Il Corvo (Carlo Gozzi)/Atto quinto

Atto quinto

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Atto quarto

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ATTO QUINTO

Il Teatro rappresenta una picciola Sala.




SCENA PRIMA.

Truffaldino e Brighella.


QUESTI due personaggi avranno lutti due un fardello sotto al braccio de’ loro mobili. Avranno risolto di abbandonar quella Corte, resa troppo infelice. Faranno de’ riflessi proporzionati al loro carattere sulle circostanze di quella. Brighella è avaro. Trova troncate le vie di utilizzare per la mestizia introdotta; dunque l’uomo di abilità deve abbandonarla. Truffaldino è un parasito. Trova la cucina inoperosa, tronche le vie de’ stravizzi; dunque l’uomo di abilità deve abbandonarla. Eglino sono due personaggi fatti per far ridere. La Corte è ridotta seria e malinconica sino nella servetta; eglino non ci stanno più a proposito. Brighella: che ivi stanno come fioretti [p. 122 modifica]in mare, pesci in prato, ec. Truffaldino: anzi come formaggio in una libreria. Brighella: anzi com’acqua in tavola d’un Tedesco, ec. Truffaldino: anzi come Comici in un Teatro poco frequentato, ec. Dopo un dialogo, che satiricamente dimostri due servi cattivi, che non sentono gratitudine de’ benefizi ricevuti, ma abbandonano i loro padroni caduti in miseria, giudicando, che così deva fare l’uomo di spirito, per cercar miglior fortuna altrove, entrano.


SCENA SECONDA.

Il Teatro si cambia e rappresenta una gran sala fornita d’una lugubre tappezzeria. Si vedrà nel mezzo Jennaro in istatua sopra un picciolo piedestallo, e nell’attitudine, in cui sarà rimasto nella prigione. La statua avrà due sedili uno per parte.

Pantalone e Jennaro statua.


Pant. (gridando di dentro) Dove xele le mie viscere? dove xele le mie carne, el mio sangue innocente? Guardie, lasseme andar per carità. (esce) Dov’ello?... (guarda la statua; rimane alquanto sospeso pel dolore; indi segue piangendo grado a grado a misura dei sentimenti del suo discorso) Fio mio, simulacro della innocenza, esempio d’ogni virtù. Ah che me sona ancora in te le recchie quelle vostre ultime parole: [p. 123 modifica]


Ite al fratello. Non mi nieghi grazia
Di potergli parlar prima, ch’io mora.
Più non potrete dirmi allor, ch’io fugga:
Più infame non morrò. Paghi sarete
Di vedermi innocente.


Caro el mio ben, e mi son sta ministro della vostra desgrazia; ma ministro innocente anca mi, e credendo de far ben, ho buo parte nella vostra miseria. Ma chi averia credesto, caro el mio cuor, che sotto quelle parole ghe fosse sconta una desgrazia de sta natura? Ve domando perdon nonostante. (s’inginocchia e bacia i piedi alla statua, sempre piangendo) Ste lagreme, che sparzo sora le vostre piante, parla per il mio cuor. Vorria poderve mostrar le viscere, e che podessi veder, quanto volentiera baratteria la mia vita col vostro stato. Ah che poco ve doneria, e forsi ve faria più infelice de quel che se, perchè una vita più addolorada de quella de sto povero vecchio, no se trova a sto mondo. (si leva a stento, e guardando fissa la statua) Quella bocca, che gera la mia consolazion, più no me parla... No son più degno de esser confortà, nè rimproverà da quella ose, che me levava tutti i pesi del cuor... No go più forza de resister avanti la vostra presenza cambiada, non go cuor de vardarla... Me vien l’orbariola... me sento a cascar... farò forza a mi istesso, e in te la più scura stanza de sto palazzo anderò a pianzer solo, e a aspettar quella morte che me sento vicina.

(entra piangendo dirottamente)

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SCENA TERZA.

Udirassi ’l suono d’una marcia flebile. Usciranno delle guardie con segni di lutto, indi Millo vestito a tutto, immerso in una profonda mestizia.


     Mil. Soldati, amici, popoli, lasciatemi:
     Quì bramo di morir, piangendo sempre.
     Non mi si rechi mai cibo, o conforto. (le guardie partono)
     Quì vo’ morir. Da quest’afflitta salma
     Tra sospir caldi, e lagrime sanguigne
     Esca lo spirto mio. (siede al fianco della statua, e abbraccia le ginocchia di quella)
                                        Dolce fratello;
     Innocente fratel, chi mi t’ha tolto?
     Io fui quel traditore, io fui quell’empio,
     Che la vita ti tolse. Cara vita,
     Vita della mia vita! Almen potessi
     Farti capir, che i miei crudi sospetti,
     Ch’ebbi sopra di te, furon cagione
     Ch’io firmai la tua morte, e sol lo feci
     Per intender il ver di tanti arcani
     Dalla tua bocca; ma che non sarei
     Condisceso alla barbara sentenza
     Di vederti morir. Lo giuro al Cielo,
     Poichè t’è tolto l’ascoltarmi, e forse
     Se m’ascoltassi, non lo crederesti.
     Lo giuro al Ciclo, e al Ciel lo giuro invano;
     Che perdon non avrò. Perdon, fratello:
     Io ti chiedo perdono. Altro in vendetta

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     Per l’amaro tuo caso non potresti
     Voler, che la mia morte. A te dinanzi
     La mia morte averai. Qui la mia morte
     Seguirà a’ piedi tuoi; (piangendo amaramente)
      e allor ch’estinto
     Cadrò qui in terra, sotto a’ piedi tuoi
     Fia il mio sepolcro, e tu vittorioso
     Simulacro sarai sopr’al mio capo.
     S’incideran sul mio fatal coperchio
     I tuoi merti, i miei torti e di Morando
     L’enorme crudeltà... (spezzasi una parete e comparisce Norando)


SCENA QUARTA.

Norando e Millo.


     Nor.                               Crudo è il destino;
     Io di quel son ministro.
     Mil. (spaventato rizzandosi) E chi sei tu?
     Nor. Norando di Damasco, e nunzio sono
     Di miseria maggior. Ben sta Jennaro
     Cambiato in marmo, e ben stanno i singulti,
     Le angoscie entro al tuo sen. Scritta ne’ fati
     Fu d’un Corvo la morte, indi fu scritta
     La maladizion, che ti fu data:
     Scritto è il ratto d’Armilla, e scritto è ancora,
     Ch’esser debba crudele alla tua stirpe,
     A me stesso crudel per mia vendetta.
     Mil. (inginocchiandosi) Ah Norando... ah Signor, che tutto puoi,

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     Togliti questa vita, e nel primiero
     Stato torna il fratel.
     Nor. (con fierezza) Sorgi. Non dessi
     Voler ciò, che non puossi. Di Jennaro
     Scioglier non può le membra di quel marmo
     Fuor, ch’un rimedio sol. (a parte con ismania) Barbare stelle!
     A che mi condannate! (trae un pugnale e lo pianta a’ piedi della statua) Ecco il rimedio.
     Con quel pugnale trucidata Armilla
     Resti sopra la statua. Il sangue solo
     D’Armilla trucidata, il simulacro
     Spruzzando, al suo primier stato Jennaro
     Potrà ridur. S’hai cor di porre in opra
     Un tal rimedio, ponlo. Altro rimedio
     Non posso darti. Soffri. (con un sospiro) Io soffro ancora. (entra per dov’è giunto con prodigio)
     Mil. Fermati... ascolta... e la tua figlia, barbaro!...
     La cara sposa mia! Che intesi mai!


SCENA QUINTA.

Armilla e Millo.


     Mil. Fuggi, Armilla, deh fuggi. Tu sei giunta
     In quel d’Edipo, ed in peggior albergo
     Tra gli strazi d’inferno.
     Arm.  Sposo mio,
     Da te non vo’ fuggir. Qui venni, e intendo

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     Di recarti consiglio. Non sprezzarlo,
     Millo, benchè di donna.
     Mil.  E qual consiglio?
     Arm. Sopra un naviglio a una medesma sorte
     Andiamo, o sposo, ed in Damasco andiamo.
     Ginocchion chiederemo al padre mio
     Perdon, pietà. Le lagrime d’Armilla
     Saran sì calde, che a Norando certo
     Ammolliranno il core. A pietà mosso
     Ricambierà le membra di quel misero
     Nello stato primier. Perdoneracci;
     Sposi ci soffrirà; vivremo in pace.
     Mil. Non mi parlar di pace, amata sposa.
     Con sì dolce linguaggio il cor mi spezzi
     In più barbara forma. Cara Armilla,
     Non c’è più pace. A me restar non deve
     Che disperazione, che furore,
     Che pianto e morte. Sappi, che Norando
     Or ora apparve in questo loco, e seco
     Favellai, nè ascoltommi. Inesorabile
     Contro al fratello, a me, contro a te stessa...
     Oh Dio! che disse mai!
     Arm.                                         Norando quì?
     Come?... Ah perchè non fui... Dimmi: rimedio
     Non chiedesti al fratel?
     Mil. (sospirando)                Lo chiesi, Armilla...
     Non bramar di saperlo.
     Arm.  Deh lo narra;
     Io vo’ saperlo. Che ti disse il padre?
     Mil. Non bramar di saperlo.

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     Arm. (pigliandolo per mano) Dir mel devi.
     Mil. A che mi sforzi, mia sposa diletta!
     Che brami di saper! Fratello mio,
     Perduto fratel mio per sempre! (piange) Sposa,
     Non m’obbligar...
     Arm.  Deh, parla; io vo’ saperlo.
     Mil. È inutile il saperlo. E già impossibile
     Porlo all’esecuzion.
     Arm.  Dillo; io lo voglio.
     Mil. (staccandosi) Inorridisci, Armilla. Il tuo Norando
     A’ miei prieghi rispose: Ecco il rimedio.
     Con quel pugnale (mostra il pugnale a’ piedi della statua) trucidata Armilla
     Resti sopra la statua. Il sangue solo
     D’Armilla trucidata, il simulacro
     Spruzzando, al suo primier stato Jennaro
     Potrà ridur. S’hai cor di porre in opra
     Un tal rimedio, ponlo. Altro conforto
     Non posso darti. Soffri. Io soffro ancora.
     Così detto disparve, e zolfo, e foco
     Lasciommi entro alle vene. Or vedi Armilla,
     S’è il rimedio possibile. S’io devo
     Furente, disperato, lacerarmi,
     Passarmi ’l seno. (con atto di disperatone) Ah che la morte sola
     Può levarmi d’angoscia. (entra furioso. Arm. resta attonita)
     Arm. (con atto di orrore) Dove sono!
     Che intesi mai! Qual gelo mi trascorre

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     Per le midolle, e qual freddo sudore
     Mi circonda la fronte! Tra le donne
     Chi si trova di me più miserabile?
     Per viver prigioniera al mondo nata,
     O per esser cagion di tanti mali,
     Ch’odio, ed abbominevol creatura
     Mi rendano alle genti. Ah, ben t’intendo,
     Destin; so quel che brami, e ciò che brama
     Per vendetta mio padre. Ahi padre iniquo!
     La mia morte tu brami! Or l’averai. (con atto di disperazione corre, prende il pugnale, e si mette a fianco della statua)
     Jennaro, alma innocente, è ben ragione,
     Che il mio sangue ti lavi, e ti disciolga
     Da quel marmo crudel, che t’imprigiona.
     Io finalmente picciol sacrifizio
     Fo di me stessa, s’esco con la morte
     Da un abisso di lagrime e sciagure,
     Nè a minor prezzo ridonar si puote
     Al fratello un fratel di sì gran merto,
     Qual tu sei, raro al mondo. (con forza) Io ti consacro
     Me stessa, e il sangue mio. (abbraccia la statua, si ferisce: il sangue spruzza nella statua, la quale perde il bianco, e rimane la persona, come prima. Jennaro balza giù dal piedestallo. Nell’atto del ferirsi d’Armilla uscirà Smeraldina con uno strido femminile)

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SCENA SESTA.

Smeraldina, Armilla e Jennaro.


     Smer.                               Ahi!
     Jen.                                         Chi mi scioglie
     Dalla dura prigioni
     Arm. Oh Dio! son morta. (cade sopra un sedile)
     Smer. Ah, Principessa... ah, figlia, chi t’indusse
     Ad uccider te stessa! (si fa al fianco d’Armilla)
     Jen.                                    Come! Armilla
     Piagata il sen! Chi v’ha ferita? Oh Numi!
     Donna, mi dì, chi fu, che l’ha ferita?
     Io la vendicherò...
     Smer. (piangendo) Da sè infelice,
     Io la vidi ferirsi.
     Arm. (languendo) Non cercare,
     Jennaro, la ragion della mia morte.
     Il padre mio mi volle estinta, e volle,
     Ch’altro rimedio al viver tuo non fosse
     Fuor che il mio sangue... Il mio sangue t’ho dato...
     Vivi felice... al tuo fratel vicino.
     Gratitudine sol nella memoria
     Serba per me, se il merto.
     Jen.  Oh generosa!
     No, non morrai, che forse la ferita
     Non è mortal. Medica mano forse... (in atto di partire)

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     Arm. Fermati. Omai non ti bisogna... figlio...
     Cercar riparo... (spirante) Io sento in sulle labbra
     L’alma, che fugge... A Millo... al caro sposo...
     Dì addio... per me... se vedi ’l padre... digli...
     Digli... ch’io l’appagai... che si ricordi...
     Digli, che... oh Dio!.. dirai... che... oh Dio... già spiro. (muore)
     Smer. Ahi, ahi, oimè.
     Jen. (furente)           Passata è la meschina.
     Oh giorno! oh Cielo! oh me infelice! oh Millo!
     Oh Norando crudel!


SCENA SETTIMA.

Millo e detti.


     Mil. Quai pianti, e strida! (vedendo Jennaro) Oh fratel mio, Jennaro!
     Chi mi ti dona al sen? (corre ad abbracciarlo)
     Jen. (procurando di nascondergli Arm.) Fuggi, fratello;
     Volgi la faccia altrove. Il sguardo tuo,
     Lasso! deh non fissare in questa parte.
     Mil. (scoprendo il cadavere) Che! Armilla! la mia sposa! esangue! immersa
     Nel proprio sangue!... Ah misero, qual folgore
     Mi rischiara la mente? Io fui, fratello,
     Dell’infelice l’uccisor. Qui sola
     La lasciai: disperato, forsennato,
     Cieco non vidi, che la generosa

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     Donna potea da sè... Ma che più attendo?
      (raccoglie il pugnale)
     Questo pugnai, che il bianco seno aperse
     Vendichi la sua morte. (vuol ferirsi; Jennaro lo trattiene)
     Jen.  Non fia mai.
     Fratel, torna in te stesso.
     Mil. (facendo forza)  Deh mi lascia
     Terminar i miei giorni.


SCENA OTTAVA.

Il Teatro si cambia a vista; spariscono tutti gli oggetti lugubri, e rappresenta una vasta sala risplendente, nel fondo della quale apparisce Norando, che s’avanza.

Norando e detti.


     Nor.                                         Olà, fermate.
     A bastanza fin or puniti siete;
     A bastanza piagneste. Un Corvo ucciso
     Doveva un ratto cagionare; il ratto
     Esser dovea funesto a un grado estremo
     Per voi, per me. Già vidi ’l Corvo estinto
     Resuscitato per la morte acerba
     Della mia figlia, e l’orrid’Orco allegro.
     Or solamente in libertà rimango
     Di non esser più crudo. E già compiuto
     Il grand’arcano, nè ragion si chieda.
     Una picciol favilla arse ha cittadi,
     Ed ha frale principio ogni sciagura.
     Mil. Tiranno, chi mi rende la mia sposa?

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     Jen. Come finiscon le sciagure, dimmi,
     Con la morte di quella altera donna,
     Figlia tua, sol conforto a questa Reggia?
     Smer. Mal finisco le angosce colla morte
     Di lei, per cui morremo in doglia e in pianti.
     Nor. Dopo tante vicende a un Corvo estinto.
     Dopo tanti prodigi di Norando,
     Tai ricerche si fanno! È il verisimile
     Al proposito nostro? E lo trovate
     Forse in qualch’opra, in cui vi par vederlo?
      (prende Armilla per una mano)
     Sorgi, figliuola, Armilla; al mio potere
     Nulla s’oppone. Or posso esser umano.
     Sorgi, mia figlia, e il tuo risorgimento
     Consoli questi afflitti, e in un consoli
     Me, ch’è tempo oggimai.
     Arm. (sorgendo)  Chi è, che mi scuote
     Dal cupo sonno! Ah, padre mio, tu fosti,
     Che due volte la vita m’hai donata.
     Mil. (con trasporto) Sposa!
     Arm.                                    Sposo!
     Jen.                                      Cognata! Oh maraviglia!
      (s’abbracciano reciprocamente)
     Smer. (furiosa di giubilo) Oh stupor grande! oh che mai vidi! oh cara!
     (bacia Arm.) Io son fuori di me, scusate, (corre per la scena) Gente,
     Ministri, guardie, accorrete, accorrete.
     Venite a veder cose oltre natura.
     Accorrete.

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SCENA ULTIMA.

Leandro, Tartaglia, Pantalone, Truffaldino e Brighella co’ loro fardelli e detti.


     Lean. (correndo) Che fu? (guarda Jen.) Che veggo mai!
     Tart. (correndo, suo atto di stupore) La statua!... Jennaro!

Pant. (correndo; sua sorpresa) Cossa vedio! Viscere mie... Ah lassè, che ve struccola, che ve magna. (accarezza con trasporto Jen.)

     Truff. e Brigh. (correndo, loro sorpresa e pentimento)
     Nor. Or ben. Vedete, pazzi, questa Corte
     Tutta cambiata, e in festa. Non si parte.
     Provato abbiam, se falsa illusione
     Ha sugli animi forza e se perdono
     Può meritar da un Pubblico. Il vedremo.
     Le risa or s’incominciano, e si perde
     Tutta la gravità, lugubre e tragica. (si fa innanzi e chiude la Rappresentazione con le seguenti parole, colle quali sogliono le vecchierelle chiudere le Fole a’ fanciulli, che le ascoltano)

Si rinnovellino le nozze con rape in composta, sorci pelati, gatti scorticati, e, se d’altro non siamo degni, almeno i fanciulletti colle loro picciole mani faccian qualche segno di aggradimento.