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S’interruppe vedendo entrare dall’uscio rimasto socchiuso quattro canini neri, bassi, mezzi spelati, con gli occhi cisposi, quasi vecchi quanto lei, che volevano saltarle tutti insieme su le ginocchia.

— La mia pazzia, lo so, — ella disse allontanando dolcemente i canini, — sono questi qui. Ma io non rovino nessuno; e per gli affari, me ne vanto, il cervello l’ho a posto. Così lo avesse avuto a posto il barone mio marito!... Bravo, don Carmine!

Strascicando la gamba, reggendo con le due mani uno scodellone di pane e latte, il vecchio s’inoltrava cautamente per non versare la zuppa, imbarazzato dalla ressa delle quattro bestioline che, alla vista del loro pasto, erano corse ad abbaiargli e a saltellargli attorno alle gambe.

Inutile precauzione! Sospingendosi, urtando lo scodellone con le zampe e coi musi, i cani facevano schizzare parte della zuppa sul pavimento; e la baronessa, intenerita, si chinava soltanto ad accarezzarli, chiamandoli per nome, per impedire che si mordessero, esclamando ripetutamente:

— Povere bestie! Avevano fame, povere bestie!

Don Carmine, piegato in due, con le mani dietro la schiena, tentennava la testa osservando i bei mattoni di Valenza insudiciati.

— Non occorre ripulire; ripuliscono essi — gli disse la baronessa mentre egli si chinava per riprendere lo scodellone vuotato.