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56 TEOCRITO

«A mezzogiorno dove trascini il tuo pie’, Simicída,
quando perfino il ramarro sopito riposa tra i rovi,
quando le, lodolette pur esse sospendono i voli?
Forse a un banchetto vai senza scotto? O alla pigia dell’uva
d’un qualche paesano t’affretti? Ché sotto i calzari,
mentre tu vai, per la strada ti canta la ghiaia che schiacci».
     Ed io risposi: «Tutti lo dicono, o Lícida caro,
che nel sonar la sampogna tu superi tutti i pastori,
i mietitori tutti. Ne gode, e non poco, il mio cuore.
Ma nel cervello mio m’illudo ch’io possa emularti.
Alle Talísie noi siamo diretti: ché nostri compagni
offrono un pranzo alla Diva Demètra dal fulgido peplo,
offrono le primizie: ché adesso, con pingue misura,
la Dea colmava l’aia di grano prescelto. Su via,
poi ch’è per noi comune la strada, comune l’aurora,
leviamo il canto agreste. Profitto trarrà l’un dell’altro.
Ché dalle Muse anch’io m’ebbi fervido labbro; e cantore
tutti mi dicono insigne; né facile a illudermi io sono.
Per Giove, ed io non credo che vincer nel canto potrei
Sicèlida di Samo, l’egregio cantor, né Filèta:
sarei come la rana che la guerra impegnasse coi grilli».
     A bella posta dissi cosí. Dolcemente ridendo,
disse il capraro: «Ed io ti fo dono di questo vincastro:
ché tu sei proprio un ramo di Giove tagliato dal vero.
Fastidio grande ho anch’io di quel murator che s’affanna
a fabbricare una casa che uguagli la vetta d’un monte,
di quegli uccelli poeti che contro il cantore di Chio
levano il loro cuccú, perdendoci tempo e fatica.
Dunque, su’ via, diamo presto principio a l’agreste canzone,
o Simicída; ed io, vedi un po’ questa mia canzonetta
se ti piacesse, o caro, che ieri ho composta sul monte».