Il Fiore delle Perle/25. Cos'era avvenuto dei superstiti della cannoniera
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Capitolo XXV
Cos’era avvenuto dei superstiti della cannoniera
Pochi minuti dopo Than-Kiù ed i suoi compagni si trovavano radunati attorno al fuoco che era stato riacceso in mezzo alla piattaforma, presso il vecchio capo igoroto.
Il pericolo era ormai cessato. I mandayas che erano scesi al suolo per raccogliere le armi dei morti, armi molto preziose per loro, avevano frugati i dintorni del loro villaggio cacciandosi nelle macchie ed erano ritornati recando la buona notizia che gli assalitori avevano sgombrata la foresta.
Il capo, dopo d’aver mandato alcune sentinelle a terra per tema d’una nuova sorpresa, aveva ripresa la parola, mentre Pram-Li funzionava da interprete.
— Io ho veduto gli uomini bianchi, — disse, — e li ho veduti come ora scorgo voi, perchè il dato (capo) Bunga non aveva segreti per me. Uno era bruno, di statura alta, coi capelli neri, ricciuti, ed il mento coperto da una barba pure nera; gli altri erano tutti bianchi, compresa la donna.
Mi ero recato da Bunga per avere delle armi onde difendermi dal bagani, che mi uccideva di frequente degli uomini, or sono circa quattro settimane.
Appena attraversato il Bacat, con mia grande sorpresa, vidi uno di quegli uomini bianchi, occupato a pescare in compagnia d’alcuni negriti.
Non avendo prima di quel momento mai veduti uomini di quella razza, nè sapendo che ne esistessero, appena giunsi da Bunga mi ero affrettato a chiedergli da dove era venuto quello straniero e se quel colore era vero o se si trattava d’una pittura.
Ebbi l’affermazione che quell’uomo era veramente bianco e per provarmi che non mentiva, Bunga mi mostrò un altr’uomo dalla pelle bianca ed una giovane bellissima, dagli occhi neri, e che mi pareva nondimeno assai sofferente.
— Hai mai udito il nome di quella donna? — chiese Than-Kiù, che non perdeva una sillaba.
— No, mai, — rispose il capo, — e poi non avrei potuto sapere quale fosse, poichè quella giovane parlava una lingua affatto a me sconosciuta e del pari l’uomo dalla pelle bruna. Discorrevano sempre assieme e non si lasciavano mai.
— Ah!... — sospirò Than-Kiù, mentre un cupo lampo le balenava negli sguardi.
— Continua, — disse Hong. — Chi erano gli altri due uomini dalla pelle bianca?
— Erano giovani dalle spalle larghe e dalle membra muscolose i quali trattavano con molta deferenza la donna e l’uomo dalla pelle bruna.
— E non hai veduto un uomo dai capelli grigi?...
— No, — disse il capo.
— Ne sei certo?...
— Non m’inganno.
— Che il padre di Teresita sia morto?... — disse Hong, guardando Than-Kiù che era diventata tetra.
— Può essere, — rispose questa, quasi distrattamente.
— Continua, capo, — riprese Hong.
— Curioso di sapere come Bunga fosse venuto in possesso di quegli schiavi dalla pelle bianca, glielo chiesi e mi raccontò che li aveva presi ai pirati del sultano di Butuan, mentre risalivano il Bacat con tre canoe.
— E non sai dove i pirati avevano fatti prigionieri gli uomini dalla pelle bianca? — chiese Hong.
— Sì, erano stati presi presso la foce di un fiume che si chiama... non me lo rammento ora, ma te lo saprò dire.
— Il Talajan, forse?...
— Sì, sì, il Talajan.
— Than-Kiù, — disse Hong, con viva emozione, — sono loro, non è possibile ingannarci. —
La giovanetta non rispose. Col capo stretto fra le mani ed i gomiti appoggiati alle ginocchia, pareva che fosse immersa in profondi pensieri.
Il chinese la guardò per alcuni istanti in silenzio e sospirò, mormorando:
— L’amore per Romero non è del tutto spento nel cuore del Fiore delle perle, ma il tempo rimarginerà la ferita. Passione fatale che ha reso infelice la più bella e più valorosa fanciulla del Celeste Impero. —
Poi, rivolgendosi a Pram-Li, fece chiedere al capo se la tribù di Bunga si trovava molto lontana.
— Due giornate di cammino, verso il sole che si leva, — rispose il vecchio igoroto. — Ha i suoi villaggi sulle rive d’un vasto lago che si chiama il Linguasan, però i suoi abitanti si spingono sovente fino al Bacat per pescare.
— Credi che saremo bene accolti da Bunga?
— Bunga mi deve molto, avendolo salvato da certa morte sei mesi or sono e nulla rifiuterà a me, nè toccherà un capello agli amici miei. Vuoi recarti da lui?...
— Sì, lo desidero.
— Vuoi salvare gli uomini dalla pelle bianca?...
— Abbiamo intrapreso un lungo viaggio per questo.
— Tu li avrai. Bunga pagherà il suo debito di riconoscenza, consegnando a te gli schiavi dalla pelle bianca e fin dove lo potrà ti proteggerà. Se io fossi più giovane e se la mia tribù non corresse alcun pericolo ti accompagnerei, nondimeno ti darò una guida fedele che mi rappresenterà.
— Sarò io — disse il giovane selvaggio che avevano incontrato nella foresta.
— Sì, mio bravo Tiguma — disse il capo. — All’alba, ora che i cacciatori di teste più non ci minacciano, salirai l’albero colla fanciulla che ami, poi partirai pel lago di Linguasan. Tu sei valoroso e fedele e Bunga ti conosce.
— Cosa vuol dire il capo con queste parole? — chiese Hong a Pram-Li. — Salirà l’albero con la fanciulla?
— È la cerimonia del matrimonio — rispose il malese. — Questi igoroti hanno degli strani usi.
— E poi il giovane ci accompagnerà?
— Sì, e non partiremo prima di questa sera, per lasciar tempo agli uomini del bagani di allontanarsi.
— Che non ci tendano invece un agguato in piena foresta?
— Non avere questo timore: morto il capo, la spedizione è finita. D’altronde hanno ricevuto tale lezione, che non torneranno più mai ad importunare questi poveri selvaggi.
Intanto il capo degli igoroti si era alzato e spintosi verso l’orlo della grande piattaforma guardava verso oriente dove le stelle cominciavano ad impallidire e dove l’oscurità fuggiva rapidamente. Attendeva il primo raggio di sole per cominciare la funzione del matrimonio.
La bella igorota, alla quale Than-Kiù aveva regalato il braccialetto, attendeva pure lo spuntare dell’astro diurno, guardando il fidanzato che le si era messo di fronte, in atteggiamento fiero, stringendo nella destra il kampilang che aveva preso al bagani. Entrambi, per la lieta circostanza, si erano abbelliti, piantandosi nei capelli penne di colombe coronate e cingendosi il collo, le braccia e le gambe con collane di scagliette di tartaruga, di denti di cinghiale e di conchigliette bianche.
Tutta la tribù si era intanto raccolta attorno ai due giovani selvaggi: uomini, donne e fanciulli, ma i primi erano tutti armati onde proteggere i fidanzati.
Hong, Than-Kiù ed i loro due compagni attendevano con curiosità il segnale del capo. Tutt’e quattro avevano fatto qualche regalo agli sposi: Hong aveva dato al giovane una cintura di seta, Pram-li un piccolo coltello, Sheu-Kin un borsellino e Than-Kiù, oltre il braccialetto, aveva dato alla fanciulla il fazzoletto di seta gialla che portava al collo.
Quando il primo raggio di sole sorse dietro le alte cime degli alberi, il capo fece calare dalla piattaforma parecchie solide liane e delle corde di rotang, essendo stati tagliati i bambù che servivano da scale.
L’intera tribù abbandonò il villaggio e si calò a terra, mettendosi tosto in marcia attraverso la foresta.
Apriva il passo il capo, poi seguivano Than-Kiù ed i suoi amici, quindi venivano i due fidanzati, poi i parenti e dietro tutti gli altri in gruppo serrato ed armati.
La tribù, dopo aver percorsi duecento passi, s’arrestò intorno a due giovani palmizi dal tronco snello, elastico ed altissimo, che crescevano l’uno accanto all’altro alla distanza di sessanta o settanta centimetri.
Il capo mandò alcuni uomini a vigilare nelle macchie vicine, poi prese per una mano il giovane fidanzato e lo condusse dinanzi ai due alberi.
Tiguma, lesto come una scimmia, s’arrampicò sul più grosso, raggiunse in pochi istanti la cima, strappò alcune foglie piumate, quindi ridiscese e le gettò ai piedi della fidanzata.
Questa ne raccolse una e la consegnò alle sue amiche le quali se la divisero subito, conservandone i pezzi come ricordo di quella cerimonia.
Ciò fatto Tiguma prese per mano la futura sposa ed entrambi si diressero verso i due alberi, arrestandosi ai piedi dei tronchi, quindi ad un segnale del capo cominciarono ad arrampicarsi.
Se Tiguma saliva senza fatica, nemmeno la giovane pareva trovasse delle difficoltà, poichè s’inerpicava rapida sul tronco liscio del palmizio, guardando e sorridendo al futuro marito.
— Strano modo di sposarsi, — disse Hong che seguiva con vivo interesse quell’ascensione. — Io vorrei sapere però come potrebbe fare un povero diavolo che fosse nato zoppo o che mancasse di un braccio, se volesse ammogliarsi. Decisamente qui gli storpi sarebbero costretti a rimanere eternamente scapoli. —
Intanto Tiguma e Lagayan erano giunti sulla cima. Il primo allora afferrò l’estremità del vicino tronco a cui era aggrappata la giovane e lo costrinse a piegarsi.
Quando i due fidanzati si trovarono l’uno vicino all’altro, si toccarono tre volte la fronte reciprocamente, poi si lasciarono scivolare a terra.
Il matrimonio era compiuto; non mancava più che festeggiare il lieto avvenimento con un banchetto. La tribù fece infatti ritorno al villaggio aereo, cantando e danzando attorno alla coppia felice, e si assise dinanzi a due grossi porci selvatici che erano stati già messi ad arrostire.
I pezzi d’onore furono distribuiti agli sposi ed agli ospiti, poi il resto fu diviso fra gli altri, in tante parti eguali.
Terminato il pasto, il capo condusse Than-Kiù ed i suoi compagni nella miglior capanna del villaggio onde prendessero un po’ di riposo, non avendo chiuso gli occhi durante l’intera notte.
I viaggiatori, già molto stanchi per tante notti insonni, approfittarono così bene di quel riposo, che non si svegliarono che al tramonto del sole.
Il capo offrì loro una cena composta d’una grossa testuggine che i suoi uomini avevano sorpresa durante la giornata, li regalò poscia d’una provvista di viveri pel viaggio, consistente in carne secca di cignale ed in radici di canoche; poi volle, per colmo di cortesia, scortarli per alcune miglia assieme ad un drappello dei suoi più valorosi guerrieri, quantunque fosse ormai certo che i cacciatori di teste si fossero allontanati.
Tiguma, abbracciata la sposa, si era messo alla testa del drappello, portando con sè quattro bolos presi agli uomini del bagani che dovevano servire di regalo al capo Bunga, regalo preziosissimo, non sapendo i negriti lavorare i metalli.
A due miglia dal villaggio, il vecchio igoroto, dopo d’aver salutato con voce commossa i suoi ospiti e di averli caldamente ringraziati del loro valido aiuto contro i furori del bagani, li lasciò e il piccolo drappello continuò la via per giungere ai primi albori sulle rive del Bacat.
Nessun rumore rompeva il silenzio che regnava sotto quei grandi vegetali, come se quella parte della selva fosse assolutamente priva di animali notturni.
Non si udiva che lo scrosciare delle foglie secche calpestate dal drappello o lo scricchiolìo di qualche ramo spezzato dal giovane selvaggio per aprire il passo ai compagni.
Than-Kiù, assorta in profondi pensieri, camminava a fianco di Hong, senza parlare. Pareva che un’improvvisa tristezza fosse piombata nell’anima del Fiore delle perle, mentre avrebbe dovuto essere lieta per la prossima salvezza dell’uomo che da tanto tempo avevano invano cercato.
Anche Hong sembrava meditabondo e preoccupato. Forse pensava all’imminente incontro della sua fidanzata con Romero e si sentiva invadere da vaghi timori; forse aveva paura d’un improvviso risveglio dell’affetto di Than-Kiù per quell’uomo, che un tempo ella aveva così ardentemente amato.
Verso la mezzanotte, dopo una marcia assai rapida di quattro ore, si arrestavano sulle rive d’un corso d’acqua, d’un affluente del Bacat, per prendere un po’ di riposo.
Tiguma, Pram-Li e Sheu-Kin vollero approfittare di quella fermata per recarsi alla caccia delle tartarughe, avendo detto il giovane igoroto che in quel luogo abbondavano.
Than-Kiù si era intanto seduta sulla riva del fiume, appoggiata al tronco d’un superbo palmizio, come se volesse approfittare di quella sosta per prendere un po’ di sonno. Hong, in piedi a pochi passi da lei, appoggiato alla sua carabina, vegliava. Ma era sempre meditabondo ed in preda a vive inquietudini.
I suoi sguardi non si staccavano un solo istante dal giovane Fiore delle perle, come se volesse indovinare i pensieri che tormentavano la povera fanciulla, essendo egli convinto che non dormisse.
Infatti, guardandola attentamente, vedeva il corpo di lei agitato da un impercettibile tremito convulso e udiva, ad intervalli, un leggier tintinnìo dei braccialetti d’oro che portava ai polsi.
Hong le si era lentamente avvicinato e l’aveva toccata, ma sembrava che la fanciulla non se ne fosse accorta, non essendosi mossa. Allora si curvò su di lei e le sfiorò i lunghi capelli che ella teneva sciolti sulle spalle.
Than-Kiù trasalì, poi si alzò di scatto coi lineamenti contratti; vedendosi dinanzi il chinese si ricompose subito e gli sorrise.
— Ah!... Sei tu, mio valoroso amico, — disse.
— Cos’hai, mia fanciulla?... — chiese Hong, con angoscia. — Tu sei triste, assai triste. Quali tetri pensieri conturbano il piccolo cuore del Fiore delle perle?... È un lontano rimpianto od è una sorda gelosia che ti strazia l’anima?... Parla, fanciulla.
— No, pensavo a mio fratello.
— Ad Hang-Tu?... No, tu menti, Than-Kiù.
Ella lo guardò, esponendo il suo bel viso ai raggi della luna, poi disse con voce lenta:
— È vero, amico; io ho mentito ed ho fatto male a non dire la verità a te, che sei così leale e valoroso.
— Tu pensavi a Romero.
— Più alla Perla di Manilla che a lui, — rispose ella, con voce cupa.
— Che t’importa ormai della donna bianca?...
— Credi tu, Hong, che si possa vedere, senza provare una profonda amarezza, la donna che ha rubato l’uomo che si è tanto amato?...
— La gelosia non si è adunque spenta nel tuo cuore, mia povera fanciulla?
— Non è forse più gelosia, è rancore, peggio ancora, è odio, — disse Than-Kiù, con voce più tetra. — Credevo che tutto ormai fosse morto nel mio cuore, mentre invece ora sento scatenarsi più forte che mai, entro di me, il sentimento della vendetta verso quella donna che è stata la causa, sia pure involontaria, della morte di Hang-Tu e di tutte le mie disgrazie. —
Hong la guardò in silenzio per alcuni istanti, poi appoggiando ambe le mani sulle spalle di lei, gli disse con voce sorda:
— Vuoi che io ti vendichi?... Hong è tuo schiavo. —
Than-Kiù non rispose, ma nei suoi occhi, che la luna faceva scintillare, brillava una cupa fiamma.
— Vuoi che te la uccida?... — chiese il chinese. — Una tua parola ed essa è perduta e tu sarai vendicata.
— No, — diss’ella, con un fremito. — Non voglio dare a lui l’infelicità. So io, quante lagrime e quanti strazi mi è costata. —
Hong respirò.
— Meglio così, — disse. — Ti amo più generosa che vendicativa, Fiore delle perle. Ma lui, Romero, non l’ami più, è vero?...
— No, Hong; amo te solo, lo giuro sullo spirito dei miei antenati.
— Grazie, fanciulla; con queste parole hai salvata la vita di Romero, perchè io l’avrei ucciso!...