Il Novellino/Parte terza/Novella XXV
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con uno suo nero, con opera del quale uno de li amanti in moro travestito la cognosce e lassala schernita
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NOVELLA XXV.
ARGOMENTO.
ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNORE MESSER GIULIO D’ACQUAVIVA DUCA D’ATRI.1
ESORDIO.
Per averte tante volte cognosciuto, illustre e virtuoso signore, pigliar piacere non piccolo di mie ruzze2 novelle, e quelle con tante lodi commendare, non ho voluto restare di tali frutti che ti dilettano fartene alcuna parte. E avendo le mìe armi al bersaglio de le donne in questa parte dirizzate, mi è piaciuto una di esse a vero cognoscitore di tale perversa generatione intitolare; a tal che con altre scelleragini di loro sentite accompagnandola, possi e meritamente la mia giusta querela, dove bisogna, pigliare, e la mia obbligatione ogni dì verso di te sarà maggiore.
NARRAZIONE.
Per quello che da un mercante Ancontiano ho già inteso, non è gran tempo che in Ancona fu un ricchissimo mercante molto cognosciuto per Italia, il quale avendo3 una figliuola per nome detta Geronima, assai giovene e bella ma vana oltre misura, costei che fuori di modo si gloriava di sua bellezza, si persuadeva che quanti amanti ogni dì novo acquistasse, tanto maggior pregio accrescesse la fama di sue bellezze; per la cui cagione non solo gli acquistati si conservava, ma di pigliare degli altri con nove arti erano tutti i suoi pensieri, e senza venir con niuno a gustare gli ultimi frutti, chi pascea di vento e chi di foglie e fiori, giammai da lei niuno vacuo d’alcuna speranza si partea. E con seco medesima gloriandosi di tale joco de bagattelle, avvenne che un nobilissimo giovine di ogni virtù e leggiadria ripieno con assai più passione degli altri seguì la impresa di questa nova artista, e tanto fuori il pelago d’amore s’era lasciato trascorrere che, ancora che difformità e disvario fosse tra lor conditioni, se l’avrebbe presa per moglie, se non che lui essendo povero estimava che altri lo avrebbeno possuto biasimare che per vilità di animo o per vaghezza di roba avesse venduto la sua antiqua nobilitate. Nondimeno lui era continuo dal padre della giovene con grandi e avantaggiati partiti di tal parentela molestato, il quale ancora che niuno ne accettasse, pur con grande arte tenea il fatto in tempo per vedere se gli potesse in tali trame il suo pensiero riuscire: ed ingegnandosi di avere alcuna pratica con alcuno di casa de la giovene, non possendo con altro suo domestico, la pigliò con un moro nero del padre, chiamato Alfonso, giovine, e come nero assai di bono aspetto, il quale con una gran catena serviva a portar in spalla per prezzo ciascuno che del suo servizio bisognava: e più volte con colorata cagione del suo ministerio a casa lo conducea, facendogli di molte carezze, e dandogli ben da mangiare, e alcun danaro da godere, e in maniera tale adescandolo che Alfonso era deventato assai più suo che del patrone. Il che parendo al giovine posser pigliare di colui ogni securtà, gli cominciò a dire che a la sua madonna il recomandasse, e in quello continuando gli disse un dì: Alfonso mio, io non sono costretto ad avere invidia di altri che di te, per averti la fortuna concesso a ogni tuo piacere e vedere e parlare a la tua madonna. E con simili e altre assai appassionate parole l’andava di continuo tentando per audirlo e servirlo del suo desiderio4. Di che il moro, che alquanto prudente era, e già in casa aveva sentito ragionar della parentela che il suo padrone con tale giovine cercava di fare, parendogli un gran mancamento che un tanto virtuoso e costumato gentiluomo sotto nome di matrimonio fosse in tale ingannevole rete avviluppato, un dì col suo male limato idioma gli disse che di tale amore del tutto si restasse, però che Geronima era malissima femmina, e che lui più forzato che volontario l'avea infinite volte carnalmente cognosciuta. Quando il poveretto amante sentì tale enormissima novella gli parve che in quello ponto gli dovesse l’anima dal corpo uscire; pure in sé tornando, e con più strette particolaritadi esaminandolo, a ogni ora trovava la cosa da tenersi per indubitata, e tanto più che il moro gli offereva farglielo e vedere e con mano toccare il che al giovene fu carissima tale offerta. E per dare a ciò intero effetto, senza menar più il fatto in lungo, di secreto spacciatamente se fe’ fare una catena a quella simigliante con certo ingegno di poterla togliere e ponere a suo modo come tra loro ordinato aveano, e quella sera che lui andare doveva a vedere tal mostruosa operatione si fe’ a un dipintore suo amico tutto a negro dipingere, e tolti certi stracci del moro, e in maniera e di catene, e d’ogni altra cosa opportuna trasformatosi che non per altro che per vero bastasio5 sarebbe stato giudicato; e da Alfonso, come notte fu, non solo in casa del mercante fu condotto, ma nel suo vile e fetido letto posto a giacere; e de li soliti gesti della scellerata giovene pienamente informatolo se ne andò a la stalla a dormire. E non avendo il giovine molto spazio aspettato che sentì chetamente aprire l’uscio dove lui era, il quale aperto vide e cognobbe la da lui sopra ogni altra cosa amata Geronima con un piccolo lume tra le mani andare guardando in ogni lato se altro fosse per avventura lì recapitato, e vedendo che persona non vi era secondo il suo credere altro che il suo Alfonso, si accostò al letto, e vedendo colui che era nero, nè sospettando d’altra cosa, ammorzato il lume gli si colcò da lato; e lei medesima come già usata era cominciò a svegliare l’addormita bestia. Il misero amante vedendosi a sì fatti termini che gli dolea insino al cuore usar quello che unicamente avea desiderato, e cognoscendo che l’angoscia di amante gli avea sì le corporali forze indebolite che con difficoltà grandissima l’aspettato fine avria potuto ad effetto mandare, fu più volte vicino a palesarsi, e con infinite ingiurie tale sua inaudita scelleragine rimordere; doppo più tritamente pensando estimò che niuna satisfattone gli sarebbe stato a non dare a tal fatto con opera compimento, e poscia lasciarla schernita dolente e trista, e deliberò del tutto sforzare la sua dal dolore e sdegno infreddata natura, e con tale nuova maniera di castigo vendicare non solo sè ma quanti da lei per addietro erano stati uccellati e beffati; e così con difficoltà non piccola, ancora che più volte avesse la lancia perduta, formò la prima e l’ultima carriera. La quale fornita, senza suo fiero sdegno essere scemato, in tal modo le cominciò a dire: Deh, pazza, insensata, ribalda, temeraria, e prosuntuosa bestia, ove sono le tue tante apparecchiate bellezze? ove sono li tuoi contegni, credendoti essere sopra ogni altra bella, e con la ricchezza insieme in superbia a te parea con la cresta toccare il cielo? ove sono le infestanti caterve dei tuoi amanti i quali ogni dì schernendo, pascevi di folli speranze? ove è la tua matta prosuntione con la quale cercavi d’avermi per sposo? quali carni mi volevi dare a godere, quelle che avevi date per conveniente pasto al nero corbacchione, al fetido bastaso, al fiero mastino tra sì vili stracci avvolto e di catene cargo? Certo come tu puoi sapere, io ho de continuo apposte tutte mie arti in addobbarmi e con diversi vestimenti e soavi odori ornarmi, solo per farmiti vedere in maniera che ti avessi piaciuto, e niuna essendo a ciò bastevole, ebbi ricorso a questo servile e vilissimo abito, nel quale mi hai visto, e per rassecurartene con lume prima guardato, avendo de novo e per vero saputo che tanto ti piaceva, con lo quale, come tu medesima hai cognosciuto, con gran fatica ho lavorato sopra etiopo terreno. Io non dubito che tu mi hai a la favella cognosciuto essere colui che tanti anni hai beffato, e con lusinghevoli apparenze nutrito di vento; e duolemi che tu, sotto tale servitù ingannata, si può dire hai in centomila doppii avantaggiata la tua conditione, ancora che per la tua ultima sorte ascriver lo possi, attento che mi lascerei prima squartare che per lo innanzi dei miei congiungimenti ti facessi degna. Nè meno credere che più ti sia concesso col tuo caro moro la tua foiosa rabbia sfocare: poi che lui have sciolto me da li tuoi ingannevoli ligami, per ricompensa per tanto da lui ricevuto beneficio lo farò libero dal debito servigio di tuo padre. E se tu presumessi di più uccellare e tenere in pastura tanti valorosi giovani quanti per lo passato hai fatto, o che pur di nuovi ne volessi beffare, vedi che il pensiero ti è fallito, perchè questa tua tale abbominevole scelleragine la farò venire in pubblica voce e fama di tutta la nostra città, e con tuo eterno vituperio ti farò divenire la favola del volgo. Io non mi vedria mai sazio d’increparti di questa sì vile e scelesta da te usata ribalderia; ma egli puzzano sì forte questi panni che io porto addosso, e che sono in questo letto, i quali a te sono stati insino a qui sì cordiali e odorevoli e soavi, che mi costringono a fuggirmi via: e però togliti presto da qui, e chiama il tuo degno amante che nella stalla dimora; e occultamente mi tragga da questa tenebrosa carcere che più dimorarvi non posso. L’afflitta e miserissima Geronima, che a la prima parola lo avea ottimamente cognosciuto, se avesse avuto un cortello si avrebbe volontaria di vita privata; pure mentre che colui avea parlato, lei senza rispondere a una sola parola non era mai rimasta di amaramente piangere: a la fine per fare il suo volere dal letto toltasi, e chetamente chiamato il moro, e come il giovine volse tutti due pose fuori di casa, e serrato l’uscio, dolente a morte, e con tante lacrime che una fonte ne averia rimasta vuota, a la sua camera se ne ritornò, ove con colorate cagioni de continuo dimorando, o che dolore o veneno lo avesse causato, in brevi dì morì. Il nobile giovine avendo il fatto divulgato, e del castigo e della morte avuto mirabile piacere, ricomparato il moro e posto in libertà, lui anco libero e sciolto d’amore gran tempo con felicità visse godendo la sua fiorita gioventù.
MASUCCIO.
Chi più dunque sarà omai incredulo ascoltando qualsivoglia coronata ribalderia di femmine, le raccontate per la mente rivolgendosi, che non gli parrà con gli occhi averla veduta? Io da la vergogna di me medesimo raffrenato, che pure come gli altri da femmina sono uscito, mi rimango di dire quando loro assalite da la gran foia e sfrenata rabbia per meno errare, secondo il lor credere, adoperano lo salvaonore. Se tu che leggi m’intendi, non ti bisogna cosa; e se ne dubiti, trova un altro che ti dichiari tali occulti termini; però che io con questo ancora mi resto di scrivere di molte altre più de focosa libidine accecate, le quali temendo di essere palesate, o per non avvilirsi a uomini di bassa sorte, si sottopongono agli animali bruti, siccome per verissimo ho sentito e con più esperienze toccato con mano: e tale nefando operare le più de le volte è mandato ad effetto da coloro che sono o si tengono più che le altre savie. Dalle cui ragioni fu mossa una sagace donna, che appresso recontare intendo, la quale essendo a l’improvista fieramente presa di un leggiadro giovine, seppe tanto sè medesima raffrenare, che ancora suo desiderio satisfacesse, mai al giovine fu concesso conoscerla: di che se le altre da costei togliessero esempio, poche ne sarebbero dagli uomini ventilate.
- ↑ Giulio d’Acquaviva VII duca d’Atri, fu capitano fortissimo, caro a re Ferdinando. Nella guerra d’Otranto mostrò mirabile bravura combattendo contro i Turchi, che l’atterrarono con trenta ferite, e gli recisero il capo. La leggenda leccese racconta che recisogli il capo, il busto rimase nell’arcione, e che il cavallo ferito tornò nel campo, e cadde col busto. Giulio fu padre di Matteo e Belisario d’Acquaviva, dotti e valorosi signori. Del padre e dei figliuoli scrissero molte lodi il Pontano, il Sannazaro, il Galateo.
- ↑ Sta scritto rude, ma il nap. dice ruzze.
- ↑ Leggi aveva, e la sintassi va.
- ↑ Forse indurlo a servirlo.
- ↑ oggi vastaso, che così i nap. con voce greca dicono il facchino.