Il Parlamento del Regno d'Italia/Terenzio Mamiani
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MAMIANI DELLA ROVERE conte TERENZIO
deputato.
Questo è il nome d’un uomo che ha reso cogli scritti e cogli atti segnalati servigî alla patria, di un uomo la cui mente elevata, la cui dottrina profonda, il cui nobile cuore, non hanno mai fallito un giorno, un istante al sublime compito del risorgimento civile e politico d’Italia, cui hanno cooperato in più d’un’occasione ad efficacemente coadjuvare.
I nostri lettori non si dorranno se noi ci tratterremo alquanto nel riferire le vicissitudini di un’esistenza a più d’un riguardo così interessante.
Nato in Pesaro nel 1800, fece accuratamente in quella città i suoi primarî studî, dimostrandosi fin dalla più tenera infanzia portatissimo per la poesia, quindi passò a Bologna ove segui i corsi di quell’università dandosi ben presto a conoscere per giovine di eletto ingegno.
Nel 1831 ei prese parte importantissima ai moti rivoluzionarî che agitarono la Romagna, essendo stato assunto, malgrado l’età giovanile, a far parte del governo provvisorio stabilito in Bologna. È da notarsi che il Mamiani fu il solo membro di esso governo che ricusasse di sottoscriver l’accordo, col cardinale Benvenuti, giudicandolo umiliante e infruttifero. Caduto quel movimento, al Mamiani, convenne esulare; egli andò a fissare stanza a Parigi, ove, lasciando per alcun tempo le cure politiche da banda (rifiutando perfino di formar parte della Giovine Italia fondata da Mazzini, e ciò dopo aver pubblicato un opuscoletto intitolato: Nostro parere sulle cose italiane, in cui diceva com’ei vedesse fosse, prima di provocare l’azione, necessario di educare un po’ più le classi popolari e far loro meglio comprendere il sublime significato di queste due parole, patria e libertà) si dette con tutto impegno ai suoi studî poetici e filosofici, pubblicando durante il prolungato di lui soggiorno in quella metropoli la maggior parte delle sue opere poetiche e filosofiche.
Una gravissima infermità, che lo fece vivere per quasi tre anni privo della vista, l’obbligò a sospendere i suoi importanti lavori; appena ristabilito in salute, riprese a scrivere e a dar fuora opere filosofiche e poetiche, di cui parleremo più lungi, e che sebbene oppugnate o criticate da alcuni, tuttavia valsero a dar fama al Mamiani d’ingegno elettissimo.
L’assunzione di Pio IX al pontificato riapriva al Mamiani le porte della patria; ma egli non intendeva accettare le condizioni che il nuovo pontefice metteva al ripatrio degli esuli, e che sembravangli, a ragione, implicare un biasimo sugli atti della sua vita passata.
Fu allora che re Carlo Alberto ingiunse al conte Solaro della Margherita, ministro per gli affari esteri in Piemonte, di autorizzare il marchese Brignole Sale, ambasciatore sardo a Parigi, di fornire un passaporto al nostro protagonista onde avesse libera l’entrata nello Stato.
«Io risposi, dice il conte Solaro nel suo memorandum, che prima scriverei al medesimo per aver precise nozioni sugli attuali suoi sentimenti, nè dopo le risposte mi diedi premura di riferirle; un mese dopo essendo a Genova me ne chiese; osservai al re che non era conveniente dar ricovero ad un romano che persisteva nelle idee di ribellione a fronte della bontà di Pio IX; le informazioni del marchese Brignole avermi ridotto a più non occuparmene. Il re non gradì la cosa ed insistette perchè dessi l’ordine del passaporto; neppure questa volta credei che fosse servirlo eseguire i suoi comandi».
Ma poco dopo nuova insistenza, o piuttosto ordine formale di Carlo Alberto perchè il passaporto fosse inviato e questa volta, finalmente lo fu.
Il conte Solaro aggiunge che comprese tutto quando ebbe a leggere nella nona dispensa dell’Ausonio i seguenti versi del nostro poeta:
Poi nel gran dì che allo stranier per sempre
Chiuse fian l’Alpi, e sol una famiglia
Dal Tanaro all’Orcio il ciel rischiari
Nel feroce antiguardo espresso a tale
Sceso d’Emmanuelli e d’Amedei
Commiste andran liguri insegne e sarde
A i bei rischi di guerra e di ventura
Sol fian leggiadre di valor contese
Meritate quaggiù d’alti diademi.
Versi invero profetici!
Recatosi a Roma nel principio del 1848, il Mamiani fu vivamente festeggiato dagli abitanti della città eterna, che in esso salutavano riverenti l’uomo di lettere e di scienze e il caldo, l’ermo e devoto patriota.
E qui ne sia permesso riprodurre per intero intorno agli avvenimenti romani ed alla cospicua parte che vi ebbe il nostro protagonista la narrazione che ne fa il signor Saredo nella sua biografia del Mamiani, narrazione che sappiamo veridica appieno:
«Venuto a Roma, dic’egli, il Mamiani esercitò tutta la sua eloquenza e il credito in cui era tenuto per raccomandare il rispetto dell’ordine e delle leggi: essere anzitutto necessaria l’indipendenza dallo straniero, una confederazione fra gli Stati italiani primo e più efficace fra i mezzi. La guerra era frattanto scoppiata, le cinque memorabili giornale di Milano avevano iniziato la disfatta degli Austriaci. Venezia aveva scosso il suo giogo: pareva che tutto andasse a seconda dei nostri voli e che Dio finalmente, calmato, avesse segnato il termine dei nostri dolori.
«Disgraziatamente due partiti potenti agitavano gli Stati romani, e Roma era in ispecial modo travagliata dai più funesti dissentimenti. I partigiani dell’antico governo assoluto, piccoli per numero, ma potenti per relazioni, ricchezza e audacia, circondavano il Santo Padre e con paurevoli pronostici gli annunciavano la rovina della religione come conseguenza necessaria e vicina delle libere istituzioni e della guerra intimata all’Austria, potenza cattolica. I democratici più caldi dichiaravano non doversi aver fiducia in un governo del quale facevano parte tanti chierici o nemici ai nuovi ordinamenti politici o inetti al maneggio della pubblica cosa. La parte moderata doveva lottare contro gli uni e contro gli altri; e quel ch’è peggio i terrori grandi e invincibili del Santo Padre recavano un gravissimo ostacolo al buon successo dei tentativi che esso faceva per istabilire sopra solide basi la libertà e per inviare un concorso efficace a Carlo Alberto, costretto a sostener solo la guerra con l’Austria, e per apportare agli ordini interni quelle migliorie e quelle riforme ch’erano domandale dalle ragioni dei tempi e dalle nuove istituzioni.
«Un avvenimento inatteso, e quanto inatteso altrettanto funesto alla causa della libertà e dell’indipendenza, si fu l’allocuzione del 24 aprile, nella quale il Santo Padre dichiarava che egli, pontefice cattolico, non poteva non considerare tutti i cattolici, compresi gli austriaci, come suoi figli. Il ministero ch’era allora al potere si ritirò, ma non era agevol cosa il surrogarlo.
«Tutti ricordano quanto acerba suonasse alle speranze italiane quell’allocuzione, primo passo di Pio IX nella via che dovea, pochi mesi dopo, condurlo a Gaeta. Nessuno volea sobbarcarsi al difficile incarico di comporre un ministero; da un lato i perpetui nemici della libertà s’erano ingagliarditi, e non più minacciati, minacciavano; dall’altro i liberali focosi dichiaravano altamente non doversi aver più fiducia in alcune promesse di papa. A calmare alquanto l’effervescenza destata, il Santo Padre scrisse di proprio moto quella celebre lettera all’imperator d’Austria, ch’è un modello stupendo di eloquenza cristiana; ma l’effetto non corrispose all’aspettativa.
«Intanto le difficoltà interne crescevano; per non lasciare lo Stato privo d’ogni governo, i ministri che avevano chiesto congedo, consentirono a restare; il Mamiani, più e più volte invitato a far parte di un nuovo gabinetto, rifiutava sulle prime; ma i momenti erano supremi e credette far opera di buon cittadino tentando uno sforzo per conciliare pel bene generale gli spiriti divisi e concitati e per dare al Santo Padre reverenti e liberali suggerimenti.
«Il 4 maggio 1848 il ministero fu costituito, il Mamiani ebbe il portafoglio dell’interno, la presidenza prima fu riserbata al cardinale Orioli, poscia al cardinal Soglia. Facevano parte del ministero uomini onorandi, ma inferiori per la maggior parte alle difficoltà che si dovevano traversare.
«La stampa debaccava: i tribuni di piazza con reminiscenze greche e romane minacciavano, comandavano, imprecavano. Il Santo Padre, spaventato da tanto straboccamento di licenza, si refugiava nella preghiera e diffidava dell’opera sua, e più assai, di quanti avevano voce di amici della libertà. Il Mamiani era fra questi; il non aver voluto sottomettersi, per rientrare in patria, all’indulto di Pio IX, l’essere in qualche modo libero d’ogni impegno verso l’autorità pontificia, erano tanti gravami che con perfida abilità si facevano pesare sopra di lui, la cui nota lealtà, provata appunto in quell’occasione, doveva essere arra per l’avvenire.
«Vedendosi pertanto minacciato e assalito nell’ombra da coloro che aspiravano anzi tutto a rovesciare gli ordini liberi, il Mamiani credette esser suo dovere di accettare l’appoggio di alcuni tra i più arrischiati liberali che nei circoli e per le piazze godevano presso il popolo di grandissima autorità.
«Fisso nel suo intendimento d’indirizzar tutte le forze vive verso un solo scopo, l’indipendenza d’Italia, egli credeva che in tutto il resto fosse necessario fare concessioni reciproche. Basta conoscere in quali circostanze si trovasse allora Roma per comprendere quanto savia ed opportuna fosse la deliberazione del Mamiani. Ma non così l’intendevano le due parti estreme che regnavano al Valicano e sulle piazze: discordi nello scopo, erano concordi nei mezzi, e i mezzi erano la distruzione dell’ordine di cose che esisteva allora.
«Un pubblico argomento della divisione che regnava fra gl’intendimenti del Santo Padre e quelli del ministero s’ebbe in occasione del manifesto che doveva significare al Parlamento qual fosse la via che intendeva di battere il governo. Quel manifesto, compitato dal Mamiani e da lui presentato all’approvazione di Pio IX, era stato modificato in alcuni punti, e non lievemente. Tuttavia il Mamiani per ispirito di conciliazione avea consentito di buonissimo grado alle mutazioni e cancellature fattevi. Il manifesto fu letto alla Camera dei deputati; sorse il principe di Canino, il quale, alludendo ad informazioni avute, e più ancora alle dicerie che correvano per la città, domandò se quel manifesto esprimeva il pensiero dei ministero amovibile, o del principe medesimo. La discussione s’inacerbì, benchè il ministero cercasse per quanto era da lui di rispondere per quanto si conteneva nel manifesto e di coprire l’inviolabile persona del principe. Un illustre storico, ch’è di presente compagno al Mamiani nel ministero, ha raccontato con molti particolari e scrupolosa esattezza la storia aneddotica di quel manifesto, che Pio IX un anno dopo disconfessò pubblicamente, benchè lo avesse postillato di proprio pugno. Sono cose dolorose, e sulle quali desideriamo gettare un velo.
«La parte liberale, che aveva per ispiratore Mazzini e per capi Pietro Sterbini e il principe di Canino, impiegava ogni sforzo per gittare la sfiducia sul governo del papa e sui ministri, ed in questo era meravigliosamente secondata dalla parte retriva, che per mezzo dell’Univers, giornale di Parigi ora soppresso, pubblicava pitture spaventose dello stato interno di Roma, e delle angosce del Pontefice, cui gridava vittima dei liberali devoti alla costituzione, non meno che dei demagoghi che aspiravano alla repubblica. Il ministero, trovandosi ad ogni istante attraversato nella sua azione da mille intoppi, chiese a due riprese d’esser sollevato da un peso che diveniva ogni giorno più grave. Ma la difficoltà dì trovare chi volesse accollarselo, l’ingrossare degli avvenimenti, fecero che i ministri fossero pregati di rimanere ai loro posti. Ottennero finalmente dal papa la loro dimissione, e il Mamiani rientrò per qualche tempo nella vita privata, non però senza prender parte attiva a quanto si faceva per la causa nazionale.
«Della sua venuta al potere Mamiani aveva lasciate profonde tracce. Aveva istituito un consiglio di Stato, ordinato sulle più larghe basi e con attribuzioni ben distinte; aver pubblicato una legge comunale, informata ai migliori sensi dell’autonomia locale; aveva introdotto nello Stato i telegrafi, il sistema decimale, e la necessità di quest’ultima misura era vivamente sentita in uno Stato in cui era tanta diversità di misure e di pesi, perciò tanta confusione a danno del commercio e dell’industria. Avea finalmente ideato il progetto di un ministero di pubblica beneficenza, di cui non parliamo per non aver dati sufficienti da giudicarlo. Crediamo però che questo progetto, se fosse stato incarnato, non avrebbe gran fatto ottenuto la pubblica approvazione; l’intervento dello Stato in fatto di beneficenza è oggimai condannato dalle scienze economiche.
«Verso il mese d’agosto il Mamiani lasciò Roma e venne a Torino, ove con Gioberti e con alcuni altri fondò la Società della Confederazione Italiana, ed egli fu uno dei tre presidenti. In tutti i suoi discorsi egli raccomandava ciò che stava in cima d’ogni suo pensiero: l’indipendenza italiana; e soffriva acerbamente nel vedere le garrule ciurmerie e le misere gare colle quali si perdeva un tempo prezioso, che sarebbe stato assai meglio occupato nel riunir tulle le forze della nazione contro il comune nemico.
«Intanto a Roma gli avvenimenti precipitavano: le catastrofi militari e politiche inasprivano gli animi e le divisioni fra le parti divenivano più profonde che mai. Il Mamiani ripartì per Roma, sperando che l’opera sua sarebbe stata efficace, se non a metter fine al dissidio Ira il popolo e il Papa, almeno fra i liberali medesimi. Vana speranza! un delitto senza nome macchiava di sangue la storia, sino a quel giorno purissima, del risorgimento italiano. Il 15 novembre del 1848 Pellegrino Rossi era atrocemente assassinato.
«Proviamo ribrezzo a riandare quei fatti; stringiamo. Pio IX, consigliato da alcuni membri del corpo diplomatico residente a Roma, lasciò la città e partì segretamente per Gaeta: il resto è noto.
«In quel primo imperversare della tempesta i paurosi e gli egoisti si ritirarono da banda. Il Mamiani continuò invece a tentare i supremi sforzi nell’interesse della patria. Accettò il portafoglio degli affari esteri, che aveva a più riprese rifiutato: e tutti sanno in quale stato fossero allora le relazioni dello Stato Romano coi governi stranieri. In Europa la rivoluzione cominciava ad esser vinta su tutti i campi di battaglia: le costituzioni violentemente strappate nei primi mesi del 1848 erano lacerate o col cannone, o col tradimento. A Napoli la reazione infieriva; l’Austria, fremente delle sconfitte toccate, rizzava patiboli, stendeva liste di proscrizione, e si preparava a ristabilire il suo dominio diretto o indiretto su tutta l’Italia.
«Il Mamiani non poteva celare a sè stesso la gravità dei tempi; due cose doveva proporsi: impedire da un lato alla reazione di alzare il capo e di recare nuove complicazioni a quelle che già esistevano; contenere i fiotti della rivoluzione entro i limiti della legge. Ma vedeva pur troppo che i partigiani della libertà schiamazzavano molto e agivano poco, che pensavano più a distruggere che ad edificare, mentre le tele dei retrivi si stendevano nell’ombra e avviluppavano uomini e cose, il pensiero costante del Mamiani era d’evitare l’anarchia e di riunire tulle le forze materiali e morali contro lo straniero: questo era il suo porro unum est necessarium; e così Dio avesse voluto che questo sentimento fosse divenuto generale nei cuori degl’italiani, che non si avrebbe avuto a deplorare nuovi danni e più nefande vergogne.
«Se la partenza del Papa avea da un lato complicato le cose, dall’altro avea collocato i partiti sopra un terreno meglio circoscritto. Coloro, e per isventura non erano i più numerosi, che erano devoti alla monarchia costituzionale, moderati per carattere e per principii, non potevano accettar la lotta coi bollenti democratici che avevano nelle loro mani il governo effettivo; rifuggenti dalle intemperanze, essi si erano ritirati in disparte e attendevano sconfortati tempi migliori. I repubblicani allora sollevarono apertamente il viso: i giornali ostili al potere pontificio cominciarono a gridare essere il momento oramai giunto di dichiarare in Parlamento che il Papa, come principe temporale, avea cessato di regnare. Questa opinione circolò rapidissima e divenne in breve generale; la fuga di Pio IX e le sue lettere contenenti disapprovazione acerba di quanto si era fatto o si faceva, le conosciute e pubbliche invocazioni alla forza straniera per ripristinare nello Stato Romano l’antico ordine di cose sulla rovina della costituzione, tutto concorreva a spingere i romani all’estremo passo, quello di sostituire la repubblica al governo pontificio.
«Il Mamiani, benchè scoraggiato dalla condotta di Pio IX, pure perseverò nel combattere vivamente e pertinacemente l’insano partito che aspirava alla repubblica. Eletto alcuni mesi dopo membro della Costituente romana, egli non cessò dal sostenere alla tribuna i partiti i più moderati e le idee costituzionali; ma con vano successo. Il giorno medesimo in cui il governo repubblicano fu istallato, il Mamiani si ritirò.»
Restaurato il governo pontificio, al nostro protagonista convenne riprendere l’amara via dell’esilio. Giunto in Genova, ei venne accusato presso il ministero piemontese di esser legato col partito ultra-democratico. Un membro di esso ministero, il conte di San Martino, lo ritenne per tale e fu causa che poi il Mamiani stentasse più anni ad essere ammesso alla nazionalità sarda. A Genova il Mamiani riprese, con animo fiducioso nell’avvenire, i suoi studî e colà fondò un’Accademia che si proponeva lo scopo di applicare alla vita civile le filosofiche discipline. Vogliamo notare alcuni degli scritti che vi furono letti dal Mamiani, onde appunto si veda quanto gravi fossero le questioni che erano in quell’aula agitate: Dell’impossibilità di una scienza assoluta; — Del bello in ordine alla teorica del Progresso; — Dell’uso della Metafisica nelle scienze fisiche; — Sull’origine, la natura e la costituzione della sovranità; — Del diritto di proprietà.
Ottenute finalmente nel 1856 le lettere di naturalizzazione, il Mamiani veniva eletto deputato al Parlamento nazionale da uno dei collegi di Genova.
Nell’assemblea elettiva subalpina il Mamiani si atteggiò subito a caldo sostenitore di quella politica nazionale che era stata iniziata e sì felicemente sviluppata dal conte di Cavour. In più d’una circostanza la parola forbita e faconda del nostro protagonista si fece udire in sostegno di quella politica che aveva, al solito, i retrivi e i democratici esagerati per oppositori, nè dobbiamo sopratutto passar sotto silenzio l’eloquente ed applaudito discorso che il Mamiani proferì in quella seduta in cui, al ritorno del conte di Cavour dal congresso di Parigi, il deputato Brofferio gli domandava conto dei risultati ottenuti dall’aver partecipato alla guerra di Crimea. Quel discorso, uno dei più ispirati che il nostro protagonista abbia proferito, eccitò l’ammirazione, anzi l’entusiasmo, della grande maggiorità della camera. Il presidente del consiglio lo fece stampare a parte e ne inviò copia a tutte le legazioni sarde all’estero, onde fosse comunicato alle potenze amiche.
Più tardi, e in tutte quelle occasioni nelle quali il ministero aveva bisogno d’appoggio, la parola del Mamiani si è pur fatta udire, e dopo la guerra del 1859, quando il conte di Cavour è risalito al potere, si è voluto collega il nostro protagonista affidandogli il portafogli dell’istruzione pubblica. Il Mamiani esitò alquanto nell’accettarlo, giacchè gli conveniva rinunciare ai diletti suoi studî, gli conveniva rinunciare alla sua cattedra di filosofia della Storia in cui egli dettava lezioni seguite da numerosissimo uditorio. Tuttavia la sua devozione al paese ed al sublime statista che gli affidava quel portafogli lo indussero ad accettare.
E qui ne sia permesso citare di nuovo il Saredo: «La notizia, dice egli, che finalmente alla direzione dell’insegnamento era stato chiamato un filosofo eminente, uno dei più egregi professori della facoltà di Torino, giudice competente perciò dei bisogni dell’istruzione, fa accolta con unanime soddisfazione, non solo dai membri del corpo insegnante, ma altresì dalla pubblica opinione, che domandava pronte ed urgenti riforme. La legge organica del 15 novembre 1859, pubblicata dal Casati e compilata sotto la sua direzione da uomini distinti, segnava un vero progresso: ma fu giudicata insufficiente; e a renderla tale concorse non poco il pronto ingrandimento del Regno per cui molte disposizioni divenivano o superflue o poco consone con le nuove condizioni politiche dello Stato.
«Il Mamiani non tardò a vedere quanto fosse grave e pronta la necessità di recare alla legge quelle modificazioni le quali senza indebolirne lo spirito generale, pure l’adattassero ai bisogni sentiti. Egli era anzitutto convinto della necessità di liberare a poco a poco l’insegnamento superiore dalle pastoje legali e disciplinarie che lo inceppano e lo rendono per molte parti infecondo; egli voleva nello stesso tempo che nelle università potessero esser chiamati quanti professori eran richiesti dall’importanza delle scienze che si dovevano professare.
«Con questo intendimento egli presentava al Parlamento due progetti di legge: con uno egli chiedeva facoltà pel ministro di determinare ogni anno nel bilancio il numero dei professori ordinarî: con l’altro, volendo poter «dilatare senza pericolo e insino agli ultimi termini la libertà d’insegnamento nel fatto dell’alta scienza», apportava alcune gravi modificazioni alla legge 23 novembre intorno all’estensione del libero insegnamento, alla forma degli esami, ai gradi e onori accademici, ai quali in peculiar modo egli intendeva dar credito nuovo e durevole.
«Egli proponeva inoltre con nobilissimo intendimento di far sì che l’amore verso le scienze elevate e difficili «si mantenesse non solo per ambizione di gloria, ma per desiderio ragionevole e proporzionato di profitto e di lucro.»
«È noto l’esito sortito alla Camera di questi e da due altri disegni di legge: la commissione eletta dagli uffici per esaminarli dichiarò essere inopportuna qualunque sanzione, anche implicita, non che qualunque esame della legge 15 novembre 1859» e per conseguenza «precoce qualunque studio sulle modificazioni e miglioramenti da introdursi parzialmente nella medesima.»
Il Mamiani risolvette allora di ritirare i disegni di legge che aveva presentati.
«Senza farci giudici dei motivi che possono aver indotta la Camera a questo voto, noi non possiamo noti deplorare che le eccellenti disposizioni del Mamiani non siano state sancite.»
Allorchè per la costituzione del nuovo regno italiano il conte di Cavour credette necessario che il gabinetto alla cui testa ei si trovava desse in massa le sue dimissioni, onde in certa qual guisa, rinnovate le condizioni dello Stato, anche il mandato del ministero fosse rinnovato, al riformarsi di questo il conte Mamiani cedette il suo posto al professore De Sanctis.
Le cause per le quali l’egregio nostro protagonista non riassunse il suo portafogli, non sono ben note; ad ogni modo può ritenersi che l’opposizione incontrata nel Parlamento dai quattro progetti di legge sopraindicati, e ch’egli ebbe a ritirare con regio decreto, vi contribuisse in qualche parte.
Il conte di Cavour, onde dare all’egregio suo amico una chiara prova della sua benevolenza, lo nominò poco tempo prima della fatale sua morte ad ambasciatore del re d’Italia presso S. M. il re di Grecia, nel quale onorifico posto il conte Mamiani attualmente si trova.
Diamo qui sotto una nota delle opere del conte Mamiani che siamo dolentissimi di non potere analizzare:
Poesie, edizione Le Monnier, Firenze; — Del rinnovamento della filosofia antica italiana, 1856 Firenze; — Dell’antologia e del metodo, pubblicato a Parigi nel 1841 e ristampato a Firenze nel 1848; — Dialoghi di scienza prima. Parigi 1859; — Del fondamento della filosofia del Diritto, e singolarmente del diritto di punire, lettere al prof. Mancini edite a Napoli nel 1841, ristampate dal Cassone a Torino, nel 1853, con quattro importantissimi discorsi; — Sulla origine, natura e costituzione della sovranità; – Una prefazione ben lunga al libro di Schelling, intitolato Il Bruno; — molte Memorie nei due primi volumi degli Atti dell’Accademia di filosofia italica. Genova 1850; — Scritti politici comprendenti tutti i discorsi, lettere ed altre pubblicazioni relative, edizione Le Monnier, Firenze; — Le confessioni di un metafisico, stampate nella Rivista Contemporanea; — finalmente D’un nuovo Diritto europeo. Torino 1859.