro alla gran terra
ne’ giuochi salii dispiatati e crudi,
sí come dice Seneca e non erra,
     stavano disarmati senza scudi
li condannati, chiusi in poco spazio,
105colli coltelli in mano, a petti nudi,
     e di lor carne facean tanto strazio,
finché l’un l’altro crudelmente uccide,
ch’ogni Erode crudel ne saria sazio.
     Quando cotanto mal l’occhio mio vide,
110dissi a Minerva:— Io prego mi contenti
d’un dubbio, pria che piú in alto mi guide.
     Di tutti i cieli e di tutti elementi,
se nell’Apocalisse io ben discerno,
di tutti i regni e di tutti li venti
     115commesso ha Dio agli angeli il governo
sí come a motor primi e generali,
sí che lor moto vien dal piú superno.
     Ora mi di’: se li ben temporali
sono commessi ad agnol che sia buono,
120da che son seme di cotanti mali?
     Ché, se penso l’origine, onde sono,
cavati son d’inferno, ove natura
nascosto avea cosí nocivo dono.
     Ed anco questo don, s’io pongo cura,
125tutte le volte nuoce a’ possessori,
se l’appetito a sé non pon misura.
     E Satanasso disse:— Se mi adori—
quando nell’alto monte menò Cristo,
— io ti darò e regni e grandi onori.—
     130Adunque da lui è cotale acquisto:
nullo guadagno grande e ratto viene,
se non con froda o con rapina misto.
     Chiaro è lo testo che questo contiene,
ché nell’Apocalisse chi ben cerca,
135questo testo e la chiosa vedrá bene.

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     Dice: «Qualunque per guadagno merca,
convien che della bestia porti il segno»,
come chi serve a Dio porta la cherca.
     E questa bestia, come fermo io tegno,
140è un diavolo; e la froda e la bugia
il segno son del serpente malegno.
     Ed anco in ciò che fa, convien che sia
Cristo simile al Padre e che ambedoi
tengan un modo, un ordin e una via.
     145Ma Cristo solo a’ buon seguaci suoi,
s’io ben estimo, commise ogni cosa
alta e perfetta, e questo veder puoi.
     Del sangue suo la sua dotata sposa
commise a Pietro e l’una e l’altra chiave,
150la qual d’aprir il ciel ora si posa.
     E quella dolce Madre, a cui disse:— Ave—
giá Gabriello, diede al suo diletto,
il qual amò con piú amor soave.
     Il nome suo commise al vaso eletto,
155che ’l predicasse tra ’l popul gentile,
e che alla fede el facesse soggetto.
     Ma la pecunia, come cosa vile,
commise a quel discepol, ch’era rio
lupo rapace in mezzo al santo ovile.
     160Questo ne dice Cristo, al parer mio,
che nullo puote mai, sí come ei pone,
a Mammona servir ed anco a Dio.
     Sí come alcuno espositor espone,
delle divizie Mammona è ministro;
165sicch’egli alle divizie si prepone.—
     Quand’ebbi detto, il cammino a sinistro
prese la dea ed alla mia proposta
mi disse:— L’opra dimostra il maistro;—
     e non mi volle dare altra risposta.