Il Misogallo (Alfieri, 1903)/Prosa terza. Ultime parole del Re
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PROSA TERZA.
14 decembre 1792.1
XII. Haec dixit Dominus: Quia dimisisti Viros dignos morte de manu tua, erit anima tua pro anima eorum. |
III Regum, XX, 42. |
Dice il Signore: l’aver tu condonata la morte ad uomini che n’erano rei, e stavano nelle tue mani, fa sì, che la tua vita darai tu per la loro. |
Nessuna umana forza per certo bastata sarebbe a trarre me vivo davanti a sì fatta Adunanza in aspetto di reo, se la espressa volontà di manifestare i miei ultimi sensi non superasse in me di gran lunga ogni altro qualunque riguardo.
Voi, che coi dispregianti titoli di Capeto, e di ex-Re, mi andate or nominando, vi lusingaste già d’avvilirmi fin da quel giorno, in cui pretendeste di riconfermarmi, coll’autorità vostra, su questo mio trono. Mi eleggevate voi Capo di un Popolo, il quale io stesso pur dianzi spontaneamente a giusta libertà invitava. Che io in quel giorno mi mostrassi abbietto pur troppo, ricevendo da voi la corona a me già da tanti miei Avi trasmessa, nol niego; ma, che di gran lunga più vili vi foste già voi, prima anche di conferirmela, ampiamente malgrado vostro lo prova quella lunga, e muta obbedienza, che all’assoluta autorità de’ miei maggiori, e alla mia, avete, e voi, ed i vostri continuamente, tremando, prestata.
Ancorchè io potessi pur dunque cessare da Re, per l’esser da voi vilipeso; non cessereste da servi già voi, per l’avere ora straziato il vostro legittimo Re, nè per avergli usurpata, e, col danno di tutti, oltre ogni limite in voi accresciuta la di lui già troppo efficace potenza. Queste parole mie ultime proveranno, spero, all’Europa, e al mondo, che nell’essermi io stesso con molti innocenti errori precipitato dal trono, io mi rimaneva ognora pur Re. Come altresì le vostr’opere all’universo fan prova, che voi, al seggio donde io scendo saliti, vi siete però sempre rimasti e vili e corrotti e non liberi, benchè con le pompose, e vane vostre parole vi andiate indarno pure sforzando di persuadere il contrario a voi stessi, ed agli altri.
Se al tribunale dei tanti Monarchi dell’Europa presentarmi dovessi, e rispondere; io non arrossirei pure di confessarmi colpevole d’inopportuna benignità, di debolezza, e condiscendenza soverchia, nell’epoca mia prima di regno. Ma non avendo io mai, benchè Re, disdegnata l’essenza d’uomo, e di tal cosa sommamente pregiandomi, io in questo punto, davanti al tribunale dell’Ente Supremo, al quale aspiro di unirmi; al tribunale della mia propria coscienza, da nessunissimo rimorso agitata; e finalmente davanti ai pochissimi buoni, e non contaminati, e di vera libertà meritevoli; ardisco io, sì, dichiararmi ed innocente, e candido, e retto quanto mai lo sia stato, e possa essere alcun Re della terra.
Che io poi, dall’accettata Costituzione in appresso, colpevole mi rendessi nel trasgredirla, me lo vorrebbero ora provare le molteplici accuse, o calunnie, dalla malignità, e viltà radunate, dalla stupidità avvalorate, e dal Re neppur lette. A discolparmi non venni, nè ad accusarvi mi abbasso. La sana ragione, la libertà (se mai nasce), gli esteri popoli, e la imparziale terribile posterità, ben ampiamente faran l’uno, e l’altro.
«Il decimo sesto Lodovico, per non aver egli voluto coll’arbitraria sua potestà far uccidere in tempo alcuni pochi servi faziosi, si è lasciato da essi in breve poi togliere il regno, e la vita. Molti de’ suoi cortigiani (quanto più da esso beneficati, tanto più sconoscenti) da vili rancori di corte sospinti, celatamente a lui ribellavansi. Con la feccia poi de’ ribaldi d’ogni specie si collegavano; la plebe da prima ingannata assoldavano, lusingandola di libertà, nome da essa neppur conosciuto, e da quei vili sovvertitori pessimamente interpretato, contaminandolo; e sotto un sì sacro velo la inducevano quindi ai più orridi eccessi servili. L’aver costoro saputo uccider primi, e senza risparmio alcuno di sangue, ad essi per breve tempo la tirannide procacciava, finchè altri uccidesse poi loro. L’avere il Re costantemente abborrito il sangue pur troppo, toglieva per alcun tempo il lor seggio ai legittimi Principi».
Eccovi, in poche ma sufficienti parole, la storia della vostra rivoluzione, qual ella si rimarrà negli annali del mondo, se luogo pur mai vi ritrova, e vi merita. Nè alcuno porrà in dubbio giammai, che un popolo, in sì fatta occasione manifestatosi gratuitamente crudele, vile e tirannico, non fosse intrinsecamente (e non meritasse di essere) un popolo servo; come altresì nessuno dubiterà mai, che un tiranno, (poichè tal mi chiamaste, da che io cessai dal comando) manifestatosi pur sempre pietoso e giusto ed umano, non fosse, o non meritasse di essere, il giusto, e legittimo Re di un popolo vero, che giusto, magnanimo e libero sapesse pur essere, o farsi.
Ma, se io fossi stato tiranno, nessun di voi certamente attentato sarebbesi tiranno chiamarmi. Ed in prova, nè all’undecimo, nè al quartodecimo Lodovico, nessuno mai de’ maggiori vostri ciò disse. I cangiati tempi, e la stessa efficace mia volontà, aveano addotto oggimai quell’istante, che a voi concedeva di ascendere da schiavi all’essenza di liberi uomini; come a me, di potermi da illimitata, e soverchia, a moderata, giusta e durevole autorità innalzare. Venuto era il punto, ma non venuti eran gli uomini. Ad arbitrio vostro interissimo, non impediti voi da nessuno, vi siete andati fabbricando con la rovina di tutti un governo, che ingiusto riusciva tosto, e mostruoso, non meno che insussistente e risibile. Giurato da voi, e da me, nè voi lo adopraste, nè io. Ma, di chi fosse la colpa, coi fatti brevemente si mostri.
Voi, del pubblico disordine figli, del pubblico disordine grandi, troppo conscii a voi stessi della insufficienza vostra al ben governare, incapaci affatto di dar savie leggi, guidati soltanto dalle private vendette; Voi, nella total distruzione d’ogni legge, ed usanza anteriore, avete stoltamente creduto dar base durevole alla nuova vostra tirannide. Abbattuta, annichilata da Voi, e proscritta del Re la persona, ed il nome; ma non abbattuta no, nè proscritta la terribile smisurata potenza del Re. Chè anzi, a voi addossandola, tant’oltre con le insanguinate mani l’avete voi spinta, che ai Neroni, e Caligoli invidia sareste. Le proprietà di tutti, o incendiate, o rapite, o dimezzate, o mal certe; le persone, quali sotto un simulato manto d’inique arbitrarie leggi, imprigionate, e straziate: quali altre, con crudeltà più sfacciata, nelle proprie lor case, nelle pubbliche vie, nelle carceri stesse, e (ardirò io pronunciarlo, altri crederlo?) nei sacrosanti Templi pur anco, da vili mal compri assassini trucidate, e sbranate... Che più? Imprenderei forse io a ritrarre, o ad accennare neppure, gli orrendi incredibili effetti della tuttora nascente tirannide vostra? Tremanti or qui tutti voi stessi (mentre pur me giudicar pretendete); tremanti nel cuore voi tutti non veggo fors’io, benchè in simulato contegno di stoica fortezza la servil vostra fronte sotto l’ampio cappello ascondiate? Ergete, ergete quegli occhi ai palchi affollati, che degnamente or v’accerchiano, e di que’ vostri ivi sedenti tiranni tremate voi primi. E voi, che dai palchi minacciosamente i giudici, e i giudicati oltraggiate, all’esteriori finestre di questo teatro d’insania, e di sangue affacciatevi, e di quegli altri vostri ivi urlanti tiranni, più assai di voi numerosi, e cenciosi, tremate. E così, quelli pure a vicenda ivi tremino delle tant’altre sediziose, sfrenate, e facinorose adunanze. Ma in questa sì fatta interminabil catena di perenni tremori niun’uomo securo qui vive, nè alcun liber’uomo qui sorge, fuor ch’io. Io, sì; che dal grado eminente di Re al grado di accusato, e di proscritto scendendo, null’altro oramai che la morte bramando, e gli uomini appieno, e voi conoscendo, e me stesso, senza pur mai tremare, qui stommi.
Ma ecco, che io, senza quasi avvedermene, mi son tratto a parlare dei mezzi con cui stabilivasi questa vostra Costituzione, e degli effetti da essa prodotti; mentre io pur m’era proposto di accennare soltanto, come voi primi, voi soli, voi sempre, infranta avevate, e vilipesa questa vostr’opera. Or, che dico io? Parlando dell’una di sì fatte cose, dell’altre, e di tutte parlava. I mezzi, co’ quali la vostra Costituzione stabilivasi, erano la violenza ed il sangue; gli effetti, da essa prodotti, erano la violenza ed il sangue; i modi con cui a vicenda secondo l’utile, e le mire vostre finor la eseguiste, erano, e sono tuttavia, nè altri esser mai potranno, se non se la violenza, ed il sangue. Ogni uomo probo, moderato, amante del retto, e dell’ordine, sotto maligni, e stolidi speciosi nomi non avete cessato pur mai di perseguitare, spogliare, atterrire ed uccidere. Ogni reissimo uomo all’incontro, carico di delitti, e d’infamia; ogni uomo di vendetta, e di morte, trovò presso voi protezione, impunità, e mercede; ed onori, direi, se cotal gente riceverne, se cotal gente donarne, potessero. Tralascio le tante altre guise in cui offendeste voi, e la Costituzione, ed il popolo, e la giustizia, e l’umanità, e la ragione, ed i vostri vili interessi privati perfino. Arrogarvi le autorità tutte; i miei ministri eleggere a viva forza voi stessi; non lasciar loro nessunissimo mezzo per far eseguire le vostre medesime leggi; a capriccio vostro sforzarmi ora a scacciarli, ora a ripigliarli; insultarmi ogni giorno con pubblici fogli, e villane parole; togliermi tirannicamente, in una tumultuaria sessione notturna, quella stessa guardia, che sotto il nome di mia, da voi stessi tre mesi innanzi era stata legalmente prescritta; violare ad armata mano, per mezzo di una scurrile pagata plebe, il mio asilo (oltraggio che a niun semplice cittadino privato, da un popolo veramente libero, non si ardisce mai fare); la religione dei vostri maggiori con acerba viltà perseguitare, e deridere; ogni qualunque altro culto con finta umanità autorizzare, ed ischernire ad un tempo, per tutti in tal guisa distruggerli... E quando mai tacerei finalmente, se alla sfuggita puranco accennare soltanto volessi le insane battiture perenni, con cui, non che la sconcia vostr’opera, ma ogni idea di libero, ed assennato governo laceraste, annullaste, Voi stessi?
Resta oramai, che tra le imputazioni a me fatte pur tante, e sì false, di una sola io in viva voce mi sciolga; e non già agli occhi vostri (che appo voi l’esser reo mi è laude), ma agli occhi dell’universo, e dei posteri. Rimproverate mi vengono le manifestamente provocate uccisioni, fatte da quelle Guardie, che voi avevate destinate a custodirmi nella mia regia carcere, nell’atto di respingere una immensa plebe, che in anni, a bandiere spiegate, preceduta, fiancheggiata, e seguita da numerosissime artiglierie, vilmente veniva ad investire la Casa di un Re prigioniero. Su questo punto ora dunque, oltre il ben noto ragguaglio del fatto, ampia vittoria mi diano le vostre stesse risposte.
Perchè mi assegnavate voi delle guardie in così gran numero, con armi, ed artiglierie? A custodire me disarmato poche guardie bastavano; le molte, mi parevan dunque da voi assegnate per difendermi, o fingerlo. Ma, proseguiam le domande.
Perchè poi, con armi, e bandiere, ed artiglierie, da Voi si lasciava (o si facea, per dir meglio) venire quella innumerabile turba ad assalire la Reggia?
Qual legge può togliere all’uomo il natural diritto della propria difesa?
In qual modo potevano due soli mila difendersi da forse dugento mila, se senza sparare si stavano ad aspettare che una tal moltitudine li circondasse?
E per ultimo: chi diede ai soldati, che mi custodivano, l’ordine di respingere con la forza la forza? Non fu egli il Maire di Parigi, persona tutta vostra, e non mia? persona che con derisoria simulazione servile, al Comandante di quelle Guardie non mie dava per iscritto, e firmato un tal ordine, e poche ore dopo, fattolo chiamare alla casa del Comune, trucidare lo facea dalla plebe, e l’ordine datogli surrepire?
Se dunque fu colpa, il dì 10 d’agosto, lo sparo delle guardie da voi destinatemi, per ultima interrogazione vi chieggo; fu ella mia, o fu vostra la colpa?
Ma già già il sogguardarvi voi taciti, una qualche risposta negli occhi l’un dell’altro invan ricercando, ben ampiamente voi tutti convince, e me scolpa. Nè uomo rimase sì stupido, che di questo a me imputato delitto, non rida.
Un’accusa, ben altra, a me verrà data dai posteri; presso cui, non solamente non liberi Voi, ma degni d’ogni più grave servaggio vi sarete appien dimostrati. E sarà quest’accusa, del non aver io in tempo adoprata in mia legittima difesa (e per la vostra felicità ad un tempo) quella forza ben intera e ben mia, che dai non ancora violati miei cenni assolutamente allor dipendeva. E grand’errore al certo fu il mio, di essermi lasciato far prigioniero in Versaglia per sempre. Ma nè di questo errore medesimo, benchè a sì duro passo or mi tragga, io non mi pentirò pure mai. Gran sangue faceva di mestieri versare in quel dì, per risparmiar forse il mio. Più degna prova, e più assai confacente al mio cuore, fia questa; veder, se il mio sangue versato, basterà a risparmiarne molt’altro. In me tuttavia quel Principe stesso io sento, e quel sono, che di sua spontanea volontà liberissima, Signore di tutti voi assoluto, da niun’altra forza costretto, se non dall’amor del ben pubblico, gli Stati Generali di questo mio regno intimava. Ed a tal fine intimavali, perchè le tre diverse classi del Popolo, con giusto equilibrio perpetuo, i loro diritti, e quelli del trono ad un tempo, con nuovo ripartimento rettificati, consolidassero. Indistruggibile reciprocità di diritti, unica base perenne, e sola cagione della verace libertà di ciascuno, come della massima sicurezza, e prosperità dello Stato.
Le violenze dunque ed il sangue, da me costantemente abborriti, alle violenze, ed al sangue, ed alla propria total rovina (pur troppo) han condotto quest’infelice mio Popolo. Infelice egli, sì, più di me, mille volte. Che io, giusto in me stesso e sicuro, una indegna, e non meritata morte antepongo pur sempre all’avere, od ingiustamente anco un solo innocente, o con arbitrarj mezzi un sol reo colla dovuta morte punito.
Non so, dopo me, qual trattamento, o supplizio alla Regina mia Consorte, e ai miei Figli, dalla instancabile vostra crudeltà si prepari. Certo, se potessero a un Re non disdirsi le lagrime, e i prieghi, io ben potrei piangere sul loro infelice destino, io forse anche ai preghi potrei abbassarmi, per essi. Ma, e che potreste loro Voi togliere? E che potreste a lor mai donar Voi? Una miserissima vita, di pianto intessuta e d’obbrobrio. Più alto, più utile, e più generoso fia il dono che ad essi ben posso pur anco far io: con il sublime mio esempio, alla Consorte, ed ai Figli insegnare a regalmente da forti morire.
Su dunque; e nel Re vostro da prima, e nella sua intera innocente famiglia dappoi, su via, il cenno date voi tosto ai carnefici vostri pur tanti, di coraggiosamente infierire.
Onnipotente Iddio, tu che queste parole mie ultime ascolti, e il cuore, che le mi detta, fin nel più intimo vedi; deh, vogli tu con la tua mano sovrana operare, che il nostro innocentissimo Sangue alla costoro tirannide venga a dar fine, ed alla nuova felicità della Francia cominciamento.
Note
- ↑ Queste due date così rapprossimate, del dì 11 decembre in Parigi e del dì 14 decembre in Firenze, parranno forse impugnare la verità della presente versione, stante l’impossibilità quasi dell’essere sì tosto giunta in Firenze la parlata tenuta in Parigi: ma il traduttore potea pur indovinare e sapere ciò che il Re accusato, e citato, doveva aver detto.