tanti ne apprese al fanciullo Arpàlico figlio d’Ermète,
di Fanotèa, cui niuno, vedendolo pur da lontano,
cuore d’attendere avea, quand’ei ne l’agone lottava:
tale era impresso a lui sul viso terribil cipiglio.
Ad eccitare cavalli al cocchio aggiogati, e nel giro
schivar la meta e incolume l’asse serbar de le ruote,
al suo figliuolo fu maestro Anfitríone stesso:
ché prezïosi doni sovente egli avea dagli agoni
impetuosi, ad Argo l’equestre recati; ed i cocchi
dove ei salía, perdevan col tempo consunte le briglie.
Ad affrontare un guerriero con l’asta protesa e lo scudo
dietro le spalle, a sfidare le crude ferite dei brandi,
ad ordinar la falange, a computo far d’una squadra,
quando s’avanza ostile, dare ordini a gente a cavallo,
Càstore l’ammaestrò, l’Ippàlide, giunto fuggiasco
d’Argo, ove tutto Tidèo regnava il vitifero piano,
ché Adrasto il regno d’Argo l’equestre gli aveva lasciato.
Ercole, dunque, cosí venía dalla madre educato.
Presso al giaciglio del padre steso era il giaciglio del bimbo,
un vello di leone, che assai gli piaceva. Il suo pasto
era di carne arrostita, e dentro un canestro, un gran pane
dorico: un zappaterra poteva di certo far sazio.
Ma sobria era sul vespro la cena, e di cibi non cotti.
E rozza era la veste, né a mezzo copriva le gambe.