Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo III
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III.
Ogni volta che entrava nel camerone, come veniva chiamato il salone della baronessa di Lagomorto, don Silvio La Ciura si sentiva compreso da un sentimento di ammirazione che lo rendeva più timido del solito.
Era rimasto in piedi, con una punta del cappello da prete appoggiata alle labbra, e sembrava quasi smarrito tra i vecchi mobili che davano allo stanzone bislungo un’aria di decrepitezza e di abbandono.
Attendendo che la baronessa comparisse da uno dei quattro usci alti fino al cornicione, dopo di aver dato una rapida occhiata ai ritratti polverosi, ai quadri anneriti e screpolati; agli specchi con cornici barocche, appannati e mezzi rosi dall’umidità, che coprivano le pareti; ai canterali tinti in verde pallido con fiori e fregi bianchi, alla pompeiana, nei margini e nel centro delle cassette; alle esili seggiole con spalliere dorate, alle poltrone e ai due canapè di stile impero, rivestiti con damasco rosso già stinto e logoro, don Silvio si era fermato a contemplare il gran quadro senza cornice, dove si scorgevano a mala pena la calva testa di san Pietro, quelle di altre cinque figure di fantesche e di soldati che lo circondavano nel pretorio di Pilato, e un gallo, su la balaustrata del portico, col becco aperto in atto di cantare.
Egli avrebbe voluto vedere quel quadro in chiesa, su l’altare di una cappella, e non là irriverentemente sovrapposto alla spinetta verniciata in giallo smorto con fregi neri e sorretta da tre sottili gambe quadrate, che stava appoggiata lungo il muro, con la parte della tastiera verso il finestrone. Ma non osava di tornar a suggerire alla baronessa l’idea di regalarlo alla parrocchia.
Quel quadro era stato portato da Roma, nel Seicento, da uno degli antenati di suo marito, ed ella voleva conservare intatti tutti i ricordi di famiglia, come li aveva trovati il giorno che dalla casa dei Roccaverdina era venuta in quella degli Ingo-Corillas, baroni di Lagomorto, sposa al baroncino don Alvaro più di mezzo secolo addietro.
Il fruscìo della gonna sui mattoni verniciati del pavimento rivelò al prete la presenza della baronessa soltanto mentr’ella gli passava accanto per andare a sedersi in quell’angolo di canapè dove soleva rannicchiarsi le rare volte che riceveva la visita di un parente o di persone molto intime. Don Silvio era tra queste.
Alta, stecchita, piena di rughe ma ancora rubizza, con capelli bianchissimi divisi in due bande che le coprivano le orecchie e le rimpicciolivano il volto tra le pieghe del fazzoletto di seta nera annodato sotto il mento; vestita di leggera stoffa grigia e coi mezzi guanti di filo dello stesso colore alle mani scarne e affilate, la baronessa era entrata senza far rumore dall’uscio a cui don Silvio voltava in quel momento le spalle.
Il prete fece un profondo inchino, si accostò a baciarle la mano appena ella, messasi a sedere, gli ebbe accennato una poltrona; poi, con umile atteggiamento ed esile voce, incominciò:
— Mi manda Gesù Cristo...
— Gesù Cristo vi manda da me troppo spesso! — lo interruppe la baronessa, sorridendo benignamente.
— Si rivolge alle persone che possono fare e fanno volentieri la carità — rispose don Silvio.
E così dicendo, parve volesse rendere più piccola la sua personcina bassa, magra, che nelle occhiaie e nelle pallide gote infossate mostrava i segni dei digiuni e delle penitenze con cui macerava il misero corpo.
— Gesù Cristo però — riprese la baronessa crollando la testa, — si ricorda dei poveri che non hanno come sfamarsi, e dimentica che ricchi e poveri abbiamo già bisogno della pioggia pei seminati, per le vigne, per gli ulivi!
— Pioverà, a suo tempo, se i nostri peccati non vi mettono ostacolo.
— Voi fate penitenza per tutti, voi — soggiunse la baronessa.
— Io sono più peccatore degli altri!
— Diteglielo, diteglielo a Gesù Cristo: Ci vuole la pioggia, Signore! Ci vuole la pioggia!
— Glielo dirò — rispose con semplicità il buon prete. — Intanto vengo a raccomandarle di nuovo quella povera donna, la moglie di Neli Casaccio. Ora che suo marito è in carcere, perisce di stenti la poveretta, con quattro figli che non possono darle nessun aiuto. Ella giura, al cospetto di Dio e dei santi, che suo marito è innocente.
— Se è così, non potranno condannarlo.
— Quando era in libertà, provvedeva lui alla famigliuola col suo mestiere di cacciatore.
— Manderò un sacco di grano, anzi di farina; sarà meglio.
— Dio glielo renda, tra cent’anni, in paradiso.
— Vorrei piuttosto — riprese la baronessa, — che Dio me lo rendesse un po’ anche in questo mondo, almeno aggiustando il cervello a mio nipote il marchese, liberandolo dalle male arti di quella donnaccia.... Tenta di riafferrarlo la sfacciata! Non ho chiuso occhio questa notte, dopo di aver saputo...
— Sia fatta la volontà di Dio! — esclamò don Silvio, giungendo rassegnatamente le mani.
— La volontà di Dio qui non c’entra per niente — replicò quasi stizzita la baronessa. — Dio non può permettere certe enormità; non può volere che la figlia di una raccoglitrice di ulive diventi marchesa di Roccaverdina. Pares cum paribus, ha detto il Signore.
— Siamo tutti uguali davanti a lui!
— Oh, no, no! — ella protestava. — Perchè dunque Gesù Cristo ha voluto nascere da una madre di stirpe reale? San Giuseppe, falegname, fu padre putativo soltanto.
La baronessa si fermò un istante, aspettando che don Silvio le desse ragione. E siccome il prete rimaneva zitto, con gli occhi bassi, ella continuò:
— Ai miei tempi si rimediava a tutto col braccio delle autorità; ma oggi!... Io però ho mandato a chiamare quella donna; dovrebbe già essere qui, se lo stolido di don Carmelo....
In quel punto, il vecchio servitore che faceva da maestro di casa, da cameriere e da cuoco in casa della baronessa, affacciava la testa da uno degli usci, annunciando che quella donna attendeva nell’anticamera:
— Posso farla entrare?
— Sùbito, — rispose la baronessa.
Agrippina Solmo salutò, con un cenno del capo, prima lei, poi don Silvio e, chiusa nella mantellina, eretta, quasi altera, gettando sguardi diffidenti e scrutatori ora su l’una, ora su l’altro, si avvicinò lentamente verso il canapè.
— Che comanda, voscenza?
Il tono della voce era umile, l’atteggiamento no.
— Non comando niente; sedete.
E rivolgendosi a don Silvio, la baronessa soggiunse:
— Ho piacere che voi siate testimone. - Sedete — replicò, vedendo che la Solmo restava ancora in piedi. Poi, dopo alcuni istanti di pausa, con aria severa e accento duro, disse:
— Figlia mia, parliamoci chiaro. Se avete fatto ammazzare vostro marito...
— Io?... Io?
La baronessa, senza lasciarsi intimidire dall’energica protesta, nè dall’occhiata divampante di indignazione che l’aveva accompagnata, continuò:
— C’è chi lo sospetta e lo farà sapere anche alla giustizia!
— E perchè, perchè lo avrei fatto ammazzare? Io? Oh, Vergine santissima!
— Chi sa che vi è passato per la testa! Tentazioni del demonio, certamente. Vi eravate messa in grazia di Dio prendendo marito... Non vi accuso per quel che è accaduto prima; vi compatisco anzi... La miseria, i cattivi consigli, la giovinezza... Forse neppure comprendevate il male che vi si faceva commettere. Infatti, vi siete comportata quasi da donna onesta... Mio nipote, dall’altra parte, ha fatto il suo dovere. Si è tolto ogni scrupolo di coscienza. Siete ricca, si può dire, con la dote ch’egli vi ha dato... Perchè dunque non lo lasciate in pace? Che vi passa per la testa? Fingete di non capire quel che vi dico, eh?
— Ma..., signora baronessa!
— Sbagliate, figlia mia, se v’immaginate che possa riuscirvi ora quel che non vi è riuscito l’altra volta!
— Che cosa, signora baronessa?
— Segnatevelo qui, su la fronte. C’è chi tiene bene aperti gli occhi e vi sorveglia! Se avete fatto ammazzare vostro marito per...
Agrippina Solmo scattò dalla seggiola, lasciò cascare su le spalle la mantellina, e levando in alto le braccia, imprecava:
— Fulmini del cielo, Signore! Fuoco in questa e nell’altra vita a chi mi vuol male!
E coprendosi il volto con le mani, scoppiava in pianto dirotto.
— Calmatevi! — intervenne don Silvio. — La baronessa parla pel vostro bene...
— Voi che siete un santo servo di Dio! — singhiozzava la vedova, asciugandosi le lagrime e facendo sforzi per frenarle. — Parlo a un confessore, come se fossi in punto di morte: L’hanno ammazzato... mio marito... a tradimento! Oh!... Farlo ammazzare io!... Chi lo dice?... Venga in faccia a me!... Giuri su l’ostia consacrata!... Se c’è Dio in cielo...
— C’è, c’è, figliuola mia! — esclamò don Silvio, stendendo le mani, quasi volesse chiuderle la bocca e impedirle di bestemmiare.
— Per quale scopo dunque andate così spesso da mio nipote? — strillò la baronessa. — Non vi cerca lui; non vi manda a chiamare lui!
— Pel processo, pei testimoni.
— Il processo? L’ha istruito il giudice. I testimoni? Deve forse scovarli mio nipote? Pretesti! Pretesti! Ormai dovreste averla capita. Se vi lusingate di ricominciare da capo, se vi siete messo in testa... di salire alto dalla vostra condizione... Ecco perchè la gente sospetta: L’ha fatto ammazzare essa il marito!
Agrippina Solmo si era rimessa a sedere. Non piangeva più; sembrava irrigidita contro la terribile accusa gettàtale in viso dalla vecchia signora. E, quasi continuasse ad alta voce il rapido ragionamento interiore che le agitava le labbra e la faceva errare con sguardi smarriti lontano lontano, parlava senza rivolgersi a nessuno, ora lentamente, ora a sbalzi:
— Dio solo può saperlo!... Avevo sedici anni. Non pensavo al male; ma, insistenze, preghiere, promesse, minacce... In che modo resistergli?... E sono stata la sua serva, la sua schiava, dieci anni, volendogli bene come a un benefattore. In prova, il giorno che all’improvviso egli mi disse: — Devi prendere marito, il marito che ti do io... — Ah, signora baronessa!... Abbiamo un cuore anche noi poverette!... Avrei voluto continuare ad essere soltanto sua serva, sua schiava... Che ombra potevo dargli? Eppure non fiatai. Ha comandato, ed ho obbedito. Che ero io rimpetto a lui? Un verme della terra... Ed ora, infami! dicono che ho fatto ammazzare mio marito perchè vorrei... Ma a chi devo ricorrere in questa circostanza? Non ho più nessuno al mondo!
— Abbiate fiducia in Dio, figliuola mia!
— Se il Signore voleva proteggermi, non mi toglieva il marito! — ella rispose bruscamente a don Silvio, alzando le spalle.
— È peccato mortale quel che dite!
— Si perde anche la fede in certi momenti!
Raccolse la mantellina, se l’aggiustò su la testa, chiuse sdegnosamente attorno al volto le falde davanti e, ritta, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra, attese così che la baronessa la licenziasse.
La baronessa in quell’istante parlava sottovoce all’orecchio di don Silvio.
— Ma è poi vero? — rispondeva il prete.
— Le donnacce come lei sono capaci di tutto!
— Comanda altro, voscenza?
Agrippina Solmo non dissimulava l’impazienza di andarsene.
— Badate a quel che fate! Uomo avvisato è mezzo salvato, — rispose seccamente la baronessa.
E la seguì fino all’uscio con gli sguardi aguzzi, tetri di rancore, che sembrava la sospingessero fuori per le spalle.
— Questa è la grossa spina che ho nel cuore! — ella esclamò. — Dopo d’aver fatto tanto per indurre mio nipote a darle marito!... Almeno non c’era più pericolo di vedergli commettere una pazzia!... Ma già noi Roccaverdina siamo, chi più chi meno, col cervello bacato! Mio fratello il marchese, padre di mio nipote, sciupava tempo e danaro con le corse dei suoi levrieri. Voi non lo avete conosciuto. Si era fatto fare un vestito da burattino, all’inglese, diceva lui, e andava attorno pei paesi vicini a ogni festa di santi patroni, facendo la concorrenza ai ginnetti... Mio fratello il cavaliere si è rovinato per le antichità! Scava ossa di morti, vasi, brocche, lucerne, monetacce corrose, ed ha la casa piena di cocci. Suo figlio se ne è andato a Firenze a studiare pittura, in apparenza; a buttar via quattrini, in realtà; quasi suo padre non bastasse da solo a mandar per aria il patrimonio!... Mio nipote, il marchese attuale... Oh! C’è il castigo di Dio su la nostra casa!
S’interruppe vedendo entrare dall’uscio rimasto socchiuso quattro canini neri, bassi, mezzi spelati, con gli occhi cisposi, quasi vecchi quanto lei, che volevano saltarle tutti insieme su le ginocchia.
— La mia pazzia, lo so, — ella disse allontanando dolcemente i canini, — sono questi qui. Ma io non rovino nessuno; e per gli affari, me ne vanto, il cervello l’ho a posto. Così lo avesse avuto a posto il barone mio marito!... Bravo, don Carmine!
Strascicando la gamba, reggendo con le due mani uno scodellone di pane e latte, il vecchio s’inoltrava cautamente per non versare la zuppa, imbarazzato dalla ressa delle quattro bestioline che, alla vista del loro pasto, erano corse ad abbaiargli e a saltellargli attorno alle gambe.
Inutile precauzione! Sospingendosi, urtando lo scodellone con le zampe e coi musi, i cani facevano schizzare parte della zuppa sul pavimento; e la baronessa, intenerita, si chinava soltanto ad accarezzarli, chiamandoli per nome, per impedire che si mordessero, esclamando ripetutamente:
— Povere bestie! Avevano fame, povere bestie!
Don Carmine, piegato in due, con le mani dietro la schiena, tentennava la testa osservando i bei mattoni di Valenza insudiciati.
— Non occorre ripulire; ripuliscono essi — gli disse la baronessa mentre egli si chinava per riprendere lo scodellone vuotato.
E leccato bene il pavimento, i cani andavano quatti quatti ad accucciarsi, raggomitolandosi a due a due, sui seggioloni destinati a loro in un angolo, con cuscini a posta.
— Anche questa è carità, caro don Silvio! — disse la baronessa accomiatandolo.