Il Prometeo liberato/Atto primo
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ATTO PRIMO
ATTO PRIMO
O de’ numi, dei dèmoni, di tutti
Gli spiriti signor, fuor che d’un solo,
Signor di quante creature han vita
Nelle rotanti luminose sfere,
Cui tu solo ed io sol, fra le viventi
Cose, miriam con occhi insonni, questa
Terra contempla, che dei servi tuoi
Brulica. A te di laudi e di preghiere,
A te di affanni, a te di cuori infranti
Umiliati nella polve ei fanno
Olocausto perpetuo; e di terrore
Tu li ricambi e di speranze vane,
Ed abietti a sè stessi anco li rendi.
E a me che sono il tuo nemico (a tale
Cieco l’odio ti fa!) vittoria e regno
Concedi intanto, per maggior tuo scorno,
Sopra i dolori miei, sopra la tua
Inutile vendetta. Oh sí, tremila
Anni di vigilate ore, d’istanti
Noverati cosí da tormentose
Ambasce da sembrar secoli, immenso
Dolore e solitudine e dispregio
E disperazíon, tal è, non altro,
L’imperio mio, piú glorioso, e quanto!
Di quel che dal tuo trono alto rimiri,
E ch’io già non t’invidio, o Dio possente.
Onnipossente! E se la tua maligna
Tirannide partire io volea teco.
Ciò ch’ebbi a sdegno, ed alla tua vergogna
Partecipare, or inchiodato a questa
Rupe non penderei, che sfida il volo
Dell’aquile, ghiacciosa, atra, deserta,
Smisurata, di verde orba e d’insetti
E d’ogni forma e d’ogni suon di vita.
Ahimè, sempre dolore, eternamente
Dolor! Non tregua mai, non mutamento.
Nè speranza giammai! Tutto io pur soffro,
Tutto; e chiedo alla terra: Han mai sentito
L’affanno mio le tue montagne? E al cielo:
Visto non m’ha l’onniveggente sole?
E chiedo al mar, che procelloso o cheto
Sotto al cielo si spiega e il ciel riflette:
I mutevoli tuoi flutti profondi
L’agonia del mio cor non hanno udito?
Ahimè, sempre dolore, eternamente
Dolore! Mi trafiggono i ghiacciaj
Lubrici con le mille acute punte
Dei lor cristalli d’un rigor lunare;
Le lucide catene entro alle mie
Ossa, rigide ardendo, edaci affondansi;
Un alato del ciel cane, col sozzo
Rostro il velen fra le tue labbra attinto,
Mi dilania le visceri. Dall’atro
Regno sbucan gli spettri, e in mostruose
Forme ai miei lati sbeffeggiando affoltansi;
Del terremoto i dèmoni, spaccando
E serrando le rocce a me dintorno.
Storcono i chiodi ond’io son fitto, e squarciano
Le mie ferite palpitanti; i genj
Della tempesta dagli abissi irrompono,
Dei turbini il furore urlando aizzano,
E mi flagellan con l’acuta grandine.
Pur gradito m’è il dì, cara la notte,
Sia che l’un rompa del mattin le brine.
Sia che l’altra di stelle inghirlandata
E di misteriose umbre ravvolta
Dall’oriente plumbeo si levi:
Però che a le striscianti Ore senz’ali
Essi son guida, ed una, oh finalmente,
Ne guideran, che, pari a sacerdote
Ohe l’ostia, riluttante invan, strascini,
Te, truculento Dio, strascinerà
Questo sangue a baciar che da’ miei piedi
Pallidi sgorga; e ben potrebbe il mio
Piè la tua fronte calpestar, se sdegno
D’uno schiavo prostrato ei non avesse.
Sdegno? No, ti compiango! Ah, qual ruina
Te non difeso incalzerà pei vacui
Cieli! Squarciata dal terrore oh come
L’anima tua spalancherassi in vista
D’inferno! Il dico, e n’ho dolor, non gioja:
Però che l’odio è dal mio cor fuggito
Dacché saggio mi fe’ la mia sciagura.
La maledizion, che già scagliai
Contro al tuo capo, io revocar vorrei.
voi montagne, che con mille voci
Fra la nebbia e il crosciar delle cascate
Echeggiaste il tuonar del mio disdegno;
E voi, gelide fonti, in increspato
Ghiaccio inceppate, che le vitree croste
Squarciando al grido mio, fuggiste ai piani
Dell’India; e tu, sottile aria, cui senza
Raggi traversa il sole ardente; e voi
Turbini, che sui baratri profondi
Silenziosi vi libraste e immoti.
Mentre ad un rombo assai maggior del vostro
Tutto d’intorno traballava il mondo;
Se forza alcuna ebbe il mio detto, or fate
Che perduto non vada, ancor ch’io sia
Mutato sì, ch’entro al mio cor sia spento
Ogni cattivo desiderio, e il senso
E la mente dell’odio abbia perduto.
Quali danni imprecai? Voi tutti avete
Ascoltato quel dì le mie parole.
I Voce: de’ Monti
Da novecento mila anni, sospesi
Sul letto dei Tremuoti alto noi stiamo;
E quali petti di terror compresi.
Spesse volte anche noi tremato abbiamo.
II Voce: delle Sorgenti
I fulmini ingojate han le nostre onde;
Atro sangue ha le nostre acque pollute;
Per brulli piani e per città feconde
Scorse noi siamo in fra l’eccidio mute.
III Voce: dell’Aria
Dacché nata è la Terra, io liberale
Dei miei colori i suoi deserti adorno;
Ma squarcia spesso un gemito mortale
L’alta placidità del mio soggiorno.
IV Voce: de’ Turbini
Noi ci lanciam da questi monti a stuolo,
Né tuono mai, né gonfle lave ardenti,
Né d’inferno o di ciel furie possenti
Muti ci han fatti, o ci han tarpato il volo.
I Voce
Ma non crollar queste nevose cime
Mai come al suon del tuo dolor sublime.
II Voce}
Quindi all’indico mar non mai funesto
Grido portammo noi simile a questo.
Su’ flutti urlanti un marinar dormìa,
E piombò giù dal ponte, in agonia.
Udì tal grido, ed ululò: Son morto!
Pazzo morì dalle pazze onde assorto.
III Voce
Mai dalla terra al ciel sì spaventose
Voci squarciato aveano il mio soggiorno;
Quando in pace di nuovo ei si compose,
Si coprì d’ombre sanguinose il giorno.
IV Voce
Noi dai fantasmi dell’Eccidio spinti
Retrocedemmo alle freddose tane;
E restammo così taciti e vinti,
Benché il tacer ci sia supplizio immane.
La Terra
Gridarono: Dolore! indi le mute
Caverne delle torve alpi; dolore!
Il cavo cielo rintronò; dolore!
Urlarono al flagello aspro dei venti
Saltando a riva i porporini flutti;
Dolore! udian le genti impallidite.
Prometeo
Un suon di voci ascolto, ah, non la voce
Che già tempo io lanciai. Madre, i tuoi figli
Dunque e tu stessa mi schernite? Eppure
Senza l’anima mia, che tutto soffre
Dalla feroce tirannia di Giove,
Qual vel di nebbia al mattutino orezzo,
Ed essi e tu sareste ormai svaniti!
Non io dunque il titano a voi son noto?
Il titan che col suo strazio si oppone
Barriera ardua, al nemico, il quale e a voi,
Benchè diversamente, il tutto usurpa?
O prati in tra le rupi, o alimentate
Di neve algide fonti, or tra vapori
Gelidi appena intravedute, o fonde
Valli, e voi boschi opachi, ove al bel tempo
Dalle vostre cortesi ombre protetto
Con Asia m’aggirai, avidamente
Dai suoi cari beendo occhi la vita.
Perchè comunicar meco non vuole
Il vostro occulto spirito? Con me
Che sol uno infrenai, qual animoso
Mortal che fermi un invasato auriga.
La perfidia e la forza, onde colui
Che sommo impera, con perpetui pianti
Di schiavi derelitti empio le vostre
Nebbiose valli e i liquidi deserti?
Perchè, fratelli miei, non rispondete?
La Terra
Non osano.
Prometeo
Chi l’osa? Anco una volta
Quell’imprecazione udir vorrei.
Qual arcano susurro alzasi! un lieve
Murmure, quasi fremito di nube
Quando già già la folgore prorompe.
Parla, o spirito, a me! Dall’incorporea
Tua voce sento che mi sei da presso,
E t’amo. Or di’, come imprecai?
La Terra
Ma come
Intendere le mie voci potresti
Tu che il linguaggio della morte ignori?
Prometeo
Ben un vivente spinto tu sei:
Come loro favella.
La Terra
Io non mi attento
Come i vivi parlar, non la mia voce
Il re bieco del cielo oda, e mi attorca
Ferocemente a piú penosa ruota
Che non sia questa sopra a cui mi aggiro.
Sagace e buon tu sei: ben che tal voce
Non intendan gli Dei, saggio e benigno
Tu sei per fermo; e più che Dio t’estimo;
Porgi dunque al mio dir l’intento orecchio.
Prometeo
Come nuvole fosche, entro al cervello
Mi s’avvolgon pensieri agili, intensi,
Sublimi, onde languir sentomi al pari
D’uom fra gli amplessi dell’amor confuso;
Nè però gode.
La Terra
Intender no non puoi:
Immortale sei tu; questa è la lingua
Che solo ai ligj della morte è nota.
Prometeo
Malinconica voce, e tu chi sei?
La Terra
La Terra io son, la madre tua, colei
Nelle cui vene di granito, come
Sangue in corpo mortal, corse il piacere
Fino a’ rami, alle fibre ime, alle tenere
Foglie del piú sublime arbore tremule
A la rigida brezza, allor che simile
A una lucente gloriosa nuvola
Dal suo grembo s’alzò teco uno spirito
Di profonda esultanza. Alla tua voce