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172 TEOCRITO

mentre avanzavano, orrenda, sputavano tossico acerbo.
Ma poi che, lingueggiando, fûr giunti vicino ai bambini,
ecco, mercè di Giove, cui nulla si cela, fûr desti
d’Alcmena i dolci figli, brillò ne la casa un fulgore.

Ificle tosto gridò, come vide gli orribili mostri
sul cavo scudo, vide brillare le luride zanne,
e con un colpo dei piedi gittò la villosa coperta,
tentando di fuggire. Ma Ercole, surto alla lotta,
stese le mani, ed entrambi serrò con un duro legame
gli angui fatali alle strozze, dov’essi nascondono il tòsco
fatale, ond’hanno orrore perfino i Signori d’Olimpo.
E si divincolavano entrambi d’intorno al fanciullo,
lattante, al tardi nato, che mai fra le braccia non pianse
della nutrice; ma poi si sciolser coi dorsi fiaccati,
ed uno scampo essi stessi cercâr dalla stretta fatale.
Ed ecco, il grido udí prima AIcmena, che prese a gridare:
«Anfitrïóne, sórgi, ché grave terrore m’invade:
lèvati, non ti curare di stringerti i sandali ai piedi.
Non odi il piú piccino dei bimbi, come urla? Non vedi
che le pareti tutte, sebbene sia notte ancor buia,
sono fulgenti, quasi brillasse la limpida Aurora?
C’è, c’è qualcosa di nuovo, in casa, marito mio bello».

Disse. E Anfitríone, udita la sposa, balzò giú dal letto,
stese la mano alla spada sua bella, che sopra il giaciglio
appesa, pronta sempre, teneva a un piolo di cedro.
E d’una mano impugnò il balteo di fresco intessuto,
con l’altro la guaina leggiadra di legno di loto,
e tutta la gran sala fu invasa di nuovo dal buio.
I servi indi chiamò, sprofondati nel grave sopore:
«Portate presto il fuoco, prendetelo dal focolare,
famigli miei: levate dagli usci le spranghe massicce».